ISSN 2039-1676


27 dicembre 2010 |

Monitoraggio novembre 2010

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte EDU rilevanti in materia penale

Anche per il mese di novembre il monitoraggio delle sentenze e delle decisioni delle Corte europea dei diritti dell’Uomo che interferiscono con il diritto penale sostanziale è accompagnato da una breve introduzione, nella quale vengono segnalate al lettore le pronunce di maggiore interesse, con particolare attenzione alle loro ripercussioni sull’ordinamento italiano.
Ricordiamo che tutti i provvedimenti citati sono reperibili sul database ufficiale HUDOC della Corte di Strasburgo, attraverso il numero di ricorso (segnalato in grassetto).
 
SOMMARIO
 
 
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1. Introduzione
 
a) Dei casi decisi nel mese di novembre in tema di art. 2 Cedu, merita senz’altro menzione la sentenza Ölmez c. Turchia, in cui la Corte ha ravvisato una violazione strutturale dell’art. 2 Cedu con riferimento alla scriminante dell’uso legittimo delle armi prevista dalla legislazione in materia di contrabbando in vigore in Turchia al momento del fatto (e successivamente riformata), la quale non prevedeva il requisito della proporzione. Quanto alle ricadute sul sistema penale italiano, la decisione – che ribadisce i principi affermati nelle sentenze Beyazgül c. Turchia (22 settembre 2009, n. 27849/03) e Halis Akin Turchia (13 gennaio 2009 n. 30304/02) – conferma la necessità di interpretare - per evitare violazioni convenzionali - le scriminati previste dagli artt. 52 e 53 del nostro codice penale come se contenessero il requisito della proporzione.
 
Nella sentenza Serdar Yigit e altri c. Turchia, invece, la Corte – adita dai genitori di un giovane suicidatosi durante il servizio militare – ha escluso la violazione dell’art. 2 Cedu perché l’indagine condotta a livello nazionale aveva accertato che l’uomo si era tolto la vita a seguito di una decisione improvvisa, come tale imprevedibile.
 
Particolare importanza riveste, poi, la sentenza Seidova e altri c. Bulgaria – relativa alla morte di un cittadino bulgaro appartenente alla minoranza rom durante uno scontro a fuoco con le guardie private di un campo nel quale si era introdotto per rubare alcune cipolle – in cui la Corte ha ravvisato una violazione procedurale dell’art. 2 Cedu in quanto la legge bulgara, in assenza di accuse formali di un reato (come accaduto nel caso di specie, in cui il procedimento era stato archiviato perché le guardie avevano agito in legittima difesa), non obbliga le autorità a coinvolgere nelle indagini i prossimi congiunti della vittima e esclude altresì la possibilità per questi ultimi di costituirsi parte civile.
 
Al contrario, nella sentenza Stoyanovi c. Bulgaria la Corte ha escluso la violazione procedurale dell’art. 2 Cedu rilevando come – trattandosi di un’ipotesi di violazione colposa di detta norma – i ricorrenti avrebbero dovuto richiedere in sede civile l’accertamento di eventuali responsabilità e il risarcimento del danno patito per la morte del figlio, un soldato di leva bulgaro rimasto accidentalmente ucciso durante delle esercitazioni di lancio con il paracadute.
 
Infine, merita un cenno la sentenza Amuyeva e altri c. Russia, in cui la Corte ha reputato integrata una violazione sostanziale dell’art. 2 Cedu in riferimento all’uccisione di quattro cittadini ceceni da parte di alcuni soldati dell’esercito russo.
 
 
b) Anche questo mese le pronunce rese dalla Corte in tema di art. 3 Cedu sono particolarmente numerose. Tra queste, cinque riguardano l’inadeguatezza delle condizioni carcerarie (Grozavu c. Romania; Arefyev c. Russia; Ali c. Romania; Roman Karesev c. Russia e I. D. c. Moldovia); otto riguardano, invece, casi di maltrattamenti ad opera delle forze dell’ordine, di cui cinque al momento dell’arresto o immediatamente dopo (Samardak c. Ucraina; Darraj c. Francia; Timitik c. Turchia; CiÄŸerhun Öner c. Turchia; Ivan Kuzmin c. Russia) e tre durante la detenzione (Kovalchuk c. Ucraina; Aleksandr Sokolov c. Russia; Musa Ylmaz c. Turchia). Tra quelli citati, pare opportuno segnalare il caso Darraj in cui la Corte ha ravvisato una violazione dell’art. 3 Cedu (sub specie di trattamento inumano e degradante), in una vicenda che vede come stato convenuto la Francia, e non la Russia o la Turchia, come più frequentemente accade. In particolare, la Corte ha respinto l’eccezione del Governo francese secondo cui il ricorrente non poteva proclamarsi “vittima” di una violazione della Convenzione ai sensi dell’art. 34 Cedu, perché il procedimento avviato in sede nazionale si era concluso con la condanna degli agenti in sede penale, affermando che l’azione approntata in sede nazionale non costituiva una risposta adeguata per una violazione dell’art. 3 Cedu (sul caso, cfr. comunque più ampiamente la scheda di Angela Colella, pubblicata in questa Rivista).
 
