Con il mese di luglio 2010 “Diritto penale contemporaneo” inizia un monitoraggio mensile delle sentenze e delle più importanti decisioni emesse dalla Corte EDU interferenti con il diritto penale sostanziale. Tutti i provvedimenti rilevanti – dei quali verrà indicato il rispettivo importance level attribuito dalla Corte medesima – verranno raggruppati in base all’articolo della Convenzione al quale si riferisce la doglianza principale esaminata dalla Corte e verranno, quindi, brevemente riassunti. Ogni scheda mensile sarà preceduta da una breve introduzione contenente una presentazione ragionata dei casi decisi dalla Corte, nella quale verranno segnalate al lettore le pronunce di particolare interesse.
SOMMARIO
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a) Tra le pronunce di maggiore interesse rese dalla Corte di Strasburgo nel luglio 2010 si segnala, in tema di
art. 2 Cedu, la sent.
Carabulea c. Romania (13.7.2010), relativa alla morte in carcere di un detenuto di soli 27 anni, apparentemente in perfette condizioni di salute: la vicenda presenta parecchie assonanze con quella, tristemente nota, di Stefano Cucchi, sulla quale sono ancora in corso i doverosi accertamenti giudiziari. Altre pronunce concernono rispettivamente un caso di uso eccessivo della forza da parte della polizia bulgara, in cui la Corte ravvisa anche la violazione degli obblighi procedurali gravanti sullo Stato di fare piena luce sull'accaduto attraverso un'inchiesta effettiva (
Vachkovi c. Bulgaria), e un ennesimo caso di sparizione forzata in Cecenia, ove la Corte presume la morte di una vittima della quale non v'erano notizie ormai da più di dieci anni (
Gelayevy c. Russia).
b) In tema di art.
3 Cedu, invece, particolare importanza riveste la dec.
Babar Ahmad e altri c. Romania (6.7.2010), con cui la Corte ha dichiarato parzialmente ricevibile il ricorso presentato da quattro detenuti in attesa di essere estradati dalla Gran Bretagna negli Stati Uniti per essere ivi sottoposti a un procedimento penale per terrorismo. La pronuncia si segnala per le importanti affermazioni rese dalla Corte sulla compatibilità dell’ergastolo e dell’isolamento prolungato con l’art. 3 della Convenzione, che com’è noto mette al bando le pene inumane e degradanti, dando seguito a quanto di recente affermato dalla Grande Camera nella sentenza
Kafkaris c. Cipro (12.2.2008).
Ancora in tema di
art. 3 Cedu, merita un cenno la sentenza
Ciorap c. Moldavia n. 2 (20.7.2010), nella quale la Corte – pur ritenendo che i giudici nazionali avessero correttamente rilevato la violazione di detta norma in riferimento alle condizioni di detenzione del ricorrente e alla mancata somministrazione di cure mediche tempestive – ha ritenuto che questi potesse ancora proclamarsi “vittima” di una violazione della Convenzione ai sensi dell’art. 34 Cedu, perché la somma riconosciutagli dai giudici moldavi a titolo di risarcimento del danno (pari a 600 euro) era di molto inferiore a quella che, in genere, essa accorda alle vittime delle violazioni meno gravi dell’art. 3 Cedu (la quale si aggira, invece, intorno ai 6.000 euro). La pronuncia costituisce, dunque, una plastica applicazione del principio di sussidiarietà, secondo il quale i diritti e le libertà che trovano il loro fondamento nella Convenzione europea devono essere tutelati, in prima battuta, dai giudici nazionali dei singoli Stati contraenti.
