7 gennaio 2013 |
Monitoraggio Corte EDU ottobre 2012
Rassegna di sentenze e decisioni della Corte EDU rilevanti in materia penale
Prosegue il monitoraggio mensile delle sentenze e delle più importanti decisioni della Corte EDU che interferiscono con il diritto penale sostanziale. La scheda mensile è, come di consueto, preceduta da una breve introduzione contenente una presentazione ragionata dei casi decisi dalla Corte, nella quale vengono segnalate al lettore le pronunce di maggiore interesse.
Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.
SOMMARIO
1. Introduzione
2. Articolo 2 Cedu
3. Articolo 3 Cedu
4. Articolo 4 Cedu
5. Articolo 5 Cedu
6. Articolo 10 Cedu
* * *
1. Introduzione
a) Per ciò che concerne la giurisprudenza sull'art. 2 Cedu rilevante in materia penale, occorre anzitutto segnalare due pronunce che riguardano ipotesi di decesso di soggetti sottoposti a misure limitative della libertà personale nelle quali, tanto in caso di suicidio (sentenza Coselav c. Turchia) quanto di morte ritenuta riconducibile alla condotta dell'autorità pubblica (sentenza Ghimp e altri c. Repubblica Moldova), la Corte ha riscontrato una violazione degli obblighi positivi, sostanziali e procedurali, promananti dalla disposizione.
Anche nell'ottobre 2012, peraltro, si registra un caso di condanna della Turchia per la morte di alcuni cittadini avvenuta in occasione delle operazioni antiterrorismo condotte dagli agenti governativi (in questo senso, si veda la pronuncia Nihayet Arici e altri c. Turchia).
Merita segnalazione anche la pronuncia Yotova c. Bulgaria, in cui la Corte rileva una violazione dell'obbligo procedurale di cui all'art. 2 Cedu vista l'estrema lentezza e lacunosità delle indagini svolte dalla polizia in relazione ad un'ipotesi di tentato omicidio capace di compromettere le possibilità di individuazione degli autori.
b) Quanto all'art. 3 Cedu, un primo gruppo di sentenze affronta un tema ricorrente nella giurisprudenza della Corte europea, ossia quello delle violenze subite da soggetti sottoposti a misure privative della libertà personale e rispetto alle quali i giudici di Strasburgo, facendo leva sull'onere della prova a carico degli Stati convenuti di dimostrare la non riconducibilità delle lesioni all'operato della pubblica autorità, riscontrano frequentemente una violazione della disposizione tanto da un punto di vista sostanziale quanto, in caso di assenza di inchieste effettive, da un punto di vista procedurale. Appartengono a questo filone, in particolare, le pronunce Andresan c. Romania, Ghita c. Romania, Grigoryev c. Russia, Eylem Bas c. Turchia, Ablyazov c. Russia, Virabyan c. Armenia, Jurijs Dmitrijevs c. Lettonia, Mikiashvili c. Georgia, Najafli c. Azerbaijan (in cui viene rilevata anche una violazione dell'art. 10 Cedu), Bures c. Repubblica Ceca (quest'ultima relativa a trattamenti subiti durante un periodo di internamento psichiatrico). Proprio una violazione degli obblighi procedurali, peraltro, residua talvolta qualora la Corte non ritenga imputabili le lesioni all'operato degli agenti pubblici, come nei casi Mitkus c. Lettonia e Otamendi Egiguren c. Spagna. Non mancano, d'altra parte, ipotesi in cui i giudici di Strasburgo giudichino insussistente ogni responsabilità data la mancata dimostrazione di un grado minimo di severità dei trattamenti subiti (come nel caso Bortkevich c. Russia).
Nel solco della precedente giurisprudenza della Corte si pongono anche le sentenze nelle quali viene riconosciuta una violazione dell'art. 3 Cedu alla luce delle condizioni carcerarie, soprattutto nei casi di sovraffollamento o condizioni di igiene inadeguate. In proposito, si vedano le varie sentenze Kolunov c. Russia, Dimitrios Dimopoulos c. Grecia, Asyanov c. Russia, Zentsov e altri c. Russia, Valeriy Lopata c. Russia, Ardelean c. Romania, Dmitriy Rozin c. Russia (almeno rispetto ad una frazione del periodo di detenzione). Situazione in parte analoga è quella relativa all'inadeguato trattamento di detenuti sofferenti di determinate patologie, affrontata dalla Corte, con esiti divergenti, nelle pronunce Kulikowski c. Polonia (n. 2) e Pichugin c. Russia.
Considerazione specifica, invero, appaiono meritare alcune sentenze in materia di "carcere duro": in particolare, si registrano due pronunce di condanna della Polonia in cui è stata rilevata una violazione dell'art. 3 Cedu in relazione a periodi trascorsi dai ricorrenti in un regime carcerario differenziato le cui modalità (con particolare riferimento al protrarsi dell'isolamento e alle frequenti perquisizioni corporali) sono state ritenute contrarie ai divieti posti dalla disposizione (si vedano Glowacki c. Polonia, Pawel Pawlak c. Polonia) ed una sentenza contro la Turchia relativa all'applicazione del regime di isolamento ad un soggetto omosessuale non ritenuta realmente giustificabile alla luce delle esigenze di proteggere lo stesso dagli altri detenuti (così X. c. Turchia, in cui viene rilevata pertanto anche una violazione del divieto di discriminazione di cui all'art. 14 Cedu).
Nella sentenza Iseri e altri c. Turchia, ancora, una violazione dell'art. 3 Cedu è riscontrata dalla Corte europea anche in un caso di maltrattamenti subiti da parte delle forze dell'ordine non in fasi di limitazione della libertà personale, bensì durante manifestazioni tenute in luogo pubblico. Ancora, la disposizione è stata ritenuta violata in un caso in cui il soggetto attivo (di una violenza sessuale) era un privato, proprio in virtù degli obblighi positivi, sostanziali e procedurali, che incombono sullo Stato rispetto agli atti contrari alla disposizione anche in tali situazioni (in proposito, si veda la sentenza E. M. c. Romania).
Sono riconducibili ad un altro orientamento piuttosto consolidato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, infine, alcune recenti sentenze in materia di divieto di espulsione o estradizione verso determinati Paesi, anche non aderenti alla Convenzione, nei quali vi sia il rischio di sottoposizione dei soggetti allontanati a trattamenti contrari all'art. 3 Cedu: rilevano una violazione della disposizione in ipotesi di questo tipo, in particolare, le pronunce Abdulkhakov c. Russia, Singh e altri c. Belgio, Makhmudzhan Ergashev c. Russia.
c) Nell'ottobre 2012 la Corte ha adottato anche due pronunce interessati sotto l'angolo dell'art. 4 della Convenzione, il quale sancisce i divieti di sottoposizione a lavori forzati e di riduzione in schiavitù. Anzitutto, nella sentenza Zhelyazkov c. Bulgaria, non viene rilevata alcuna violazione in un'ipotesi di applicazione della sanzione dei lavori di pubblica utilità non remunerati in quanto, all'epoca dei fatti, l'esigenza di un compenso non era ancora indicata dalle fonti sovranazionali rilevanti. In secondo luogo, si registra una pronuncia di condanna per violazione degli obblighi di tutela penale promananti dalla disposizione in relazione alla mancata predisposizione di un quadro normativo adeguato ai fini della repressione della riduzione in schiavitù; in questo senso, in particolare, si veda la sentenza C. N. e V. c. Francia, in cui la Corte osserva come nulla sia mutato nell'ordinamento francese dopo i rilievi che gli stessi giudici di Strasburgo avevano mosso nella precedente giurisprudenza.
d) Diverse sono le pronunce interessanti anche sotto l'angolo dell'art. 5 Cedu. Anzitutto, si segnalano due sentenze in cui è stata riscontrata dalla Corte una violazione della disposizione in relazione a vicende di sottoposizione a misure di sicurezza limitative della libertà personale, o perché non caratterizzate da un trattamento autenticamente terapeutico (L. B. c. Belgio) o perché disposte in assenza dei reali presupposti applicativi (Plesó c. Ungheria).