Nel mese di novembre le pronunce in materia di espulsione sono due: nella sentenza Sultanov c. Russia la Corte, basandosi su reports di organizzazioni internazionali, ha ravvisato una violazione potenziale dell’art. 3 Cedu per il caso in cui il ricorrente fosse effettivamente estradato dalla Russia in Uzbekistan. Nel caso Boutagni c. Francia, invece, la Corte ha escluso la violazione potenziale dell’art. 3 Cedu ritenendo sufficienti le assicurazioni fornite dal Governo francese di non eseguire l’espulsione del ricorrente verso il Marocco, dove lo stesso corre il rischio di essere sottoposto a tortura o trattamenti inumani o degradanti.
 
 
c) In tema di art. 5 §1 Cedu, giova ricordare la sentenza Baudoin c. Francia in cui la Corte ha riconosciuto la violazione dell’art. 5 comma 1 lett. e) Cedu, in quanto l’applicazione della misura di sicurezza dell’ospedale psichiatrico giudiziario nei confronti del ricorrente non era giustificata da un effettivo disturbo psichico.
 
 
d) Sul fronte dell’art. 8 Cedu,riveste particolare importanza la pronuncia Hajduova c. Slovacchia in cui la Corte, dando seguito a quanto in precedenza affermato nella recente sentenza A. c. Croazia (14.10.2010), ha ravvisato una violazione degli obblighi di protezione contro la violenza domestica discendenti dall’art. 8 Cedu, perché le misure a tutela della ricorrente (vittima dei maltrattamenti dell’ex marito) disposte dai giudici nazionali non erano state effettivamente eseguite dalle autorità nazionali.
 
 
e) In tema di art. 11 Cedu, si segnala la sentenza Turan Bicer c. Turchia, in cui la Corte ha ritenuto che l’arresto e la condanna della ricorrente alla pena di tre anni e nove mesi di reclusione per la sua partecipazione ad alcune manifestazioni di protesta non autorizzate fosse una misura sproporzionata e costituisse, pertanto, una violazione di detta norma, anche se la donna era stata liberata dopo aver scontato solo due anni di reclusione per effetto dell’entrata in vigore di una legge generale di amnistia.
 
 
f) Si segnala, infine, la sentenza Greens e M.T. c. Regno Unito in tema di art. 3, Prot. n. 1 Cedu. La Corte, facendo seguito alla decisione della Grande Camera Hirst c. Regno Unito del 2005, ha ravvisato una violazione sistemica di detta norma in relazione alla legislazione elettorale inglese che prevede la privazione del diritto di voto a seguito di qualsiasi condanna a pena detentiva, indipendentemente dalla durata della stessa e della gravità del crimine commesso. Considerato, poi, il grave ritardo da parte del Regno Unito nel conformarsi alla decisione della Grande camera in Hirst e il numero di ricorsi simili che pendono nei confronti dello Stato convenuto (circa 2.500), la Corte ha invitato lo Stato inglese ad emendare la legislazione elettorale in maniera da assicurarne la conformità con i principi convenzionali, fissando un termine di sei mesi dal momento in cui la decisione diverrà definitiva, per la presentazione di un disegno di legge.
 
Quanto alle ripercussioni sul diritto penale sostanziale italiano, quest'ultima pronuncia appare particolarmente rilevante perché evidenzia possibili profili di frizione con la normativa convenzionale della disciplina dell’interdizione (perpetua o temporanea) dai pubblici uffici (artt. 28 e 29 c.p.), che comporta, tra l’altro, la privazione del diritto di elettorato attivo e passivo, come conseguenza automatica alla condanna all’ergastolo o alla reclusione non inferiore a cinque anni (nel qual caso l’interdizione è perpetua) o alla reclusione non inferiore a tre anni (nel qual caso essa ha durata quinquennale).
 
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2. Articolo 2 Cedu
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 9 novembre 2010, n. 42980/04, Stoyanovi c. Bulgaria,  (importance level  3)
I ricorrenti sono i genitori di un soldato di leva bulgaro, rimasto accidentalmente ucciso durante delle esercitazioni di lancio con il paracadute. L’indagine interna, coordinata da una commissione di esperti, stabiliva che l’incidente era stato determinato dalla scarsa velocità dell’elicottero al momento del lancio e dal mancato coordinamento tra i membri dell’equipaggio. Si accertava, inoltre, che questi ultimi non erano stati adeguatamente preparati e informati: in particolare, il responsabile dell’esercitazione non aveva indicato al comandante del velivolo la velocità da raggiungere prima di effettuare il lancio. Invece, l’inchiesta penale, avviata d’ufficio dal procuratore generale, si concludeva con un provvedimento di archiviazione per insufficienza di prove.
La Corte esclude una violazione diretta dell’art. 2 Cedu ritenendo che lo Stato avesse adottato tutte le misure cautelari necessarie per prevenire incidenti del tipo di quello verificatosi. Sostiene, inoltre, che l’inchiesta interna, caratterizzatasi per prontezza, imparzialità e diligenza, sia riuscita a fare luce sulle cause dell’incidente. Il fatto che l’indagine penale, invece, si sia conclusa con un provvedimento di archiviazione non comporta una violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo procedurale, poiché a fronte di violazioni colpose dell’art. 2 Cedu non sussiste l’obbligo per le autorità nazionali di instaurare un processo penale. Nel caso di specie, quindi, le vittime, sulla base dei risultati dell’inchiesta interna, avrebbero dovuto richiedere in sede civile l’accertamento di eventuali responsabilità e il risarcimento del danno.
 