Grande interesse rivestono, poi, le sentenze
A. c. Paesi Bassi ed
N. c. Svezia (entrambe del 20.7.2010), con cui la Corte ha riscontrato, anche sulla base dei
reports di organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti umani, la violazione potenziale dell’
art. 3 Cedu in caso di espulsione, rispettivamente in Libia e in Afghanistan, dei ricorrenti (un uomo nel primo caso, una donna nel secondo), applicando principi da tempo consolidati nella propria giurisprudenza e recentemente ribaditi dalla Grande Camera nella pronuncia
Saadi c. Italia (28.2.2008). La pronuncia contro la Svezia, in particolare, si sofferma sul rischio di maltrattamenti che incombe sulle donne afghane, specie quando le stesse (come nell’ipotesi della ricorrente, che era in procinto di divorziare dal marito) non si uniformino agli standard di comportamento vigenti all’interno di quella società. Identica violazione potenziale dell'art. 3 Cedu, per l'ipotesi in cui venga dato corso all'espulsione, è accertata dalla Corte in
Dbouba c. Turchia (in relazione a un cittadino tunisino sospettato di attività terroristiche), nonché - in relazione alla parallela ipotesi dell'estradizione di straniero sottoposto al rischio di tortura o di persecuzioni per le proprie opinioni politiche nel Paese d'origine - in
Abdulazhon Isakov c. Russia e in
Yuldashev c. Russia.
c) Sul fronte dell’art. 5 Cedu merita menzione la sentenza Gatt c. Malta (27.7.2010), in cui la Corte ha ritenuto sproporzionata per eccesso la pena detentiva (pari a più di cinque anni e sei mesi) che il ricorrente aveva scontato per non aver pagato la somma (di circa 23.000 euro) che era stato condannato a versare a seguito della violazione degli obblighi derivanti dal provvedimento con cui, in precedenza, gli era stata concessa la libertà dietro cauzione, e ha conseguentemente rilevato la violazione dell’art. 5 § 1 Cedu. La pronuncia – che si inscrive nel filone giurisprudenziale inaugurato dalla Corte con le sentenze Vasileva c. Danimarca (25.9.2003) e Paradis c. Germania (4.9.2007) – costituisce un'applicazione del principio secondo cui, per essere legittima ai sensi dell'art. 5 § 1 Cedu, la privazione della libertà personale dev'essere proporzionata alla gravità dell'infrazione commessa.
d) Varie sono poi le pronunce che accertano una violazione dell'art. 10 Cedu, tutte originate dalla condanna penale del ricorrente per diffamazione, giudicata dalla Corte ingiustificatamente lesiva della sua libertà d'espressione (Mariapori c. Finlandia, Niskasaari c. Finlandia, Gazeta Ukraina-Tsentr c. Ucraina, nonché – soprattutto – Roland Dumas c. Francia, concernente un ex ministro degli Esteri francese condannato per avere diffamato il pubblico ministero che lo aveva rinviato a giudizio per accuse dalle quali egli era stato alla fine assolto). In una di queste pronunce – Gözel e Özer c. Turchia (6.7.2010) – la Corte è stata altresì chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con l’art. 7 Cedu della condanna penale dell’editore e redattore di un giornale per la pubblicazione di un articolo contenente dichiarazioni penalmente rilevanti; condanna che, nella prospettazione del ricorrente, configurava in sostanza un’ipotesi di responsabilità per fatto altrui. I giudici di Strasburgo non si sono, tuttavia, pronunciati su questo specifico punto, ritenendo che la violazione dell’art. 7 fosse assorbita in quella dell’art. 10 Cedu. (Introduzione a cura di Angela Colella)
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C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 8 luglio 2010, Vachkovi c. Bulgaria (importance level 2)
I ricorrenti, Veronika Vachkova e Petar Vachkov, cittadini bulgari, hanno denunciato che la polizia avrebbe sparato al loro figlio di 28 anni, Gancho Vachkov, sospettato di rapina, nel corso di un inseguimento per le strade di Sofia. Al termine dell’inseguimento, Gancho Vachkov era stato portato fuori da un edificio dalla polizia ancora vivo, con le mani legate dietro la schiena. Condotto in ospedale, era morto il giorno dopo. Malgrado le indagini, gli ufficiali che hanno eseguito l’arresto di Gancho Vachkov non sono mai stati identificati. Inoltre, una perizia sullo stato mentale di Gancho Vachkov durante le ore che precedettero la sua morte aveva concluso che il suicidio rappresentava una spiegazione plausibile per la sua morte. Questa tesi è stata confermata nel corso di un procedimento penale. Richiamando l'articolo 2 della Convenzione, i ricorrenti hanno lamentato l'uso eccessivo della forza contro il figlio e l'inadeguatezza delle indagini che ne sono conseguite. La Corte, poiché non era stato dimostrato che, durante l’arresto di Gancho Vachkov, vi fosse stato un pericolo tale da giustificare l'uso di armi da fuoco, ha constatato che la polizia avrebbe potuto tentare di negoziare con lui una resa. La Corte ha concluso che l’uso della forza non era stato assolutamente necessario, come richiesto dalla Convenzione. Per la Corte vi sarebbe stata, quindi, una violazione dell'articolo 2 della Convenzione. Per la Corte, inoltre, le indagini svolte sulla morte di Gancho Vachkov erano state incomplete, non obiettive e non efficienti, di nuovo in violazione dell'articolo 2 della Convenzione, questa volta sotto il profilo procedurale.