La pronuncia Karabadze e altri c. Georgia, diversamente, concerne un'ipotesi di arresto rispetto alla quale la Corte rileva una violazione dell'art. 5 Cedu attesa la mancanza di ogni base legale nel diritto interno in grado di autorizzare l'applicazione della misura, nonché dei presupposti idonei a giustificarne il prolungamento. Similmente, la mancanza di base legale viene individuata nel caso Niyazov c. Russia rispetto al provvedimento di custodia cautelare disposto in vista della successiva estradizione ma in un periodo in cui tale richiesta non era ancora pendente e, quindi, in assenza delle condizioni previste dalla legge nazionale. Sempre in una vicenda di limitazione della libertà personale in vista della futura estradizione, invece, la Corte ha rilevato una violazione della disposizione per la mancanza di ogni indicazione del termine massimo di custodia previsto dalla legge (v. Rakhmonov c. Russia).
Due casi, infine, concernono ancora misure privative della libertà personale disposte rispetto a soggetti che avevano presentato richiesta di asilo, la cui relativa procedura era nella fase di valutazione sul merito; richiamando la precedente giurisprudenza sul punto, la Corte ha ravvisato per tale motivo una violazione dell'art. 5 Cedu (v. le sentenze Hendrin Ali Said e Aras Ali Said c. Ungheria e Al-Tayyar Abelhakim c. Ungheria).
e) Quanto alle pronunce inerenti l'art. 10 Cedu, come avviene di frequente, si registrano casi in cui la Corte è chiamata ad esprimersi sulla correttezza del bilanciamento operato dagli Stati membri in sede punitiva tra la libertà di espressione e la tutela di altri interessi contrapposti, valutazione nella quale vengono prese in considerazione le varie specificità del caso concreto e, soprattutto, il contenuto delle opinioni espresse e l'entità della sanzione inflitta. Nell'ambito di tale sindacato, la Corte ha così rilevato una violazione della disposizione convenzionale in un caso di condanna ad una pena detentiva convertita in sanzione pecuniaria per il reato di istigazione all'odio razziale, escludendo che l'opinione espressa dal ricorrente potesse essere considerata tale (sentenza Önal c. Turchia), giudicato sproporzionata la condanna di due giornalisti per diffamazione ai danni di un politico dato che i due ricorrenti, nella loro pur aspra critica, avevano preso spunto in buona fede da notizie non del tutto infondate (sentenza Jucha e Zak c. Polonia) ma anche ritenuto congrua l'applicazione di sanzioni pecuniarie in relazione all'utilizzo di espressioni molto critiche in un articolo da parte di un'esponente dei sindacati di polizia sull'organizzazione del corpo (pronuncia Szima c. Ungheria) ovvero alle insinuazioni di corruzione mosse a mezzo stampa da parte di un avvocato ai danni di un magistrato (sentenza Karpetas c. Grecia). (Introduzione a cura di Francesco Mazzacuva).
* * *
2. Articolo 2 Cedu
C. eur. dir. uomo. sez. II, 9 ottobre 2012, ric. n. 1413/07, Coselav c. Turchia (importance level 3)
Il diciassettenne figlio dei due ricorrenti commette suicidio mentre si trova detenuto nell'ala destinata agli adulti di un carcere turco; i suoi genitori ricorrono alla Corte europea, ritenendo violati gli artt. 2, 3, 6 e 13 Cedu.
La questione viene esaminata esclusivamente alla luce dell'art. 2 Cedu che la Corte ritiene violato sotto il profilo sia sostanziale che procedurale. Per quanto riguarda l'aspetto sostanziale, i giudici di Strasburgo ritengono che le autorità turche, nonostante fossero pienamente a conoscenza dell'intento suicida del ricorrente - che altre volte aveva tentato di togliersi la vita - e del malessere che egli provava nelle strutture penitenziarie cui era destinato, non abbiano fatto tutto quanto in loro potere per proteggere la vita del giovane loro affidata; e anzi, lo avevano destinato a un'ala del carcere destinata agli adulti, nonostante le sue rimostranze e nonostante ben si potesse immaginare il disagio psicologico provato da un adolescente nell'essere recluso insieme a degli adulti (sul punto, si richiama la sentenza Güveç c. Turchia, ric. n. 70337/01). Circa l'aspetto procedurale dell'art. 2 Cedu, la Corte stigmatizza il fatto che i genitori della vittima non siano stati prontamente avvisati della morte del figlio, così impedendo loro di partecipare alle indagini per un certo periodo di tempo, e che gli inquirenti non abbiano mosso alcun passo per accertare se la morte del giovane fosse in qualche modo imputabile a un deficit della struttura carceraria.
C. eur. dir. uomo, sez. II, 23 ottobre 2012, ric. nn. 24604/04 e 16855/05, Nihayet Arici e altri c. Turchia (importance level 2)
A seguito di un'operazione antiterrorismo condotta da forze militari turche nel villaggio di Bozyamaç, nel distretto di Semdinli, i cadaveri di due parenti dei ricorrenti vengono rinvenuti insieme ad altri cinque corpi. Le indagini condotte da diverse autorità nazionali (dalla Procura della Repubblica, dal Consiglio amministrativo e dal Tribunale correzionale) si rivelano inconcludenti, vista la non collaborazione da parte delle forze armate turche, che inizialmente negano di aver svolto attività militari nella zona, poi si rifiutano di fornire i nominativi dei militari partecipanti alle operazioni. I ricorrenti ritengono pertanto che il comportamento delle autorità turche violi l'art. 2 Cedu, tanto sotto l'aspetto sostanziale, perché la morte dei parenti dei ricorrenti sarebbe stata cagionata dai militari turchi, quanto sotto l'aspetto procedurale, vista l'inconcludenza delle inchieste interne.
La Corte europea accoglie la doglianza dei ricorrenti e ritiene sussistente una violazione dell'art. 2 Cedu sotto entrambi i profili. Circa il profilo sostanziale, i giudici di Strasburgo confermano la versione dei fatti prospettata dai parenti delle vittime e poi accolta nella prima delle indagini, portata avanti dalla Procura della Repubblica: i militari avrebbero effettivamente compiuto, nel medesimo giorno, operazioni militari nella zona di Bozyamaç; i ricorrenti sarebbero stati trattenuti nello stesso giorno presso la caserma distrettuale di Semdinli, e lì visti per l'ultima volta; e infine, l'autopsia dei cadaveri dimostrerebbe senza ombra di dubbio che le ferite sarebbero state cagionate con armi da fuoco assimilabili a quelle in uso alle forze armate. L'uccisione dei parenti dei ricorrenti è quindi senz'altro imputabile ai militari turchi, e non avendo inoltre lo Stato turco giustificato in alcun modo l'uso della forza da parte dei militari, è in violazione dell'art. 2 Cedu. Per quanto riguarda il profilo procedurale, la Corte ritiene che lo stato turco non abbia portato avanti un'inchiesta ufficiale effettiva, approfondita e celere, a causa soprattutto della reticenza delle autorità militari nel fornire informazioni sull'operazione in discussione. Non viene ritenuta effettiva, infatti, l'inchiesta del Consiglio amministrativo, perché giudicato organo non indipendente; né quella del tribunale correzionale, giacché conclusasi con una sentenza di non luogo a procedere; né, infine, quella della Procura perché deficitaria nella raccolta dei mezzi di prova. La Corte ritiene pertanto violato l'art. 2 Cedu anche sotto il profilo procedurale, e intima allo Stato turco di concludere le inchieste tuttora pendenti nel più breve tempo possibile.