 C. eur. dir. uomo, sent. 9 novembre 2010, sez. II, 20245/05, Serdar Yigit e altri c. Turchia, (importance level 2)
I ricorrenti sono i familiari di un giovane soldato turco, suicidatosi durante il servizio militare. L’inchiesta penale, aperta il giorno successivo all’incidente, accertava che il giovane si era tolto lo vita in un momento di depressione, conseguentemente ad una decisione improvvisa ed escludeva qualsiasi responsabilità delle autorità turche.
I ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 2 Cedu per la mancata adozione da parte dello Stato di misure cautelari che avrebbero potuto prevenire la morte del loro caro, che soffriva notoriamente di depressione e per il mancato svolgimento di indagini circa la possibilità che il giovane fosse stato ucciso.
La Corte sostiene che non vi siano elementi per mettere in discussione la teoria del suicidio adottata dalle autorità nazionali. Ritiene inoltre che la decisione del ricorrente di togliersi la vita non fosse assolutamente prevedibile, dal momento che  il suo comportamento e le sue condizioni psichiche non avevano mai lasciato presagire alcun pericolo per la sua incolumità. Pertanto, la Corte, per sei voti contro uno, esclude la violazione diretta dell’art. 2 Cedu. Il giudice Popovic nella sua opinione dissenziente sostiene, invece, che le autorità militari turche fossero a conoscenza del fatto che il giovane soffrisse di una forma grave di depressione psichica – tanto che gli avevano recentemente affidato funzioni d’ufficio e in cucina – ma che queste misure non siano state adeguate a salvaguardarne la vita.
Quanto all’inchiesta penale sull’accaduto, la Corte è dell’avviso che essa sia stata tempestiva, ma che non sia stata eseguita diligentemente: innanzitutto, i ricorrenti non venivano esaminati nonostante la loro esplicita richiesta, inoltre, non risulta accertato che le indagini siano state effettivamente integrate a seguito della richiesta del giudice istruttore. Pertanto, la Corte riconosce una violazione procedurale dell’art. 2 Cedu.
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 9 novembre 2010, n. 22746/03, Ölmez e altri c. Turchia(importance level 2)
I ricorrenti sono i familiari di un pastore turco, ucciso da alcuni soldati turchi in una zona militare di confine con l’Iraq nel 2003, durante il conflitto iraqueno. Secondo il Governo turco, i militari avevano scambiato il pastore per un contrabbandiere ed erano intervenuti intimando il fermo, prima di sparare alcuni colpi nella sua direzione e colpirlo a morte.
I ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo sostanziale e procedurale.
La Corte, richiamando i propri precedenti Beyazgül c. Turchia (sent. 22 settembre 2009, n. 27849/03) e Halis Akin Turchia (sent. 13 gennaio 2009 n. 30304/02), riscontra una violazione strutturale dell’art. 2 Cedu in relazione alla causa di giustificazione dell’uso delle armi contemplate dalla legislazione turca in materia di contrabbando in vigore al momento del fatto (e successivamente riformata nel 2003 e nel 2007), la quale non prevedeva il requisito della proporzione. Non ritiene, invece, necessario soffermarsi sulla legittimità nel caso concreto del ricorso all’uso della forza da parte della polizia né di esaminare la violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo procedurale.
 
 C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 18 novembre 2010, n. 310/04, Seidova e altri c. Bulgaria, (importance level 2)
La vicenda riguarda la morte di un cittadino bulgaro, appartenente alla minoranza rom durante uno scontro a fuoco con le guardie private di un campo, nel quale si era introdotto per rubare alcune cipolle. Subito dopo il fatto veniva aperta un inchiesta che si concludeva con un provvedimento di archiviazione perché le guardie avevano agito in legittima difesa. Secondo la legge bulgara, i parenti della vittima, tuttavia, non avevano la possibilità di partecipare alle indagini in quanto la guardia che aveva esploso il colpo di pistola nei confronti del loro prossimo congiunto non veniva formalmente accusata di un reato. Contro il decreto di archiviazione, i ricorrenti proponevano opposizione alla Corte regionale, che esaminava e rigettava il ricorso inaudita altera parte. La decisione veniva confermata nei successivi gradi di giudizio, senza che i ricorrenti avessero accesso agli atti di indagine.  
La Corte riconosce la violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo procedurale in quanto la legge bulgara, in assenza di accuse formali di un reato, non obbliga le autorità a coinvolgere nelle indagini i prossimi congiunti della vittima e esclude altresì la possibilità di costituirsi parte civile. La Corte non ritiene, invece, necessario esaminare separatamente la questione relativa alla violazione dell'art. 13 Cedu in combinato disposto con l’art. 2 Cedu (per la mancanza di un rimedio effettivo) e dichiara irricevibile il ricorso in relazione alla violazione dell’art. 14 Cedu (divieto di discriminazione) perché i ricorrenti non allegavano elementi sufficienti a sostegno della discriminazione subita in ragione della loro appartenenza alla minoranza rom, né avevano sollevato la questione davanti alle autorità giudiziarie nazionali.
 
 C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 25 novembre 2010, n. 17321/06, Amuyeva e altri c. Russia, (importance level 2)
La vicenda riguarda la morte di quattro giovani ceceni, uccisi da alcuni soldati dell’esercito russo nel febbraio del 2000, durante il conflitto ceceno. Sei mesi dopo veniva aperta un inchiesta che si concludeva con un provvedimento di archiviazione per l’impossibilità di identificare i responsabili. Tale provvedimento veniva notificato ai parenti delle vittime solo nel 2005. L’anno successivo, a seguito di un duplice ricorso degli interessati, l’autorità giudiziaria ordinava al pubblico ministero la riapertura delle indagini, che sono tutt’ora pendenti.
I ricorrenti invocano gli artt. 2, 13 e 14 Cedu.
La Corte riconosce una duplice violazione dell’art. 2, sia sotto il profilo sostanziale che procedurale. Quanto al primo profilo, la Corte, considerato che le autorità russe non fornivano una spiegazione alternativa degli eventi in questione, afferma che le allegazioni dei ricorrenti (in particolare, le deposizioni dei testimoni diretti dell’accaduto) sono sufficienti ad accertare che le vittime sono state uccise da militari russi. Con riferimento al profilo procedurale, la Corte riconosce l’ineffettività delle indagini svolte in ragione del ritardo nella loro apertura, del mancato coinvolgimento delle vittime e della mancata adozione di azioni volte ad identificare i militari responsabili delle uccisioni.
Infine, la Corte riconosce la violazione dell’art. 13 in relazione all’art. 2 Cedu perché l’ineffettività e l’inefficacia delle inchiesta sull’accaduto ha precluso ai ricorrenti l’esercizio di un rimedio effettivo per la violazione del loro diritto. Esclude, invece, la violazione dell’art. 14 Cedu non ritenendo accertato che i ricorrenti abbiano subito un trattamento discriminatorio in quanto cittadini ceceni.
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 25 novembre 2010, n. 75726/01, Lyubov Efimenko c. Ucraina, (importance level 2)
Il ricorrente lamenta l’ineffettività dell’inchiesta sulla morte del proprio figlio, avvenuta nel 1993, a seguito di un aggressione in un bar. Le indagini, che venivano aperte subito dopo il fatto, si concludevano nel 1997 con un provvedimento di archiviazione per impossibilità di individuare i responsabili. A seguito della richiesta della ricorrente, venivano riaperte nel 2004, e sono tutt’ora pendenti. La Corte è dell’avviso che le indagini, svoltesi a partire dal 2004, siano svolte in modo discontinuo e negligente e che abbiano subito notevoli ritardi con un evidente pregiudizio per la genuinità delle prove. Ravvisa, pertanto, una violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo procedurale. La Corte non ritiene invece necessario esaminare separatamente la lamentata violazione dell’art. 13 in relazione all’art. 2 Cedu (diritto ad un ricorso effettivo).
 