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 13 luglio 2010, Carabulea c. Romania (importance level 2)
Il ricorrente, Viorel Carabulea, si era rivolto alla Corte lamentando che il fratello, accusato di rapina, sarebbe morto a causa delle torture inflitte dalla polizia, mentre si trovava in custodia cautelare, e non, come sostenuto dal governo rumeno, per malattia. La relazione sull'autopsia, depositata il 4 Maggio 1996, aveva concluso che la causa della morte sarebbe stata una grave insufficienza cardio-respiratoria e la broncopolmonite. Le perizie di parte hanno invece fatto emergere lividi sul fianco destro, nonché un'emorragia interna al fegato di origine traumatica. Il ricorrente ha sostenuto, poi, che il fratello, nel corso di una visita in ospedale, avrebbe detto a sua moglie e ad un amico di essere stato più volte picchiato. Infine, il ricorrente ha lamentato l'inadeguatezza delle cure mediche fornite dalla polizia a suo fratello dopo il suo arresto. Gli articoli della Convenzione invocati sono stati, quindi, il 2, il 3, il 6 nonché il 13 ed il 14. Con riguardo all’articolo 2, la Corte ha ritenuto sussistente la violazione in quanto le autorità, non solo avevano omesso di fornire tempestivamente le cure mediche al fratello del ricorrente, ma anche di dare una spiegazione soddisfacente per la morte di un uomo perfettamente sano di 27 anni posto in custodia presso la polizia. La Corte ha, poi, affermato che, nel complesso, il trattamento a cui Gabriel Carabulea era stato sottoposto era da considerarsi pari a tortura, in violazione dell'articolo 3 della Convenzione. Ugualmente la Corte ha sostenuto sussistente la violazione dell’articolo 13, in quanto al ricorrente è stato anche negato un rimedio giuridico efficace in conseguenza della morte del fratello, compresa la possibilità di richiedere un risarcimento. La Corte non ha, invece, ritenuto necessario valutare separatamente le censure del ricorrente ai sensi dell'articolo 6, o dell'articolo 14, in combinato disposto con gli articoli 2, 3 e 13.
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 15 luglio 2010, Gelayevy c. Russia (importance level 2)
I ricorrenti sono sei cittadini russi che vivono a Gikalo in Cecenia. Sono i genitori, la sorella, i nonni e lo zio di Murad Gelayev, il quale è stato rapito da uomini armati nel 2000, quando Gikalo era sotto il pieno controllo delle forze federali russe. Insieme a tredici altri abitanti del villaggio, Murad Gelayev è stato portato in un centro di detenzione temporanea nel quartiere di Oktyabrskiy. Secondo alcuni degli uomini che sono stati arrestati con Murad, ma poi rilasciati, tra cui suo zio, Murad e altri detenuti sono stati denudati, ripetutamente picchiati con tubi di ferro e barre in acciaio. Durante un interrogatorio un funzionario avrebbe tagliato l'orecchio a Murad Gelayev con un coltello. A fronte delle rimostranze dei parenti del sig. Murad Gelayev, il governo russo non ha contestato i fatti, limitandosi a sostenere che l'inchiesta penale sul sequestro fosse ancora in corso. In parallelo, la famiglia si era lamentata con gli inquirenti dei maltrattamenti a cui erano state sottoposte la madre e la nonna di Murad durante il sequestro. La Corte EDU ha concluso l’istruttoria affermando che Murad Gelayev era stato arrestato da militari dello Stato durante un'operazione di sicurezza non riconosciuta. Nel contesto del conflitto in Cecenia, il fermo di una persona non identificata dai militari, senza alcun riconoscimento successivo del fermo, può essere considerato come indice di un pericolo di vita per il fermato. Considerato che non vi era stata alcuna notizia attendibile di Murad Gelayev per più di dieci anni e che il suo nome non era stato trovato in alcun centro di detenzione, la Corte ha constatato che doveva essere morto in seguito alla sua presunta detenzione da parte dei militari e che, dunque, vi è stata una violazione dell'articolo 2 della Convenzione. Un’altra violazione dell’articolo 2, di ordine procedurale, è stata constatata per il fatto che le autorità non hanno aperto un’indagine penale fino al luglio 2005. Successivamente le indagini sono state condotte in modo parziale e superficiale. Quanto all’articolo 3 (torture, maltrattamenti e la mancanza di indagine), secondo la Corte EDU le prove presentate sono state coerenti nel descrivere che dopo il sequestro i militari avrebbero sottoposto Murad Gelayev ad un trattamento tale da raggiungere la soglia della tortura. Altre due violazioni dell'articolo 3 riguardavano il trattamento a cui erano stati sottoposti i parenti di Murad Gelayev. La Corte ha ritenuto sussistente anche la violazione dell’articolo 5 della Convenzione per il fatto che Murad Gelayev era stato arrestato e tenuto in una detenzione segreta e senza che tale condizione fosse stata registrata in documenti ufficiali.