C. eur. dir. uomo, sez. IV, 23 ottobre 2012, ric. n. 43606/04, Yotova c. Bulgaria, (importance level 2)
La ricorrente, cittadina bulgara appartenente all'etnia rom, viene attinta durante una festa che si svolge nel suo cortile di casa da cinque colpi di arma da fuoco, che la raggiungono al torace, alla spalla e al braccio. In conseguenza delle ferite riportate, perde l'uso del braccio sinistro e le viene riscontrata un'invalidità del 76%. Secondo la vittima, il suo ferimento sarebbe dovuto a motivi di odio razziale: qualche giorno prima di questo fatto era scoppiata una faida tra alcuni giovani di origine rom, suoi compaesani, e altri di origine bulgara, i quali si sarebbero poi recati nel villaggio della ricorrente per regolare i conti coi giovani romeni e solo per errore l'avrebbero ferita. Le autorità bulgare aprono un'inchiesta penale per tentato omicidio, che viene però più volte sospesa per l'impossibilità d'identificare l'autore del reato: i confronti svolti dagli inquirenti e finalizzati a identificare sia la macchina utilizzata dagli aggressori sia l'individuo che la ricorrente avrebbe descritto come il suo aggressore, infatti, non portano ad alcun risultato probatorio certo.
I giudici di Strasburgo ritengono che le indagini particolarmente lacunose portate avanti dagli inquirenti costituiscano una violazione da parte della Bulgaria dell'art. 2 Cedu sotto il suo aspetto procedurale: in particolare, i confronti sarebbero stati effettuati a notevole distanza di tempo dai fatti (circa 3 anni), rendendendoli pertanto inevitabilmente meno affidabili (in particolare il confronto dell'indiziato, tenuto conto del fatto che la ricorrente all'epoca dei fatti lo aveva descritto in modo particolareggiato, e aveva affermato di averlo incontrato più volte successivamente); non sarebbe stata effettuata alcuna perizia balistica né dei bussolotti riscontrati di fronte all'abitazione della ricorrente né dei fucili da caccia rinvenuti nell'abitazione di uno dei giovani bulgari, tenuto conto anche del fatto che la ricorrente aveva descritto l'arma utilizzata dal suo aggressore proprio come un'arma da caccia. Per quanto riguarda la violazione dell'art. 14 Cedu, la Corte europea ritiene che lo Stato bulgaro non abbia fatto quanto in suo potere - in particolare all'interno del procedimento penale - per appurare se il tentato omicidio fosse dovuto a odio razziale, considerando che nel caso di specie sussistevano svariati indizi per riconoscere nel razzismo il movente del delitto.
C. eur. dir. uomo, sez. III, 30 ottobre 2012, ric. n. 32520/09, Ghimp e altri c. Repubblica Moldova (importance level 2)
I ricorrenti sono i parenti del signor Leonid Ghimp, che nel dicembre 2005 viene condotto in una stazione di polizia di Ciocana a seguito di un alterco con un tassista, e muore dopo aver passato la notte nella stazione di polizia. L'autopsia condotta da un équipe medica rivela che la morte è riconducibile a una perforazione dell'intestino causata nella notte del 10 dicembre. Viene aperto un procedimento penale, e a seguito della confessione di uno dei tre agenti e della testimonianza di una ragazza presente nella stazione di polizia, i tre agenti sono condannati per omicidio nei primi due gradi di giudizio; giunti in terzo grado, però, la confessione viene ritirata, la testimonianza della ragazza dichiarata inattendibile e la causa rinviata alla Corte d'Appello. Una nuova perizia medica, ritenuta più attendibile della prima (ed effettuata da uno solo dei medici membri dell'équipe), ritiene più ampio il lasso di tempo durante il quale la ferita potrebbe essere stata causata, e i tre poliziotti vengono assolti. I ricorrenti ritengono che i tre agenti di polizia siano responsabili della morte del sig. Ghimp e che lo Stato moldavo non abbia portato avanti un'indagine effettiva su di essa; la violazione pertanto riguarderebbe l'art. 2 Cedu sia sotto il profilo sostanziale che procedurale.
La Corte europea, non giudicando convincente la spiegazione alternativa dagli agenti (il sig. Ghimp sarebbe caduto mentre era nella stazione di Ciocana), ritiene costoro responsabili oltre ogni ragionevole dubbio della morte della vittima; lo Stato moldavo, per mezzo dei suoi agenti, ha quindi violato il lato sostanziale dell'art. 2 Cedu. Tale norma convenzionale è stata violata anche dal punto di vista procedurale, giacché l'inchiesta è stata portata avanti, secondo la Corte, in modo non indipendente e non genuinamente diretto all'accertamento della verità dei fatti.
* * *
3. Articolo 3 Cedu
C. eur. dir. uomo, sez. III, 2 ottobre 2012, ric. n. 40094/05, Virabyan c. Armenia (importance level 1)
Il ricorrente, attivista di un partito d'opposizione, viene prelevato nella notte da due agenti di polizia con l'accusa di detenere, e aver portato con sé durante una manifestazione pre-elettorale organizzata dagli oppositori del Presidente armeno, un'arma da fuoco. Viene interrogato presso una stazione di polizia e riporta delle serie lesioni all'apparato riproduttivo, che le autorità affermano essere il frutto di una colluttazione con un agente originata dal ricorrente; egli viene quindi incriminato per le lesioni riportate dall'agente di polizia. Si rivolge alla Corte europea, ritenendo di essere stato sottoposto a trattamenti contrari all'art. 3 Cedu e ritenendo inoltre che le autorità armene non abbiano adempiuto all'obbligo di indagine scaturente dall'art. 3 Cedu; invoca anche l'art. 6 § 2 Cedu per quanto riguarda il procedimento penale cui è stato sottoposto.
Per quanto riguarda la violazione sostanziale dell'art. 3 Cedu, la Corte ritiene che trattandosi di soggetto affidato alle autorità di polizia dello Stato, spetta a quest'ultime fornire una spiegazione alternativa ragionevole delle modalità con cui il ricorrente si sarebbe procurato la menomazione. Nel caso di specie la Corte non ritiene soddisfacente la spiegazione fornita dallo Stato armeno e dà quindi ragione al ricorrente, concludendo che nella stazione di polizia egli sia stato sottoposto a vera e propria tortura. Deficitario per quanto riguarda il rispetto delle garanzie convenzionali è il comportamento dello Stato anche per quanto riguarda l'aspetto procedurale dell'art. 3 Cedu, non avendo lo Stato armeno svolto alcuna inchiesta effettiva ed indipendente volta ad acclarare il reale svolgimento dei fatti. La Corte ravvisa anche una violazione dell'art. 6 § 2 Cedu, perché l'imputato sarebbe stato scientemente presunto colpevole fin dall'inizio del procedimento a suo carico.
C. eur. dir. uomo, sez. I, 2 ottobre 2012, ric. n. 2594/07, Najafli c. Azerbaijan (importance level 2)
Il ricorrente è un giornalista azerbaijano, che assiste a una manifestazione non autorizzata nella città di Baku, durante la quale viene malmenato dalla polizia, nonostante indossi un tesserino identificativo. Presenta denuncia alle autorità inquirenti, le quali aprono un'inchiesta penale, presto sospesa, vista l'impossibilità delle autorità di pubblica sicurezza d'identificare gli agenti responsabili dell'aggressione; né miglior esito ha la richiesta del ricorrente di ottenere il risarcimento dei danni in sede civile.