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  3. Articolo 3
 
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 2 novembre 2010, n. 38281/08, Matasaru e Savitchi c. Moldova,  (importance level  3)
I ricorrenti, marito e moglie, lamentano l’ineffettività delle indagini svolte sull’aggressione subita dal primo dei due all’uscita del proprio negozio:  in particolare, due uomini – uno dei quali risultava essere un agente di polizia fuori servizio – lo colpivano violentemente in testa con una spranga di ferro facendogli perdere i sensi. A seguito della denuncia dei ricorrenti, l’autorità inquirente rifiutava di aprire un’inchiesta penale, sostenendo che l’uomo si fosse ferito cadendo, in conseguenza di un attacco epilettico: solo due anni dopo l’aggressione, veniva infine aperta un’inchiesta che è tutt’ora pendente.
La Corte riconosce la violazione dell’art. 3 sotto il profilo procedurale perché l’inchiesta penale non veniva avviata tempestivamente e diligentemente; le indagini subivano continue sospensioni e ritardi e non veniva garantito il coinvolgimento delle vittime.
 
 C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 2 novembre 2010, n. 24419/04, Grozavu c. Romania, (importance level 2)
I ricorrente, accusato del delitto di corruzione, lamenta di essere stato detenuto nell’istituto penitenziario di Bucarest-Jilava per un periodo di due mesi e venti giorni in condizioni di sovraffollamento carcerario (nella cella lo spazio vitale era pari a 1,4 metri quadrati e vi si trovavano solo 35 letti per 72 detenuti) e di scarsa igiene (la cella era infesta da pidocchi e durante il periodo della detenzione del ricorrente la stessa amministrazione penitenziaria aveva denunciato ben due casi di epatite virale cronica e altri due di dissenteria). Sostiene, inoltre, il ricorrente di essere stato sottoposto a umiliazioni come la rasatura del capo e l’obbligo di indossare l’uniforme carceraria.  
Basandosi sui rapporti del CPT e sulle stesse ammissioni del Governo, la Corte ravvisa una violazione diretta dell’art. 3 Cedu (sub specie di trattamento degradante) relativamente al profilo delle condizioni della detenzione, e accorda al ricorrente 6.000 euro a titolo di risarcimento del danno subito.
 
 C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 4 novembre 2010, n. 43109/05, Samardak c. Ucraina, (importance level 3)
Nell’aprile del 2002 il ricorrente, colto in possesso di un coltello, veniva portato alla stazione di polizia per essere interrogato: durante l’interrogatorio i poliziotti lo ammanettavano, lo percuotevano ripetutamente e tentavano di  impiccarlo “alla palestinese”). A seguito della denuncia del ricorrente, l’autorità inquirente, ritenendo condivisibile l’allegazione dei poliziotti secondo cui l’uso della forza nei confronti del ricorrente era stato necessario per condurlo alla stazione di polizia, rifiutava di aprire un’inchiesta penale sull’accaduto: solo nell’ottobre del 2002 (dopo cinque mesi dal verificarsi del fatto) veniva iniziato un procedimento penale nei confronti dei poliziotti accusati delle violenze, procedimento che si concludeva nel marzo del 2003 per insufficienza di prove. Successivamente il procedimento veniva aperto e chiuso, sempre per mancanza di prove, almeno tre volte: nel 2009 le indagini erano ancora pendenti.
La Corte, accogliendo le censure del ricorrente, riconosce la violazione diretta dell’art. 3 Cedu (sub specie di trattamenti inumai e degradanti); ritiene, inoltre, inefficace l’inchiesta condotta a livello nazionale (perché non è stata tempestiva e perché durava quasi otto anni senza riuscire a far luce sull’accaduto), e pertanto ravvisa anche la violazione procedurale della suddetta norma. 
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 4 novembre 2010, n. 21958/05,  Kovalchuk c. Ucraina, (importance level 2)
La ricorrente sostiene che il figlio, condannato nel settembre 2002 per resistenza a pubblico ufficiale, durante la detenzione veniva picchiato da alcuni poliziotti (in particolare veniva ammanettato e impiccato alla palestinese) fino a quando confessava di aver commesso un omicidio. Il dicembre dello stesso anno il procedimento iniziato nei suoi confronti veniva archiviato per insufficienza di prove. Nel 2007, l’uomo moriva per un attacco di cuore. A seguito della denuncia della ricorrente, veniva aperta una inchiesta penale, che si svolgeva in modo discontinuo e che è tutt’ora pendente.
La Corte, chiamata a pronunciarsi su un’eventuale violazione dell’art. 3 Cedu, rileva anzitutto come i poliziotti abbiano usato la forza nei confronti del ricorrente per estorcergli la confessione di un crimine che non aveva commesso, abusando dello stato di vulnerabilità psichica del medesimo (che era detenuto per un altro crimine) e riconosce pertanto una violazione diretta dell’art. 3 Cedu (sub specie di trattamenti disumani e degradanti). In secondo luogo, la Corte censura la lungaggine delle indagini (tutt’ora pendenti dopo 8 anni dalla commissione del fatto) riscontrando, pertanto, anche una violazione procedurale della suddetta norma.
 