Per la Corte, infine, poiché l'inchiesta penale sulla sparizione di Murad Gelayev era stata del tutto inefficace vi era stata anche una violazione dell’articolo 13, in combinato disposto con l'articolo 2.
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 1 luglio 2010, Nedayborshch c. Russia (importance level 3)
Il ricorrente, il 5 dicembre 2003, veniva sottoposto ad un provvedimento di custodia cautelare in carcere nell'ambito di un procedimento penale. Nello stesso giorno era stato sottoposto ad un esame medico, compresa una radiografia dei polmoni, che rivelava segni di tubercolosi. In varie date dal 25 dicembre 2003 e dal 5 agosto 2004, il ricorrente veniva ospitato, per un totale di trentasei giorni, nel centro di permanenza temporanea (IVS Kopeysk) che si trova nei locali del dipartimento di polizia, invero progettato per la detenzione a breve termine dal momento che le sue celle non sono dotate di servizi igienici o acqua corrente. Inoltre, il ricorrente ha sostenuto che tutte le celle erano sovraffollate e infestate da insetti e roditori. La Corte EDU ha concluso che le condizioni di detenzione del ricorrente erano da considerarsi pari ad un trattamento inumano e degradante ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione, anche in assenza di qualsiasi azione intenzionale tesa ad umiliare o degradare il ricorrente da parte dell’autorità nazionale competente. La Corte ha altresì rilevato come il ricorrente avesse con ogni probabilità contratto la tubercolosi durante la sua detenzione.
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 1 luglio 2010, Nikiforov c. Russia (importance level 3)
Il 28 dicembre 2003, Nikiforov veniva arrestato, presumibilmente in stato di ebbrezza, lungo la linea ferroviaria. Successivamente, veniva ospitato in una cella di detenzione temporanea, dove veniva sottoposto a maltrattamenti e percosse. Il 31 dicembre 2003 il ricorrente veniva sottoposto ad un esame medico-legale al fine di determinare la portata e l’origine delle lesioni riportate. Nonostante venisse richiesta per sette volte, non veniva avviata alcuna azione penale nei confronti degli agenti di polizia. Il ricorrente ha, quindi, contestato alla Corte EDU la violazione dell'articolo 3 della Convenzione per essere stato picchiato dagli agenti di polizia e per il fatto che la sua denuncia non era stata oggetto di indagini. La Corte EDU ha rilevato che il racconto del ricorrente, secondo cui le lesioni erano il risultato di maltrattamenti inflitti su di lui da agenti di polizia allo scopo di estorcere una confessione, era compatibile con le conclusioni del perito forense. Per quanto riguarda la gravità dei maltrattamenti, la Corte ricorda che si deve tener conto della distinzione, di cui all'articolo 3 della Convenzione, tra la nozione di tortura e quella di trattamento inumano o degradante. Nella fattispecie la Corte ritiene che, anche se il danno è stato classificato come "lesioni lievi" nel procedimento nazionale, il naso rotto, le contusioni multiple e le abrasioni attestano la particolare gravità dei maltrattamenti a cui il ricorrente è stato sottoposto. La Corte ha concluso che i maltrattamenti in questione configurano la fattispecie della tortura ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione. Quanto ai profili procedurali, la Corte ha ricordato che l’inchiesta in caso di gravi accuse di maltrattamento deve essere sempre approfondita. Secondo la Corte, nella fattispecie, le autorità nazionali non hanno proceduto ad un effettivo accertamento delle affermazioni del ricorrente circa i maltrattamenti subiti. Di conseguenza, per la Corte c'è stata anche una violazione dell'articolo 3 della CEDU sotto il profilo procedurale.