Il giornalista ricorre quindi alla Corte di Strasburgo, ritenendo violati gli artt. 3, 6 e 10 Cedu. Per quanto riguarda il divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti, la Corte europea ritiene che il pestaggio subito dal ricorrente abbia quel grado di severità minimo richiesto per essere considerato in contrasto con l'art. 3 Cedu. Buona parte della motivazione è poi spesa sull'obbligo procedurale che grava sugli Stati in virtù dell'art. 3 stesso e dell'art. 1 Cedu: lo Stato azero non avrebbe ottemperato a tale obbligo, dal momento che le autorità inquirenti, preso atto dell'impossibilità da parte delle autorità di polizia di identificare i colpevoli, non avrebbero utilizzato i poteri - di cui pur disponevano - per procedere autonomamente all'individuazione dei responsabili e avrebbero poi sospeso l'inchiesta senza darne notizia al giornalista, impedendogli di ricorrere avverso tale decisione. Il ricorrente ritiene poi che il comportamento tenuto dalle forze di polizia nei suoi confronti contrasti con l'art. 10, poiché gli avrebbe impedito di esercitare il proprio diritto di cronaca, senza che vi fosse alcuna ragione di pubblica sicurezza per agire con la forza nei suoi riguardi e pur essendo egli ben riconoscibile grazie al badge da giornalista. Anche su questo punto, la Corte dà ragione al ricorrente, ritenendo che nonostante la mancanza dell'apposita casacca, il giornalista fosse ben identificabile proprio grazie al badge indossato. La questione relativa all'art. 6 Cedu è assorbita nel côté procedurale dell'art. 3 Cedu.
C. eur. dir, uomo, sez. III, 2 ottobre 2012, ric. n. 7259/03, Mitkus c. Lettonia (importance level 2)
Il ricorrente, cittadino di origine lettone, è sottoposto a misura cautelare detentiva dal 1999 per ipotizzata estorsione; nel 2002 viene indagato anche per furto, e conclusisi i due processi, viene sottoposto ad esami medici nel momento del suo ingresso nella struttura carceraria nella quale è destinato a scontare la sua pena definitiva. A seguito di tali esami, risulta essere infetto da Hiv ed epatite C. Ritenendo che l'origine di tali malattie sia imputabile alla negligenza del personale medico della struttura detentiva nella quale era ospitato dal 1999 (in particolare, all'utilizzo di siringhe multiuso), effettua richiesta di risarcimento e successivamente chiede venga aperto un procedimento penale, che tuttavia non vede mai la luce essendo pendente la richiesta di risarcimento in sede civile. Il ricorrente si rivolge quindi alla Corte europea, ritenendo violato l'art. 3 Cedu sia nel suo lato sostanziale che formale.
La Corte di Strasburgo, pur dando atto dell'estrema confusione dell'amministrazione penitenziaria nel datare il momento in cui si sia passati all'utilizzo di siringhe monouso, ritiene comunque che la responsabilità del personale medico carcerario non possa essere affermata al di là di ogni ragionevole dubbio, tenendo conto del lungo periodo di latenza che caratterizza entrambe le patologie. Il contagio del ricorrente non è quindi imputabile con certezza allo Stato, che pertanto non ha violato l'art. 3 nel suo lato sostanziale; la violazione della norma è però avvenuta sul lato formale, avendo la Lettonia trascurato di porre in essere un'inchiesta adeguata - in particolare, sulle abitudini di vita del ricorrente prima della sua detenzione - tenuto anche conto delle richieste del ricorrente stesso in tal senso.
C. eur. dir. uomo, sez. I, 2 ottobre 2012, rc. n. 27359/05, Bortkevich c. Russia (importance level 3)
Il ricorrente ritiene di essere stato sottoposto a trattamenti contrari all'art. 3 Cedu nel corso della sua detenzione. A seguito di violenze fisiche da lui subite da parte di un operatore carcerario (fatto al quale era seguita regolare condanna per l'operante e risarcimento per il ricorrente), il ricorrente viene trasferito in un'area di detenzione temporanea presso la Stazione di polizia di Sokol, dove rimane per undici giorni, per partecipare al procedimento che lo vede come vittima. Egli ritiene che le condizioni di detenzione presso tale struttura, violino l'art. 3 Cedu.
La Corte respinge le doglianze del ricorrente in quanto le condizioni di detenzione da lui subite non avrebbero quel livello di severità minimo richiesto per porsi in contrasto con l'art. 3 Cedu; infatti, senza entrare nel merito della veridicità delle allegazioni del ricorrente, la Corte giudica che la permanenza del ricorrente presso quella struttura sia stata così breve da non avere il livello di gravità minima richiesto per costituire maltrattamento.
C. eur. dir. uomo, sez. I, 2 ottobre 2012, ric. n. 17473/11, Abdulkhakov c. Russia (importance level 2)
Il ricorrente, un cittadino di origine uzbeka, viene accusato nel suo Stato d'origine di diversi crimini, tra cui quello di essere affiliato a un gruppo islamico fondamentalista. Rifugiatosi in Russia, viene in questo Stato arrestato e fatto oggetto di una richiesta di estradizione verso l'Uzbekistan e successivamente trasportato illegalmente in Tajikistan, dove viene tenuto in arresto e maltrattato fisicamente. Si rivolge alla Corte europea ritenendo che la sua possibile estradizione verso l'Uzbekistan violi l'art. 3 Cedu, essendo presumibile che nel suo Stato d'origine egli sarà sottoposto a maltrattamenti; che il suo trasferimento in Tajikistan integri già una violazione da parte della Russia della stessa norma; che la sua detenzione in Russia sia stata in contrasto con l'art. 5 § 1 Cedu, essendosi protratta a lungo senza basi legali (e inoltre che lo Stato russo abbia violato l'art. 5 § 4 Cedu non concedendo un pronto riesame della sua situazione al ricorrente mentre era in vinculis)
La Corte europea ritiene che l'estradizione del ricorrente in Uzbekistan violerebbe l'art. 3 Cedu, essendo sussistente un rischio di sottoposizione a trattamenti contrari alla disposizione, come già ritenuto in passato esaminando la posizione di cittadini uzbeki richiesti d'estradizione (cfr. Yakubov c. Russia, ric. n. 7265/10); giudica in violazione dell'art. 3 Cedu la consegna del ricorrente al Tajikistan, attività imputabile allo Stato russo, che non ha fornito allegazioni difensive in senso contrario credibili, e scientemente da esso Stato perpetuata al fine di sottrarre il ricorrente alla protezione offerta dalla Convenzione europea. Per quanto riguarda l'art. 5 § 1, la Corte ritiene che la detenzione del ricorrente in Russia sia stata eseguita senza una base legale precisa e senza regole precise circa limiti temporali, autorità gerarchicamente e territorialmente competente; e che anche proceduralmente non gli sia stata data la possibilità di ottenere un subitaneo riesame della sua posizione, con ciò realizzandosi una violazione dell'art. 5 § 4 Cedu.
C. eur. dir. uomo, sez. II, 2 ottobre 2012, ric. n. 33210/11, Singh e altri c. Belgio (importance level 2)
I ricorrenti, una famiglia afghana appartenente alla minoranza sikh, giungono dalla Russia in Belgio e ivi, sprovvisti di documenti d'identificazione attendibili, fanno domanda d'asilo alle autorità locali sostenendo che la minoranza cui appartengono è soggetta in Afghanistan - come poi confermato da un relazione dell'UNHCR - a politiche discriminatorie da parte del governo, violenze fisiche, confische di terra e così via. Non essendo però in possesso dei loro documenti veridici le autorità belghe non ritengono sufficientemente certa la loro nazionalità afghana e respingono la domanda d'asilo. I ricorrenti si rivolgono a un'autorità di secondo grado, ma questa conferma la decisione di primo grado; fatti oggetto di una richiesta di allontanamento, riescono ad ottenere una sospensione del provvedimento. Si rivolgono quindi alla Corte europea, lamentando che un loro possibile allontanamento verso l'Afghanistan li esporrebbe a trattamenti contrari all'art. 3 Cedu, e ritenendo che le modalità con cui il loro secondo ricorso è stato deciso non soddisfacciano i requisiti richiesti dall'art. 13 Cedu.