 C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 4 novembre 2010, n. 34588/07, Darraj c. Francia, (importance level 2)
Il ricorrente, all’epoca dei fatti sedicenne, veniva fermato dalla polizia per un controllo mentre si trovava a bordo di un’auto parcheggiata, che gli agenti sospettavano fosse stata rubata, e veniva condotto in caserma per l’identificazione. Una volta giunti in caserma, i poliziotti tentavano di ammanettarlo e di fronte alla sua opposizione, lo percuotevano e insultavano procurandogli delle lesioni gravi. Nei confronti degli agenti veniva instaurato un procedimento penale che si concludeva in primo grado con la condanna degli stessi a quattro anni e otto mesi di reclusione, condizionalmente sospesa; in secondo grado, invece, la pena veniva rideterminata in 800 euro di ammenda. Al ricorrente venivano inoltre riconosciuti, in sede civile, 5000 euro a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale subito.
La Corte ravvisa una violazione dell’art. 3 Cedu sotto il profilo sostanziale, perché l’uso della forza fisica da parte degli agenti non era necessario, e comunque era sproporzionato, rispetto alla resistenza opposta dal ricorrente (un ragazzo di sedici anni, di corporatura gracile e calmo fino al quel momento).
La Corte respinge l’eccezione del Governo francese secondo cui il ricorrente non poteva proclamarsi “vittima” di una violazione della Convenzione ai sensi dell’art. 34 Cedu, perché il procedimento avviato in sede nazionale si è concluso con la condanna degli agenti in sede penale. Sul punto la Corte osserva che l’azione approntata in sede nazionale non costituisce una risposta adeguata per una violazione dell’art. 3 Cedu, per una triplice ragione: 1)  i responsabili venivano condannati ad una pena pecuniaria di modesta entità; 2) nei loro confronti non veniva inflitta alcuna sanzione disciplinare; 3) la somma riconosciuta al ricorrente a titolo di riparazione era di molto inferiore a quella corrisposta dalla Corte stessa in casi analoghi (che è pari all’incirca a 15000 euro).

 C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 4 novembre 2010, n. 15303/09, Sultanov c. Russia, (importance level 2)
Il ricorrente, sospettato di essere membro di un’organizzazione terroristica islamica, lamenta la violazione potenziale dell’art. 3 Cedu per il caso in cui venisse estradato dalla Russia in Uzbekistan, in ragione dell’elevata possibilità che egli, una volta giunto nel Paese di origine, venga sottoposto a tortura. Sostiene inoltre che la sua detenzione ai fini dell’estradizione sarebbe in contrasto con l’art. 5§1 Cedu.
La Corte – anche sulla base dei reports di organizzazioni internazionali impegnate per la tutela dei diritti umani – ritiene che il rischio che il ricorrente sia sottoposto a tortura una volta estradato in Tagikistan sia reale ed effettivo, nonostante le assicurazioni diplomatiche fornite dalle autorità uzbeke. Riconosce, quindi, una violazione potenziale dell’art. 3 Cedu e, conseguentemente, ha ritenuto che la detenzione del ricorrente ai fini dell’estradizione fosse in contrasto con l’art. 5 § 1 Cedu.
 
 C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 4 novembre 2010, n. 20364/05, Aleksandr Sokolov c. Russia, (importance level 2)
Nel febbraio del 2002 il ricorrente veniva fermato dalla polizia perché sospettato di aver commesso un omicidio e veniva condotto in caserma per essere interrogato: i poliziotti lo picchiavano per due giorni interi, procurandogli tra l’altro la frattura di quattro costole; lo costringevano a restare nudo davanti ad una finestra aperta; gli bruciavano i genitali con un accendino e lo insultavano davanti agli altri detenuti, fino quando questi aveva confessato.  Due mesi dopo l’accaduto, il ricorrente denunciava i maltrattamenti subiti, ma il pubblico ministero, ritenendo attendibile la versione della polizia secondo cui il ricorrente era stato aggredito in un bar prima del suo arresto, decideva di non aprire un’inchiesta penale sulla accaduto. Il ricorrente veniva, quindi, condannato per omicidio a dieci anni di reclusione. 
La Corte, accogliendo le censure del ricorrente, riconosce anzitutto la violazione diretta dell’art. 3 Cedu (sub specie di tortura in considerazione della gravità delle condotte e dello scopo specifico di estorcere una confessione) e ritiene infettiva l’inchiesta condotta a livello nazionale, ravvisando pertanto anche la violazione procedurale della suddetta norma; inoltre riscontra la violazione dell’art. 5 comma 1 Cedu perché le autorità statali omettevano del tutto di registrare l’arresto del ricorrente. 
 
 C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 4 novembre 2010, n. 29464/03, Arefyev c. Russia, (importance level 3)
Nel 2003 il ricorrente, sospettato di estorsione aggravata, veniva sottoposto alla custodia cautelare per un periodo di tempo pari ad oltre 8 mesi in un centro di detenzione temporanea.
Lamenta la violazione diretta dell’art. 3 Cedu (per essere stato rinchiuso, insieme ad altri 22 detenuti, in una cella di soli 25 mq, con un solo letto e senza areazione e illuminazione sufficienti; nonché per essere stato picchiato da alcune guardie carcerarie) e dell’art. 5 comma 1 lett. c Cedu (per essere stato illegittimamente sottoposto alla custodia cautelare in carcere).
La Corte accoglie entrambe le censure del ricorrente. Quanto alla violazione dell’art. 3 Cedu, la Corte, anche sulla base delle stesse ammissioni del Governo, ritiene che il ricorrente sia stato sottoposto a trattamenti disumani e degradanti durante la custodia cautelare, per il solo fatto che il medesimo veniva detenuto in una cella sovraffollata.
 