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 1 luglio 2010, Davydov e altri c. Ucraina (importance level 2)
La sentenza riguarda tre ricorrenti, che, all’epoca dei fatti, stavano scontando la pena nelle carceri dell'Ucraina. I ricorrenti sono Sergiy Davydov, Vasyl Ilchenko e Sergiy Gomenyuk, tutti cittadini ucraini, i quali hanno denunciato di essere stati gravemente maltrattati dalle forze speciali di polizia durante un’esercitazione in carcere. In particolare, i detenuti sarebbero stati picchiati, calpestati, costretti a spogliarsi nudi e umiliati, inoltre, non avrebbero ricevuto alcuna assistenza medica e le loro lamentele successive non sarebbero state indagate in maniera adeguata. Inoltre, i ricorrenti hanno anche denunciato che la loro corrispondenza con la Corte europea dei diritti dell'uomo sarebbe stata censurata. Infine, i ricorrenti hanno altresì lamentato la scarsa qualità degli alimenti. A seguito delle indagini svolte, la Corte EDU ha concluso che i ricorrenti erano stati feriti e che, ciò nonostante, non era stato fornito loro alcun trattamento medico, ed inoltre che gli stessi erano stati minacciati dall'amministrazione penitenziaria che aveva chiesto loro di ritirare le denunce presentate alla Corte. La Corte ha constatato, dunque, che l’art. 3 della Convenzione era stato violato sotto vari profili: a) i maltrattamenti; b) l’assenza di indagini in merito alle denunce presentate dai ricorrenti; c) l’assenza di trattamenti medici; d) il sovraffollamento delle prigioni, che, essendo un problema di carattere strutturale, è di per sé una violazione della Convenzione. La Corte EDU ha concluso che vi era stata anche una violazione dell'articolo 13. La Corte ha, poi, constatato che le lettere dei ricorrenti erano state illegalmente controllate e censurate, in violazione dell'articolo 8, par. 1. La Corte ha, infine, ritenuto che il diritto dei richiedenti ad un ricorso individuale, sancito dall’art. 34 della Convenzione, era stato violato per le pressioni esercitate sui ricorrenti da parte delle autorità affinché ritirassero le loro denunce alla Corte.
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 6 luglio 2010, Dimakos c. Romania (importance level 3)
Il ricorrente, Ioannis Dimakos, cittadino greco, è stato arrestato nel marzo del 1998 e rilasciato nel giugno del 2009 dopo aver scontato una condanna per corruzione, appropriazione indebita, contraffazione e contrabbando. Il ricorrente, in seguito, ha lamentato le condizioni degradanti della sua detenzione nelle diverse carceri rumene in cui è stato detenuto durante quel periodo. Il ricorrente ha richiamato, in particolare l'articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti). La Corte EDU ha accertato detta violazione, prevedendo un risarcimento per il danno non patrimoniale sofferto.