La Corte considera pienamente fondato il rischio che nel paese d'origine i ricorrenti siano sottoposti a trattamenti contrari all'art. 3 Cedu; e proprio tale rischio avrebbe reso necessario, secondo i giudici europei, la predisposizione da parte dello Stato belga di strumenti accessibili ed effettivi coi quali i cittadini afghani potessero far prendere seriamente in considerazione la loro posizione, pur non possedendo i loro documenti d'identità originali. La Corte europea pertanto, non ritenendo che i ricorsi interni previsti dalla legislazione belga in materia di richieste d'asilo e allontanamenti rispettino i requisiti richiesti dall'art. 13 Cedu, ritiene che vi sia stata una violazione dell'art. 3 Cedu combinata con una violazione del principio di effettività nel godimento dei diritti convenzionali, sancito dall'art. 13 Cedu.
C. eur. dir. uomo, sez. III, 2 ottobre 2012, ric. n. 37467/04, Jurijs Dmitrijevs c. Lettonia (importance level 2)
Il ricorrente, un cittadino lettone affetto da schizofrenia, viene arrestato nel 1999 a seguito di una rapina. Egli sostiene di essere stato più volte malmenato - come attesterebbero gli esami medici cui viene sottoposto - sia in occasione del suo arresto, sia qualche anno più tardi, una volta detenuto, in occasione di un'ispezione delle celle da parte degli agenti di polizia penitenziaria. Egli ritiene quindi di essere stato vittima di trattamenti contrari all'art. 3 Cedu, e di non aver potuto ottenere una tutela giurisdizionale effettiva ex art. 13 Cedu. Lamenta inoltre l'eccessiva durata del procedimento penale a suo carico e del procedimento a carico degli operanti per i maltrattamenti.
Per quanto riguarda l'art. 3 Cedu, la Corte si occupa anzitutto degli episodi avvenuti nel 1999: riguardo a essi, ritiene che la Lettonia abbia violato sia l'aspetto sostanziale che procedurale di tale norma, avendo lo Stato lettone riconosciuto che il ricorrente era stato malmenato in carcere, ma non avendo fatto nulla per individuare i colpevoli. Per quanto riguarda invece gli episodi avvenuti nel 2004, la Corte ritiene che il ricorrente non sia stato in grado di controvertire oltre ogni ragionevole dubbio i risultati dell'inchiesta svolti dall'amministrazione penitenziaria, secondo la quale l'uso della forza era stato conforme all'ordinamento penitenziario in quanto originato dal comportamento violento del ricorrente stesso; per questi episodi esclude la violazione dell'art. 3 Cedu, procedurale e sostanziale. La doglianza relativa invece all'art. 6 § 2 Cedu circa l'eccessiva durata dei due procedimenti che lo vedevano parte - come imputato per la rapina e come vittima per i maltrattamenti - viene invece accolta.
C. eur. dir. uomo, sez. IV, 9 ottobre 2012, ric. n. 16831/07, Kulikowski c. Polonia (n. 2) (importance level 3)
Il ricorrente è un cittadino polacco, diabetico, che nel 2000 viene arrestato per l'uccisione della madre e successivamente viene condannato per questo fatto a dodici anni di carcere. La sua malattia lo porta nel corso della detenzione ad ammalarsi di glaucoma e richiede da parte dell'amministrazione penitenziaria continue cure mediche, che egli non ritiene adeguate. Nel 2008, grazie alla sua buona condotta, viene rilasciato condizionalmente ma un anno dopo - successivamente all'introduzione del giudizio di fronte alla Corte europea - muore in conseguenza della sua malattia. La doglianza del ricorrente, portata avanti dai suoi due figli, concerne l'art. 3 Cedu, in quanto il ricorrente ritiene che l'inadeguatezza delle cure fornitegli durante la sua detenzione costituisca un maltrattamento.
La Corte riconosce che l'art. 3 impone allo Stato di salvaguardare il benessere fisico dei soggetti privati della libertà personale, obbligo che in taluni casi può spingersi fino a costringere lo Stato a liberare il detenuto. La detenzione di una persona gravemente ammalata può in taluni casi raggiungere quel grado di severità tale da diventare maltrattamento (cfr. Mouisel c. Francia, ric. n. 67263/01); per quanto riguarda il caso di specie, però, la Corte riconosce che le cure fornite giorno per giorno al ricorrente mediante il trattamento con insulina e la sua ospedalizzazione in numerose occasioni, facciano sì che l'amministrazione penitenziaria non abbia esposto il ricorrente ad un rischio per la salute in contrasto con l'art. 3 Cedu; la violazione di tale norma da parte dello Stato polacco è pertanto esclusa.
C. eur. dir. uomo, sez. I, 9 ottobre 2012, ric. n. 26436/05, Kolunov c. Russia (importance level 3)
Il ricorrente è un cittadino russo, appartenente a un partito d'opposizione. In seguito a una manifestazione politica svoltasi all'interno del palazzo presidenziale, viene arrestato e sottoposto a processo. Ricorre alla Corte europea ritenendo che non vi fossero sufficienti esigenze cautelari e indizi per la sua detenzione preventiva e ritenendo che le condizioni di tale detenzione (in particolare il sovraffollamento della cella con conseguente totale mancanza di spazi personali, la mancanza di ventilazione, il fatto che la luce elettrica fosse costantemente accesa, la possibilità di fare la doccia solo una volta a settimana e di camminare fuori dalla cella solo per un'ora al giorno) costituiscano un trattamento inumano e degradante contrario all'art. 3 Cedu.
Il governo russo contesta tutte le allegazioni del ricorrente, eccezion fatta per quella relativa al sovraffollamento della cella, che la Corte ritiene pertanto corrispondente al vero, non solo per la mancata contestazione, ma anche per le visite nelle carceri russe compiute in passato. E questa sola allegazione è sufficiente, alla Corte europea, per ritenere che ci sia stata una violazione dell'art. 3 Cedu, in quanto l'esistenza di uno spazio personale minimo all'interno delle celle rientra nelle condizioni di legittimità richieste dall'art. 3 Cedu. Circa la doglianza relativa alla legittimità della detenzione cautelare, la Corte ritiene che essa sia avvenuta in pieno rispetto dell'art. 5 §§ 1 e 3 Cedu.
C. eur. dir. uomo, sez. I, 9 ottobre 2012, ric. n. 49658/09, Dimitrios Dimopoulos c. Grecia (importance level 3)
Il ricorrente, un cittadino greco, viene arrestato per traffico di stupefacenti e sottoposto a misura cautelare in attesa di giudizio. Lamenta la violazione dell'art. 3 Cedu, giudicando inumane e degradanti le condizioni di detenzione presso il quartier generale di polizia di Tessalonicco, e dell'art. 5 § 4, vista la sua non audizione all'udienza di riesame della misura cautelare e la lunghezza eccessiva del procedimento di riesame stesso.
La Corte europea accoglie tutte le censure del ricorrente: qualificando come maltrattamento le condizioni di detenzione presso il centro di polizia di Tessalonicco, del quale la Corte si era già occupata in altre occasioni (Vafiadis c. Grecia, ric. n. 24981/07; Shuvaev c. Grecia, ric. n. 8249/07) - nonostante il periodo di riferimento non sia il medesimo - vista la mancanza di spazi personali, le pessime condizioni igieniche e l'inesistenza di spazi per attività all'aperto; giudicando eccessivamente lungo il procedimento di riesame - durato circa cento giorni - e non giustificato il tacito rifiuto di far comparire il ricorrente all'apposita udienza.