 C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 9 novembre 2010, n. 20307/02, Ali c. Romania (importance level 2)
Il ricorrente, condannato per il delitto di cessione di stupefacenti, lamenta la violazione diretta dell’art. 3 Cedu perché durante il periodo della custodia cautelare le guardie carcerarie, ogni giorno, prima di interrogarlo, lo chiudevano all’interno di un bagno, nudo, e lo insultavano pesantemente per sei ore consecutive. Lamenta, inoltre, le condizioni della sua detenzione: innanzitutto, affermadi essere stato rinchiuso, insieme ad altri dodici detenuti, in una cella senza riscaldamento, in cui si trovavano solo dieci letti e che era fornita di acqua calda corrente solo un giorno alla settimana per mezzora; in secondo luogo, sostiene di non essere stato nutrito sufficientemente e di non essere stato sottoposto a cure mediche per la tubercolosi di cui soffriva. Infine, denuncia di essere stato costretto ad indossare le manette durante gli interrogatori e le udienze.
Invoca altresì la violazione dell’art. 6 Cedu perché durante le indagini venivano impiegati due agenti provocatori.
La Corte accoglie entrambe le censure del ricorrente. Quanto alla violazione dell’art. 3 Cedu, basandosi anche sui rapporti del CPT, riconosce che le condizioni della detenzione del ricorrente ammontano di per sé ad un trattamento degradante ai fini della norma suddetta e non ritiene, pertanto, necessario esaminare le ulteriori doglianze sotto questo profilo.
 
 C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 9 novembre 2010, n. 12503/06, Timtik c. Turchia, (importance level 2)
Nel 2004, la ricorrente, che all’epoca dei fatti era praticante avvocato, veniva arrestata durante una manifestazione, fuori dal Palazzo di giustizia, in supporto di alcuni membri del DHKP/C, morti in carcere conseguentemente ad uno sciopero della fame. Sostiene di non aver partecipato alla manifestazione e che la polizia la fermava mentre si stava recando in tribunale, per depositare un ricorso avente ad oggetto proprio le circostanze della morte dei membri del DHKP. Lamenta di essere stata colpita in viso e alla testa da un gruppo di poliziotti con dei manganelli. Il Governo, invece, obietta che la ricorrente lanciava delle pietre nei confronti dei poliziotti che tentavano di disperdere la manifestazione e che la medesima si opponeva violentemente all’arresto, rendendo pertanto necessario l’uso della forza nei suo confronti.
La Corte riconosce che la ricorrente ha riportato delle lesioni gravi alla testa e al viso, sulla base del certificato medico prodotto dalla medesima e che l’uso della forza fisica da parte dei poliziotti nei suoi confronti non può ritenersi giustificato dalla necessità di disperdere una manifestazione. Per tali ragioni, la Corte riconosce la violazione diretta dell’art. 3 Cedu (sub specie di trattamento disumano). Riscontra altresì la violazione procedurale della suddetta norma, perché l’inchiesta penale interna è stata infettiva ed inefficace, non riuscendo a far luce sulla necessità nel caso di specie dell’uso della forza da parte dei poliziotti.
 
 C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 18 novembre 2010, n. 42360/08, Boutagni c. Francia, (importance level 2)
Il ricorrente, cittadino marocchino, veniva condannato nel luglio 2007 alla pena di cinque anni di reclusione e all’espulsione verso il proprio paese di origine per aver partecipato alla preparazione dell’attentato terroristico di Casablanca del 2003. La decisione veniva confermata nei successivi gradi di giudizio. Il ricorrente presentava quindi richiesta di asilo politico.
Nelle more della decisione riguardo alla richiesta di asilo, ricorreva inoltre alla Corte europea lamentando che l’esecuzione della sua espulsione verso il Marocco avrebbe comportato una violazione dell’art. 3 Cedu, in relazione all’elevata possibilità che egli, una volta giunto nel paese di origine, fosse sottoposto a tortura. Lamenta altresì la violazione dell’art. 8 Cedu (diritto al rispetto della vita privata e familiare) sostenendo che viveva in Francia dall’età di undici anni, insieme alla propria famiglia, e che ivi manteneva la totalità dei propri legami affettivi e familiari.
Nelle more del procedimento, la Corte ingiungeva quindi allo Stato francese di non procedere alla espulsione sino alla decisione nel merito del ricorso, ai sensi della Rule of Court n. 39.
La Corte riconosce, sulla base di reports di organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti fondamentali, che sussiste un serio rischio che il ricorrente venga sottoposto a tortura nel paese di destinazione; tuttavia, prendendo atto che il Governo francese ha assicurato di non eseguire l’espulsione del ricorrente verso il paese di origine, esclude la violazione potenziale dell’art. 3 Cedu. Per le stesse ragioni, la Corte esclude la violazione potenziale dell’art. 8 Cedu.
 