Tra il 2004 e il 2006 i ricorrenti venivano incriminati negli Stati Uniti d'America con l'accusa di terrorismo. I sigg.ri Ahmad e Ahsan, in particolare, venivano accusati di vari reati tra cui il sostegno ai terroristi e attività di cospirazione compiute in un Paese straniero. Abu Hamza veniva accusato di 11 capi di imputazione per la presa di 16 ostaggi in Yemen nel 1998, per avere invocato la jihad in Afghanistan nel 2001 e per avere cospirato allo scopo di istituire un campo di addestramento della jihad a Bly, nell'Oregon (USA) tra il giugno 2000 ed il dicembre 2001. Il sig. Aswat veniva incriminato come complice di Abu Hamza. A seguito del loro rinvio a giudizio, il governo statunitense chiedeva l'estradizione dei ricorrenti dal Regno Unito. I provvedimenti di estradizione venivano confermati dai tribunali inglesi, avanti ai quali era stato proposto ricorso. I ricorrenti si rivolgevano, dunque, alla Corte EDU, sostenendo in particolare che, in quanto non-cittadini statunitensi sospettati di appartenere ad Al-Qaeda e di aver aiutato e spalleggiato atti di terrorismo internazionale, vi era il rischio che venissero considerati come “nemici combattenti” con la conseguenza di essere, giudicati da una commissione militare e di essere condannati al carcere a vita o alla pena di morte. Nel ricorso venivano invocati gli articoli 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti), 5 (diritto alla libertà e sicurezza), 6 (diritto ad un equo processo), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione. La Corte EDU, ritenendo che non vi fosse alcun rischio reale che i ricorrenti potessero venire designati come nemici combattenti, ha dichiarato, sotto questo profilo, le denunce dei ricorrenti irricevibili. Nondimeno, la Corte EDU ha ritenuto che il sigg.ri Ahmad, Aswat e Ahsan, se estradati, sarebbero soggetti, una volta concluso il processo, al rischio concreto di venire posti in stato di detenzione presso il penitenziario di massima sicurezza US Penitentiary, Administrative Maximum, Florence, Colorado (“ADX Florence”) e ha dichiarato il ricorso ricevibile in riferimento alle condizioni di detenzione estremamente rigide (di isolamento pressoché assoluto), cui i ricorrenti potrebbero essere ivi sottoposti per tutto il resto della loro vita, in ragione della probabile condanna all’ergastolo. Ad avviso della Corte, le loro doglianze ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione concernono questioni di fatto e di diritto di tale complessità da richiedere un maggiore approfondimento: essa ha invitato, quindi, tutte le parti a presentare ulteriori osservazioni al riguardo.
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 8 luglio 2010, Abdulazhon Isakov c. Russia (importance level 3)
Il ricorrente, Abdulazhon Isakov, è un cittadino uzbeko che è stato arrestato in Russia e posto in detenzione in attesa di estradizione. Il ricorrente ha sostenuto davanti alla Corte EDU che la sua detenzione in attesa di estradizione era stata illegale e che, se estradato nel paese d'origine, dove il suo nominativo si trovava all’interno di una lista di ricercati per il suo presunto coinvolgimento in movimenti estremisti, sarebbe stato a rischio reale di persecuzione a sfondo politico, tortura o maltrattamenti e ha, quindi, invocato l'articolo 3, 5, parr. 1 e 4 e 13, in combinato disposto con l’articolo 3 della Convenzione. La Corte ha rilevato una violazione delle disposizioni richiamate.
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 8 luglio 2010, Yuldashev c. Russia (importance level 3)
Il ricorrente, Murod Yuldashev, è un cittadino uzbeko che è stato arrestato in Russia e posto in detenzione in attesa di estradizione. Il ricorrente ha sostenuto davanti alla Corte EDU che la sua detenzione in attesa di estradizione era stata illegale e che, se estradato nel paese d'origine, dove il suo nominativo si trovava all’interno di una lista di ricercati per il suo presunto coinvolgimento in movimenti estremisti, sarebbe stato a rischio reale di persecuzione a sfondo politico, tortura o maltrattamenti e ha quindi invocato l'articolo 3, 5, parr. 1 e 4 e 13, in combinato disposto con l’articolo 3 della Convenzione. La Corte ha rilevato una violazione delle disposizioni richiamate.
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 8 luglio 2010, Matveyev c. Russia (importance level 3)
Il ricorrente, Aleksandr Matveev, cittadino russo, ha denunciato davanti alla Corte la violazione dell’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo per essere stato sottoposto a condizioni terribili di detenzione cautelare nelle prigioni di Pietroburgo e Mosca. Il ricorrente era stato fermato con l’accusa di omicidio. La Corte, alla luce delle indagini svolte, ha riscontrato una violazione dell’articolo 3 della Convenzione.