C. eur. dir. uomo, sez. II, 9 ottobre 2012, ric. n. 29283/07, Iseri e altri c. Turchia (importance level 3)
I quattro ricorrenti turchi sono affiliati al sindacato Kesk; durante una manifestazione della loro organizzazione, subiscono delle cariche da parte della polizia per aver modificato il percorso della manifestazione, a seguito delle quali riportano ferite di media gravità come riportato nel referto medico. L'inchiesta penale successivamente aperta viene quasi subito archiviata. I ricorrenti sostengono pertanto che il pestaggio subito dalle forze dell'ordine costituisca un maltrattamento ai sensi dell'art. 3 Cedu, cui non è seguita un'inchiesta effettiva, in violazione della loro libertà di riunione ed associazione tutelata dall'art. 11 Cedu.
La Corte giudica l'utilizzo della forza da parte degli agenti di polizia sproporzionato e non giustificato da ragioni oggettive nel caso concreto, non avendo lo Stato fornito alcuna indicazione convincente del perché fosse necessario l'utilizzo della forza per superare il blocco organizzato dai manifestanti; né all'episodio di maltrattamenti è seguito alcuna inchiesta effettiva da parte delle Turchia. La censura relativa all'art. 11 Cedu è considerata assorbita in quella relativa all'art. 3 Cedu, tenuto conto anche del fatto che la manifestazione si era poi effettivamente svolta.
C. eur. dir. uomo, sez. III, 9 ottobre 2012, ric. n. 18996/06, Mikiashvili c. Georgia (importance level 3)
Il ricorrente viene tratto in arresto (ottobre 2005) per aver aggredito verbalmente e fisicamente, mentre era in stato d'ebbrezza, alcuni agenti di polizia; sostiene di essere stato picchiato e insultato nella notte del suo arresto, ma non viene sottoposto a esami medici se non alcuni mesi dopo tali eventi. Viene trattenuto in vinculis in attesa di giudizio nonostante la sua richiesta di scarcerazione, e successivamente condannato, per il fatto di resistenza a pubblico ufficiale, a un anno e sei mesi di reclusione. Successivamente agli esami medici viene aperta un'inchiesta penale a carico degli agenti, che si conclude con la loro assoluzione. Durante la sua reclusione, il ricorrente riceve una visita da alcuni rappresentanti del Difensore civico, che notano la presenza sul suo corpo di alcune ferite (agosto 2006); inizialmente afferma che gli sarebbero state arrecate dal direttore dell'ospedale del carcere e da altre otto persone la notte precedente. Egli lamenta quindi la violazione dell'art. 3 Cedu, sia sostanziale che procedurale, per quanto riguarda gli eventi successivi all'arresto e quelli avvenuti durante l'esecuzione della pena; ritiene inoltre ingiustificata la sua detenzione cautelare.
Circa gli eventi avvenuti nell'ottobre 2005, la Corte europea, pur riconoscendo che anche il ricorrente aveva aggredito fisicamente le forze dell'ordine, ritiene non paragonabili quanto a gravità le ferite riportate da costui e quelle riportate dagli agenti; pertanto giudica non giustificato l'uso della forza da parte degli agenti, e di una entità tale da comportare maltrattamento ai sensi dell'art. 3 Cedu. La norma convenzionale è violata anche dal punto di vista procedurale, non avendo lo Stato georgiano indagato in maniera effettiva: prova ne è che il ricorrente sia sottoposto a esami medici molto tempo dopo i fatti e che non gli sia consentito di partecipare al procedimento che lo vede come imputato. Per quanto riguarda gli eventi dell'agosto 2006, la Corte non giudica violato l'art. 3 Cedu dal punto di vista sostanziale, vista la ritrattazione del ricorrente stesso e la mancanza di prove. La norma è però violata dal punto di vista procedurale: le indagini non sarebbero state indipendenti, giacché portate avanti da un organo interno al Ministero della giustizia - ente incaricato anche dell'organizzazione della detenzione -; né effettive, poiché deficitarie circa gli elementi di prova raccolti. La censura relativa alla violazione dell'art. 5 § 3 Cedu è respinta, giudicando la Corte europea sussistente nel caso concreto l'esigenza cautelare di evitare l'inquinamento probatorio.
C. eur. dir. uomo, sez. I, 9 ottobre 2012, ric. n. 25462/09, Asyanov c. Russia (importance level 3)
Il ricorrente deve scontare cinque anni di reclusione per frode. Egli ritiene che il sovraffollamento della struttura penitenziaria cui è destinato costituisca un trattamento inumano o degradante ai sensi dell'art. 3 Cedu, e inoltre di aver contratto la tubercolosi durante la reclusione e di non aver ricevuto cure adeguate alla sua patologia.
La Corte europea accoglie il ricorso, ritenendo violato l'art. 3 Cedu in merito al sovraffollamento della cella e ritenendo assorbiti gli ulteriori motivi di censura, poiché - sulla base delle informazioni ottenute sulla superficie delle celle e sul numero della popolazione carceraria - i metri quadri disponibili per ogni carcerato (2,7 mq. ca.) e le poche ore d'aria di cui essi potrebbero godere costituiscono trattamento inumano e degradante secondo la sua costante giurisprudenza.
C. eur. dir. uomo, sez II, 9 ottobre 2012, ric. n. 24626/09, X c. Turchia (importance level 1)
Il ricorrente, un cittadino omosessuale turco, sta scontando una pena detentiva di undici anni, un mese e ventidue giorni presso il carcere di EskiÅŸehir per alcuni fatti di falsificazione di atto pubblico, truffa, abuso di carte bancarie e false dichiarazioni in documenti ufficiali. Sconta un periodo di detenzione cautelare di circa nove mesi presso la struttura di Buca; sostiene di essere stato sottoposto, in quell'occasione, a trattamenti inumani e degradanti, consistenti nelle modalità di esecuzione della detenzione, a causa del suo orientamento sessuale. In particolare, allega di essere stato destinato a una cella individuale di circa 7 mq. - trattasi delle celle utilizzate per l'isolamento dei condannati pericolosi autori di crimini violenti - inizialmente dietro sua richiesta, e di essere stato isolato per circa nove mesi consecutivi, senza possibilità di aver alcun contatto con altre persone se non il suo avvocato (se si eccettua un breve periodo di condivisione della cella con altro detenuto omossessuale), senza possibilità di partecipare ad attività collettive e di trascorrere ore d'aria, nonostante le sue richieste di trasferimento. Ritiene quindi violati gli artt. 3 e 14 Cedu. Il Governo fonda la sua difesa sostanzialmente sul fatto che fosse stato proprio il ricorrente a chiedere inizialmente il trasferimento, e che questo fosse motivato dalla necessità - da lui stesso manifestata - di essere protetto dagli altri detenuti.
La Corte europea riconosce la violazione di entrambe le norme convenzionali. Centrale nell'economia argomentativa dei giudici europei, è che il ricorrente sia stato sottoposto a un regime carcerario "duro" - quale quello destinato ai soggetti pericolosi - senza aver mai manifestato comportamenti che potessero giustificare una forma d'isolamento. Certamente la Corte riconosce il fatto che fosse stato il ricorrente a richiedere una qualche forma di separazione e protezione dagli altri detenuti, e che l'intento di proteggerlo - da parte dell'amministrazione penitenziaria - fosse in qualche modo presente, ma essa non ritiene queste motivazioni in grado di giustificare un regime carcerario così duro. Le modalità detentive, unite alla lunghezza del periodo trascorso in tali condizioni dal ricorrente e aggravate dal fatto che egli non abbia potuto ottenere un esame effettivo sulla sua posizione, fanno sì che egli sia stato sottoposto a un trattamento inumano e degradante contrario all'art. 3 Cedu. Non ritenendo le esigenze di protezione invocate dal Governo in grado di giustificare da sole le modalità trattamentali, la Corte ritiene che la misura sia stata disposta prevalentemente in ragione dell'orientamento sessuale del ricorrente, il quale è pertanto stato discriminato nel godimento di un diritto (quello a non subire trattamenti inumani o degradanti o tortura) stabilito dalla Convenzione, contravvenendo così all'art. 14 Cedu.