 C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 23 novembre 2010, n. 2858/07, CiÄŸerhun Öner c. Turchia, (importance level 2)
Il ricorrente, all’epoca dei fatti dodicenne, veniva fermato da due poliziotti per essere identificato e, poiché si rifiutava di fornire agli agenti le proprie generalità, veniva condotto in caserma: uno dei poliziotti ordinava all’altro di colpirlo al viso, provocandogli un ematoma sopra lo zigomo destro e un’iperemia all’occhio destro. Nei confronti degli agenti veniva instaurato un procedimento penale che si concludeva in primo grado con la condanna dell’agente che aveva colpito il ricorrente alla pena di tre anni di reclusione, condizionalmente sospesa, e l’assoluzione dell’altro poliziotto; in secondo grado, invece, veniva riconosciuto anche il poliziotto che aveva impartito l’ordine di colpire il ricorrente, e nei suoi confronti veniva applicata una pena di tre anni di reclusione – ridotti a tre anni per buona condotta processuale (nonostante non avesse mai partecipato alle udienze) – condizionalmente sospesa.
La Corte, sulla base dei referti medici prodotti e in assenza di una spiegazione adeguata dei segni di violenza da parte delle autorità, ritiene accertato che il ricorrente sia stato picchiato durante il fermo. Ad avviso della Corte, poi, l’uso della forza nei confronti del ricorrente non è stato necessario, tenuto conto in particolare della sua giovane età. Per tale ragione, essa ravvisa una violazione diretta dell’art. 3 Cedu (sub specie di trattamento inumano e degradante). La Corte riscontra altresì una violazione procedurale dell’art. 3 Cedu per una triplice ragione: 1) l’inchiesta penale interna durava più di otto anni; 2) la pena inflitta ad uno degli agenti di polizia veniva ridotta per buona condotta processuale, nonostante non avesse mai partecipato alle udienze, e veniva altresì condizionalmente sospesa; 3) nei confronti dei poliziotti non veniva irrogata alcuna sanzione disciplinare.
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 25 novembre 2010, n. 30251/03, Roman Karasev c. Russia, (importance level 2)Il ricorrente, dal 1999 al 2002, veniva detenuto in diverse occasioni nel carcere di Kalinigrad perché sospettato di aver commesso numerosi reati. Con riferimento a ciascun periodo di custodia cautelare, lamenta di essere stato rinchiuso, insieme a molti altri detenuti in celle di dimensioni ridotte, senza letti sufficienti per tutti e infestate dagli insetti, oltre che mal areate e mal illuminate.
La Corte, basandosi anche sui rapporti del CPT, riconosce una violazione diretta dell’art. 3 Cedu (sub specie di trattamento inumano e degradante) con riferimento al sovraffollamento carcerario e riscontra altresì una violazione dell’art. 13 Cedu ritenendo che non costituiscono un rimedio effettivo nei confronti di una violazione dell’art. 3 Cedu né la possibilità di presentare un reclamo all’amministrazione penitenziaria né quella di richiedere un risarcimento in sede civile.
 
 C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 25 novembre 2010, n. 20429/07, Ivan Kuzmin c. Russia, (importance level 3)Il ricorrente, un maestro di scuola elementare, fermato perché sospettato di aver abusato di un allievo, veniva picchiato da un gruppo di poliziotti mentre si trovava in caserma. Il giorno successivo, veniva aperta un’inchiesta penale sull’accaduto, inchiesta che al momento è ancora pendente. Nel frattempo, il ricorrente, accusato di resistenza ad un pubblico ufficiale, a seguito di un processo durato sei anni, veniva assolto per non aver commesso il fatto.
La Corte, accogliendo le doglianze del ricorrente, riconosce la violazione dell’art. 3 Cedu sia sotto il profilo sostanziale (sub specie di trattamento inumano, soprattutto in considerazione del fatto che il ricorrente, a causa delle lesioni riportate, restava in ospedale circa un mese) che procedurale (quest’ultima con riferimento alla durata eccessiva delle indagini, che proseguivano per nove anni senza riuscire a far luce sull’accaduto); dell’art. 5 Cedu (con riferimento alla illegittimità della custodia cautelare) e dell’art. 6 Cedu (per la durata eccessiva del processo penale contro il ricorrente).
 
 C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 30 novembre 2010, n. 27566/06, Musa Ylmaz c. Turchia, (importance level 3)
Il ricorrente, all’epoca dei fatti sedicenne, veniva arrestato per furto: durante la custodia cautelare veniva bendato e preso a calci e pugni, successivamente veniva posto in isolamento senza cibo né acqua. La Corte, accogliendo le doglianze del ricorrente, riconosce  la violazione dell’art. 3 Cedu sia sotto il profilo sostanziale che procedurale (quest’ultimo in relazione alla durata eccessiva delle indagini che non si concludevano prima che i reati cadessero in prescrizione).
 
 C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 30 novembre 2010, n. 27566/06, Musa Ylmaz c. Turchia, (importance level 3)
Il ricorrente, arrestato per furto, invoca l’art. 3 Cedu lamentando di essere stato picchiato in caserma e denunciando inoltre le condizioni della sua detenzione cautelare (la cella era sovraffollata, non c’erano letti sufficienti per tutti i detenuti, non era riscaldata né era fornita di luce ed acqua corrente).
La Corta riconosce la violazione diretta dell’art. 3 Cedu sotto entrambi i profili.
 
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 4. Articolo 5 Cedu
 
 C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 18 novembre 2010, n. 35935/03, Baudoin c. Francia, (importance level  3)Il ricorrente, condannato nel 1975 a venti anni di reclusione per i delitti di omicidio e tentato omicidio. Nel 1983 veniva riconosciuto infermo di mente e veniva ricoverato in un manicomio giudiziario, dove è attualmente detenuto.
La Corte riconosce la violazione dell’art. 5 comma 1 lett. e Cedu perché il ricorrente è stato detenuto per un periodo superiore alla pena di venti anni di reclusione originariamente applicata nella sentenza di condanna, senza che sussistessero un effettivo e persistente disturbo psichico. La Corte riscontra altresì la violazione dell’art. 5 comma 4 Cedu perché al ricorrente veniva negato il diritto di accesso ad un tribunale che riesaminasse le sue condizioni mentali e la validità del suo internamento.
 
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 30 novembre 2010, n. 19789/08, Joczyk c. Polonia (importance level 3)
Il ricorrente, sospettato di maltrattamenti in famiglia e affetto da schizofrenia paranoica, veniva sottoposto alla custodia cautelare in carcere nell’attesa che fosse disponibile un posto in una struttura specializzata nel trattamento di soggetti affetti da malattie mentali.
La Corte, rigettando la doglianza del ricorrente, esclude la violazione dell’art. 5 comma 1 Cedu, affermando che il ritardo del ricovero in un istituto psichiatrico del ricorrente non poteva essere addebitata al governo polacco, dal momento che questi impugnava il provvedimento di ricovero nell’ospedale psichiatrico.
 