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 13 luglio 2010, Dbouba c. Turchia (importance level 2)
Il ricorrente, Saafi Ben Fraj Dbouba, un cittadino tunisino simpatizzante di un movimento islamico, ora noto come Ennahda, ha lasciato la Tunisia nel 1990 a causa della persecuzione nei suoi confronti da parte delle forze di sicurezza. Il ricorrente, attualmente detenuto in un centro di detenzione in Turchia, e imputato in un procedimento penale per l'adesione ad Al-Qaeda, ha affermato che la sua detenzione è illegittima e che, se estradato nel suo paese d'origine, sarebbe soggetto ad un rischio reale di tortura o maltrattamenti. Il ricorrente, pertanto, ha invocato l’applicazione degli articoli 3, 5 parr. 1, 2, 4 e 5 e 13. La Corte EDU ha ritenuto che in caso di espulsione ci sarebbe stata la violazione delle norme sopra richiamate.
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 13 luglio 2010, Parnov c. Moldavia (importance level 3)
Il ricorrente, Vladimir Parnov, un cittadino moldavo, ha fatto ricorso alla Corte EDU, denunciando la violazione degli articoli 3 e 13 della Convenzione, per essere stato vittima di brutalità da parte della polizia nel marzo del 2005, quando lo stesso era stato arrestato e detenuto con l'accusa di possesso e vendita di marijuana. Il ricorrente ha inoltre denunciato che l'indagine sulle accuse a lui rivolte era stata inadeguata, tanto che è stato prosciolto da ogni accusa nel febbraio del 2007. La Corte EDU ha riscontrato una violazione dell'articolo 3, per trattamenti inumani o degradanti e per mancanza di un effettivo accertamento, nonché una violazione dell'articolo 13.
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 13 luglio 2010, Karagöz e altri c. Turchia (importance level 3)
I ricorrenti Gönül Karagöz, Haydar Ballıkaya e Bekir Çadırcı sono cittadini turchi arrestati nel 1997 perché sospettati di coinvolgimento in organizzazioni terroristiche. I ricorrenti hanno sostenuto di essere stati torturati mentre si trovavano in custodia della polizia ad Istanbul, e che il conseguente procedimento penale contro gli agenti di polizia coinvolti non era stato effettivo. La Corte ha, dunque, rilevato la violazione degli articoli 3 e 13 della Convenzione.
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 13 luglio 2010, Lopata c. Russia (importance level 2)
Il ricorrente, Aleksandr Lopata, un cittadino russo, sta attualmente scontando una pena detentiva di nove anni per l'omicidio di D., amico di sua figlia. Il signor Lopata ha sostenuto di essere stato maltrattato, al fine di essere costretto a rilasciare una confessione. A seguito delle percosse, il ricorrente aveva reso la confessione ed era stato quindi portato in un centro di custodia cautelare dove non era stato sottoposto ad alcun esame medico, se non dopo diverso tempo, e senza che gli venisse riscontrata alcuna lesione. Le autorità nazionali avevano poi rifiutato di avviare un procedimento penale contro i poliziotti coinvolti nella vicenda.
Inoltre, dopo il suo ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo, il sig. Lopata era stato visitato in carcere dal capitano G., un funzionario di Stato che avrebbe cercato di fare pressione su di lui affinché ritirasse la denuncia alla Corte. La Corte EDU ha manifestato innanzitutto serie riserve riguardanti l'accuratezza e l'affidabilità della relazione medica condotta sul ricorrente. La Corte ha, quindi, dichiarato che sia l'inchiesta, sia il processo erano stati compromessi da carenze e discrepanze con la conseguenza che le affermazioni del ricorrente sui maltrattamenti subiti non erano state indagate in modo efficace. Tuttavia, proprio per questo motivo, alla Corte è stato impedito di poter riscontrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, se il sig Lopata fosse stato sottoposto a maltrattamenti, come da lui asserito. Di conseguenza, la Corte non ha ritenuto che vi fosse stata una violazione dell'articolo 3 della Convenzione. La Corte ha preso poi in considerazione alcune circostanze: che il ricorrente non aveva potuto parlare con il suo avvocato per diversi giorni; che non vi era alcuna prova che il ricorrente avesse rinunciato al diritto di assistenza legale; che il ricorrente non appena aveva potuto parlare con il suo avvocato aveva subito ritrattato la sua confessione; che i giudici del processo di primo grado e dell’appello avevano disatteso la censura del ricorrente secondo cui la sua confessione era stata ottenuta in assenza di assistenza legale. Sulla base di questi fatti, la Corte ha ritenuto che il ricorrente era stato sottoposto ad un processo iniquo, in violazione dell'articolo 6, par. 1, in combinato disposto con l'articolo 6, par. 3. La Corte ha ritenuto che il ricorrente aveva buoni motivi per essersi sentito intimidito dalla sua conversazione con il capitano G. Egli era stato sottoposto a pressioni illecite, il che significa che la Russia non aveva rispettato i suoi obblighi ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione.