Sulla violazione dell'art. 14 Cedu in combinato disposto con l'art. 3 Cedu bisogna dar conto della dissenting opinion del giudice Jociene, la quale ritiene invece convincente l'intento protettivo del ricorrente invocato dal Governo.
C. eur. dir. uomo, 16 ottobre 2012, ric. n. 47303/08, Otamendi Egiguren c. Spagna (importance level 3)
Il ricorrente, un giornalista basco, è sospettato di supportare l'attività dell'organizzazione terroristica E.T.A. Viene prelevato dalla sua abitazione e condotto in una stazione di polizia per essere interrogato. Asserisce di essere stato obbligato a compiere numerose flessioni in occasioni degli interrogatori, di essere stato minacciato di soffocamento con un sacchetto di plastica e di non aver potuto dormire a causa della particolare vicinanza con altri detenuti. Dopo essere stato liberato, chiede e ottiene l'apertura di un procedimento penale che investighi sui maltrattamenti cui egli sarebbe stato esposto da parte delle forze dell'ordine durante la privazione della sua libertà personale. Tale procedimento viene archiviato per mancanza di prove, e lo stesso avviene col procedimento di appello. Il ricorso di amparo presentato al Tribunale costituzionale viene rigettato perché manifestamente infondato. Il giornalista ricorre quindi alla Corte europea ritenendo violato l'art. 3 Cedu esclusivamente sotto l'aspetto procedurale.
La Corte europea dà ragione al ricorrente, ritenendo le indagini non effettive e approfondite: la decisione di non luogo a procedere si sarebbe basata esclusivamente sul referto medico-legale, e avrebbe omesso di esaminare il ricorrente stesso oltreché d'interrogare gli agenti di polizia e la persona detenuta nella cella del ricorrente; tali omissioni integrano una violazione dell'art. 3 Cedu sotto il profilo procedurale.
C. eur. dir. uomo, sez. I, 16 ottobre 2012, ric. n. 49747/11, Makhmudzhan Ergashev c. Russia (importance level 2)
Il ricorrente è un cittadino kirghiso di origine uzbeka - minoranza etnica nel Kyrzygstan - residente da alcuni anni in Russia; riceve notizia di un procedimento a suo carico per peculato ai danni del Kyrzygstan; viene quindi arrestato in Russia e fatto oggetto di una richiesta d'estradizione da parte del suo paese natale. Egli si oppone alla richiesta d'estradizione, sostenendo che nel suo paese natale potrebbe essere fatto oggetto di maltrattamenti e tortura da parte delle forze dell'ordine e in carcere, in ragione delle pratiche di tortura cui sarebbero sottoposti gli appartenenti all'etnia uzbeka in Kyrzygstan. Lo Stato russo, rilevando che lo scontro interetnico del giugno 2010 in quel paese si sarebbe concluso e che il crimine di cui è accusato il ricorrente non avrebbe alcun legame con il conflitto tra kirghisi e uzbeki, concede l'estradizione, e il ricorrente si oppone, adendo la Corte europea.
La Corte europea riconosce fondato il rischio che il ricorrente sarà sottoposto nello Stato di destinazione a tortura o altri trattamenti inumani o degradanti. Vero è, infatti, che a seguito delle elezioni tenutesi nell'ottobre 2010 e dell'adozione di una nuova Costituzione, la situazione politica del Kyrzygstan si sarebbe normalizzata, ma ciò non toglie che nel sud del paese - dove si assume che sia stato commesso il fatto per il quale la richiesta d'estradizione è proposta, e quindi dove è ragionevole ritenere che il ricorrente sarà processato ed eventualmente incarcerato - continuino gli scontri tra le due etnie, e continuino soprattutto le denunce di torture e maltrattamenti subiti dagli uzbeki che si trovano in detenzione provvisoria o definitiva. Inoltre, come appare chiaro dai rapporti delle organizzazioni internazionali che hanno potuto osservare la situazione direttamente, i maltrattamenti sono perpetuati ai danni non solo di quegli uzbeki collegati ai crimini del 2010, ma a tutti gli uzbeki in quanto appartenenti alla diversa etnia. Il ricorrente è pertanto esposto al rischio di tortura o maltrattamenti nel suo paese di destinazione, e le assicurazioni fornite dallo Stato kirghiso - che lo Stato Russo aveva ritenuto fondate - non vengono ritenute credibili. L'estradizione del ricorrente pertanto violerebbe l'art. 3 Cedu.
C. eur. dir. uomo, sez. II, 16 ottobre 2012, ric. n. 11435/07, Eylem Bas c. Turchia (importance level 3)
La ricorrente viene fermata a un posto di blocco e riporta alcune ferite a seguito dello scontro a fuoco con le forze di polizia; viene quindi trattenuta in arresto per essere interrogata. Lamenta di essere stata sottoposta a maltrattamenti (in particolare privata del sonno, calpestata, tirata per i capelli, molestata sessualmente, presa a calci e sbattuta per la testa contro il muro) mentre era affidata alle forze di polizia, come dimostrerebbero alcune ferite da essa non riportate prima dell'arresto dell'arresto. La pubblica accusa decide di non esercitare l'azione penale a seguito delle sue dichiarazioni.
La Corte europea riscontra una violazione dell'art. 3 Cedu sia dal punto di vista sostanziale - giudicando coincidenti le allegazioni della ricorrente con quanto mostrato dagli esami medici compiuti dopo i primi giorni di detenzione e in assenza di una spiegazione alternativa plausibile da parte del Governo turco - che procedurale - per la superficialità e ineffettività dell'indagine condotta.
C. eur. dir. uomo, sez. V, 18 ottobre 2012, ric. n. 37679/12, Bures c. Repubblica Ceca (importance level 3)
Il signor Bures è affetto da disturbi psichici che ne inficiano la socializzazione; a causa di un errato dosaggio dei medicinali che utilizza, non si accorge di uscire di casa senza vestiti addosso; viene quindi fermato dalla polizia e condotto presso l'ospedale psichiatrico di Brno-ÄŒernovice, dove rimane per circa due mesi. Sostiene di essere stato legato al letto durante la prima notte di degenza per circa sette ore, e che questo, come risulterebbe dagli esami medici successivamente effettuati nel corso del procedimento instaurato a seguito della sua denuncia, gli avrebbe causato abrasioni oltre a una grave paresi, probabilmente non permanente, del braccio destro. Le autorità sanitarie sostengono di averlo legato per proteggerlo, visto il suo comportamento agitato, e di averlo fatto per un lasso di tempo ben minore. Il procedimento viene archiviato senza che il ricorrente sia stato sentito, il quale però ricorre alla Corte europea.
La Corte europea ritiene anzitutto che il comportamento tenuto dalle autorità sanitarie sia imputabile allo Stato - circostanza questa contestata dal Governo - dal momento che esse esercitavano poteri detentivi suo conto. Il trattamento cui è stato esposto il ricorrente, per la sua durata (sulla quale la corte accoglie la versione del Governo) e per la sua gravità, viene considerato maltrattamento ai sensi dell'art. 3 Cedu, e l'esigenza di proteggere il ricorrente invocata dalla Repubblica Ceca per giustificare il trattamento, non viene considerata sufficiente per sorreggere di fondamento una misura così grave. Per quanto riguarda il lato procedurale dell'art. 3 Cedu, l'inchiesta condotta non viene giudicata approfondita, non essendo state indicate le ragioni per le quali preferire le allegazioni del personale sanitario a quelle del ricorrente.
C. eur. dir. uomo, sez. I, 23 ottobre 2012, ric. n. 35297/05, Zentsov e altri c. Russia (importance level 3)
I ricorrenti sono tre attivisti del Partito Bolscevico Russo; organizzano una dimostrazione di protesta all'interno del palazzo presidenziale a Mosca, a seguito della quale vengono processati e infine condannati - mentre sono sottoposti a misura cautelare detentiva per circa un anno - per distruzione volontaria di proprietà privata e insurrezione violenta contro i poteri dello Stato. Contestano le condizioni in cui sono stati detenuti, ritenendole contrarie all'art. 3 Cedu, e ritengono di essere stati detenuti provvisoriamente in mancanza di sufficienti indizi di colpevolezza (art. 5 § 1 Cedu) e di non aver ottenuto celermente una definizione del loro processo o il rilascio (art. 5 § 3 Cedu).