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 5. Articolo 8 Cedu
 
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 2 novembre 2010,  n. 41723/06, Gillberg c. Svezia, (importance level  3) 
Il ricorrente, un docente di psichiatria infantile all’Università di Gothenburg, veniva condannato per abuso di ufficio con pena sospesa per aver impedito a due ricercatori, legalmente autorizzati, di accedere ai risultati delle sue ricerche su minori affetti da disordini mentali a due ricercatori. La Corte ha escluso che la condanna del ricorrente abbia violato l’art. 8 Cedu per una duplice ragione. Innanzitutto, secondo quanto previsto dalla legislazione nazionale in materia di riservatezza di dati personali, il ricorrente aveva l’obbligo di consentire l’accesso ai risultati delle sue ricerche ai soggetti autorizzati dall’autorità amministrativa. In secondo luogo, tale condanna risulta proporzionata rispetto allo scopo legittimo di consentire l’accesso ad informazioni scientifiche di interesse pubblico. 
 
 C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 30 novembre 2010, n. 2660/03, Hajduova c. Slovacchia, (importance level 2)
La ricorrente, parzialmente disabile, veniva ripetutamente maltratta e minacciata di morte dall’ex marito, affetto da gravi turbe psichiche (bipolarismo con tendenza alla violenza). L’uomo, che in passato era stato condannato quattro volte per delitti violenti, veniva chiamato a rispondere del delitto di maltrattamenti. All’esito del giudizio, la Corte, riconosciuto l’imputato infermo di mente, disponeva il suo internamento in un ospedale psichiatrico: tuttavia, dopo una sola settimana, l’uomo veniva dimesso perché l’autorità giudiziaria ometteva di ordinare la prosecuzione del trattamento sanitario coattivo. Poco dopo la liberazione, l’uomo tornava a maltrattare l’ex moglie e, a seguito di una nuova denuncia di quest’ultima, veniva nuovamente rinviato a giudizio e internato.
La ricorrente lamenta la violazione degli articoli 8 e 5 Cedu in quanto le autorità slovacche omettevano di proteggerla dalle aggressioni del marito, non ordinando la prosecuzione del suo internamento nella struttura psichiatrica in cui era stato ricoverato.
La Corte, richiamando la sua recente decisione in A. c. Croazia, ribadisce il principio secondo cui dall’art. 8 Cedu discendono non solo obblighi di astensione, ma anche obblighi positivi che possono comportate l’adozione di misure di protezione anche nell’ambito delle relazioni domestiche. Nel caso di specie tali obblighi non sono stati soddisfatti perché le autorità croate, pur essendo a conoscenza del fatto che l’uomo rappresentava un pericolo per l’integrità fisica della moglie, non prendevano provvedimenti adeguati per assicurare che egli fosse sottoposto a trattamento psichiatrico. Pertanto, la Corte ravvisa la violazione diretta dell’art. 8 Cedu.
La Corte esclude, invece, la violazione dell’art. 5 Cedu, affermando che dalla suddetta norma non discende l’obbligo per lo stato di proteggere le persone sottoposte ad un pericolo per la loro incolumità fisica, ma solo l’obbligo di proteggere da privazioni arbitrarie della libertà personale.
 
 
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 6. Articolo 11 Cedu
 
 C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 30 novembre 2010, n. 3224/03, Turan Bicer c. Turchia, (importance level 2)Nel 2001 il ricorrente veniva arrestato per aver partecipato a due manifestazioni non autorizzate del partito PKK e condannato alla pena di tre anni e nove mesi di reclusione. Nel 2003, il ricorrente veniva liberato grazie alla legge di amnistia entrata in vigore lo stesso anno in favore dei condannati per delitti politici. La Corte, richiamando i propri precedenti in materia (tra cui la sent. 27 giugno 2006, Cetinkaya c. Turchia, n. 75569/01 avente ad oggetto un caso del tutto simile) ha riscontrato una violazione dell’art. 11 Cedu, ritenendo che l’imposizione in capo al ricorrente di una pesante pena detentiva costituisca una misure sproporzionata ai sensi di detta norma nonostante sia stata in parte estinta per effetto di un provvedimento generale di aministia, dal momento che entrambe le manifestazioni (seppur non autorizzate) si erano svolte pacificamente e senza pericolo per l’ordine pubblico.
 
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7. Art. 3, Prot. n. 1 Cedu
 
 C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 23 novembre 2010, n. 60041/08, Greens e M.T. c. Regno Unito, (importance level 1)
I ricorrenti, due detenuti, lamentano di essere stati esclusi dal registro elettorale in occasione delle elezioni nazionali del 2010. La legge elettorale inglese prevede, infatti, la privazione del diritto di voto a seguito di qualsiasi condanna a pena detentiva indipendentemente dalla durata della stessa e della gravità del crimine commesso.
La Corte, facendo seguito alla decisione in Hirst c. Regno Unito – in cui la Grande camera nel 2005 aveva ritenuto la legislazione inglese incompatibile con la Convenzione in quanto la misura della privazione del diritto di voto non può conseguire automaticamente alla sentenza di condanna ma deve essere accompagnata da una motivazione adeguata delle ragioni per cui si è resa necessaria nel caso concreto – dichiara all’unanimità la violazione dell’art. 3, Prot. n. 1 Cedu.
La Corte osserva, poi, che contro lo Stato convenuto pendono circa 2.500 riguardanti il divieto imposto ai detenuti di votare nelle elezioni nazionali. Considerata la natura sistemica della violazione convenzionale e il grave ritardo da parte del Regno Unito nel conformarsi alla decisione della Grande camera in Hirst, la Corte invita, pertanto, lo Stato inglese ad emendare la legislazione elettorale in maniera da assicurarne la conformità con i principi convenzionali, fissando un termine di sei mesi dal momento in cui la decisione diverrà definitiva, per la presentazione di un disegno di legge. Durante tale periodo la Corte sospenderà l’esame dei ricorsi contro la Gran Bretagna relativi alla violazione dell’art. 3, Prot. n. 1 Cedu.