La Corte europea, in relazione al ricorso del primo e del terzo ricorrente - detenuti entrambi presso la stessa struttura - riscontra una violazione della disposizione convenzionale, principalmente a causa del sovraffollamento delle celle in cui i ricorrenti erano stati collocati, richiamando la sua sentenza Lind c. Russia (ric. n. 25664/05), nella quale la Corte si era occupata delle condizioni di detenzione nella stessa struttura in riferimento allo stesso periodo. Il ricorso della seconda ricorrente, detenuta in altra struttura, viene dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza a causa delle allegazioni non circostanziate fornite dalla cittadina russa. Per quanto riguarda invece l'art. 5 Cedu, la Corte riscontra una violazione del § 3, giudicando insufficienti le ragioni addotte dal Governo russo per sorreggere il prolungamento della detenzione cautelare dei ricorrenti, che avrebbero dovuto invece essere liberati.
C. eur. dir. uomo, sez. I, 23 ottobre 2012, ric. n. 11663/03, Grigoryev c. Russia (importance level 2)
La sera del 6 febbraio 2002 alcuni agenti di polizia, coadiuvati da alcuni agenti delle forze speciali, fanno irruzione nella casa del ricorrente - un attivista di un gruppo che si occupa di riutilizzo delle terre coltivabili - e lo arrestano. Il ricorrente sostiene di essere stato sbattuto sul pavimento e preso a calci nella parte mediana del corpo durante le fasi d'arresto; gli esami medici rilevano la rottura di due costole e un ematoma al cervello. Viene aperto un procedimento penale a carico degli agenti in servizio quella sera, nell'ambito del quale il ricorrente, sua moglie e sua figlia confermano l'avvenuto pestaggio, e un esame medico legale conclude che le fratture del ricorrente potrebbero essere state causate dall'impatto con un oggetto appuntito, come un dito o un piede dentro uno stivale, mentre gli agenti sostengono di non aver usato la forza e che le fratture sarebbero originate dalla resistenza opposta dal ricorrente nel momento d'ingresso nell'autoveicolo della polizia; il tribunale accoglie la versione degli agenti.
La Corte europea giudica ineffettive le indagini portate avanti dai tribunali russi, e perciò in contrasto con il profilo procedurale dell'art. 3 Cedu: dirimenti sul punto sono la lentezza nella loro apertura, il mancato esame del medico legale e la non persuasività e contraddittorietà delle motivazioni addotte per la chiusura delle indagini. I giudici di Strasburgo inoltre, non giudicano credibile la versione delle forze di polizia (il ricorrente si sarebbe rotto le due costole entrando nell'autoveicolo) e non ritenendo comunque proporzionato e legittimo l'uso della forza nella fase d'arresto (visto lo squilibrio di forze tra il sessantenne ricorrente e gli agenti speciali addestrati al combattimento), concludono per una violazione anche sostanziale dell'art. 3 Cedu.
C. eur. dir. uomo, sez. III, 23 ottobre 2012, ric. n. 54247/07, Ghita c. Romania (importance level 3)
Il ricorrente, un cittadino rumeno, si trova appartato in macchina con tale C.B. Viene accostato da due agenti di polizia che, chiestigli i documenti, lo fanno scendere dall'auto e lo ammanettano. Secondo il ricorrente, gli agenti di polizia avrebbero cominciato a picchiarlo, pestaggio poi continuato nel retro del furgone della polizia durante il tragitto alla stazione di polizia. Secondo gli agenti, il ricorrente era agitato a causa del suo stato d'ubriachezza, e avrebbe cominciato a buttarsi da solo per terra e a colpire da solo con la testa le pareti e il pavimento del furgone. Tale versione sarebbe parzialmente confermata da C.B. L'inchiesta che viene aperta a seguito della denuncia del ricorrente aderisce alla versione dei fatti degli agenti, e viene pertanto archiviata.
La Corte europea aderisce alla versione del ricorrente, che sarebbe stato malmenato dagli agenti: la versione di costoro, infatti, in base alla quale il ricorrente si sarebbe ferito da solo sbattendo volontariamente la testa, non spiegherebbe come mai il ricorrente riporti delle ferite solo nella parte superiore del volto e non in quella inferiore (naso e bocca), come testimoniato dalle foto scattate dopo l'arresto. Inoltre, se anche l'uso della forza fosse stato necessario, il rifiuto proprio da parte delle forze dell'ordine di eseguire l'alcol test - che il ricorrente stesso aveva richiesto - non permette di stabilire se egli fosse in stato d'ebbrezza, e l'uso della forza quindi necessario. L'indagine condotta dal tribunale non viene giudicata effettiva: il fatto che il ricorrente fosse sotto l'influenza di alcol - fatto dato per vero dal tribunale - non sarebbe confermato da alcun test; la testimonianza di C.B. non viene giudicata attendibile, giacché al momento del procedimento era sotto indagine da parte della polizia, e quindi influenzabile; le discrepanze tra la versione della polizia e quella del ricorrente non sarebbero state analizzate a fondo. Sussiste quindi una violazione dell'art. 3 Cedu nel suo aspetto sia sostanziale che procedurale.
C. eur. dir. uomo, sez. I, 23 ottobre 2012, ric. n. 4265/06, Dmitriy Rozin c. Russia (importance level 3)
Il ricorrente si lamenta delle condizioni in cui è stato detenuto, in via cautelare dal 9 febbraio al 10 marzo 2004, e in via definitiva dal 15 marzo 2005 al 17 febbraio 2006, in diversi istituti penitenziari: il sovraffollamento delle celle costituisce il motivo principale delle sue lamentele sotto la lente dell'art. 3 Cedu.
I ricorsi relativi ai periodi di detenzione dal 9 febbraio al 10 marzo 2004 e dal 15 agosto 2005 al 17 febbraio 2006 sono stati introdotti tardivamente, e pertanto vengono dichiarati irricevibili. Il periodo di detenzione reso dal 15 marzo al 3 agosto 2005 viene considerato in violazione dell'art. 3 Cedu, a causa del sovraffollamento della cella, che non ha permesso al ricorrente di avere un letto personale; il periodo dal 4 al 15 agosto 2005 non viene invece considerato aver raggiunto la soglia minima di gravità richiesta per entrare in contrasto con l'art. 3 Cedu a causa della sua particolare brevità.
C. eur. dir. uomo, sez. I, 23 ottobre 2012, ric. n. 38623/03, Pichugin c. Russia (importance level 3)
Il ricorrente è un cittadino russo affetto da gastroduodenite cronica, ulcera duodenale, emorroidi croniche e ipertensione. Viene arrestato e condannato per omicidio plurimo e tentato omicidio. In riferimento all'art. 3 Cedu, sostiene di non essere stato adeguatamente curato nella struttura detentiva in cui era ospitato (in particolare, gli sarebbero stati forniti medicinali non identificati); di essere stato drogato durante un interrogatorio da parte degli inquirenti per ottenere una sua confessione, e che le autorità non abbiano indagato in modo effettivo su questo fatto; di essere stato detenuto in condizioni inumani e degradanti presso il centro di Lefortovo.
Per quanto riguarda le cure mediche in carcere, la Corte europea, prendendo in considerazione i diversi esami e le visite specialistiche cui il ricorrente era stato sottoposto, ritiene la censura manifestamente infondata, e la rigetta. Sulla supposta iniezione di sostanze psicotrope, la Corte ritiene non esaurite le vie di ricors