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 15 luglio 2010, Vladimir Krivonosov c. Russia (importance level 3)
Il ricorrente, Vladimir Krivonosov, cittadino russo, si è rivolto alla Corte EDU lamentando la violazione dell'art. 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) e dell'art. 13 (diritto ad un ricorso effettivo) della Convenzione per essere stato detenuto in condizioni terribili in un centro di detenzione cautelare e per non avere potuto fare valere, in tale condizione, i propri diritti. Inoltre, il ricorrente ha denunciato la violazione dell'articolo 5, parr. 1, 3 e 4, per essere stato detenuto illegalmente e per troppo tempo in attesa del processo, nonché per il fatto che la legittimità della sua detenzione non era stata oggetto di verifica da parte di un giudice. Infine, il sig. Krivonosov ha denunciato la violazione dell'articolo 6, par. 1 per l’eccessiva durata del processo. La Corte ha constatato la violazione di tutte le disposizioni richiamate eccetto che per l'articolo 5, par. 1.
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 15 luglio 2010, Aleksandr Smirnov c. Ucraina (importance level 3)
Il ricorrente, Aleksandr Smirnov, un cittadino ucraino, invocando davanti alla Corte EDU l'articolo 3, ha denunciato di essere stato maltrattato dalla polizia nel marzo del 2002 dopo il suo arresto con l'accusa di furto e che la sua denuncia non è stato oggetto di un’indagine accurata da parte delle autorità ucraine. La Corte, a seguito delle indagini, ha rilevato una violazione dell'articolo 3 per mancanza di un accertamento effettivo delle responsabilità, a seguito della denuncia del ricorrente, ma non per trattamenti inumani o degradanti.
Il ricorrente, di nazionalità libica, ha denunciato il rischio di venire sottoposto a maltrattamenti se espulso o deportato nel suo paese d'origine. Egli era stato arrestato con l’accusa di appartenere ad una organizzazione criminale responsabile di condurre una guerra santa (jihad) contro l'Olanda. Nonostante nel giugno 2003 fosse stato prosciolto da ogni accusa, nel 2005 era stato oggetto di un ordine di espulsione in quanto rappresentava un pericolo per la sicurezza nazionale. La Corte EDU ha ribadito che il divieto di maltrattamento di cui all'articolo 3 della Convenzione deve essere considerato come assoluto, vale a dire che non ammette alcuna eccezione. La Corte ha inoltre osservato che l'esistenza di leggi nazionali e l'adesione ai trattati internazionali sui diritti dell’uomo da parte di uno Stato che non è parte della Convenzione non è di per sé sufficiente a garantire un'adeguata protezione da maltrattamenti. Ciò avviene soprattutto laddove vengono svolte o tollerate pratiche manifestamente contrarie alla Convenzione. La Corte ha poi rilevato che la situazione generale dei diritti umani in Libia continua a dare adito ad una serie di preoccupazioni. Di conseguenza, la Corte ha concluso che l'espulsione del ricorrente in Libia avrebbe violato l'articolo 3 della Convenzione.
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 20 luglio 2010, Ramzy c. Paesi Bassi (importance level 2)
Il ricorrente, di nazionalità algerina, ha denunciato il rischio di venire sottoposto a maltrattamenti se espulso o deportato nel suo paese d'origine. Il ricorrente era stato arrestato nel 2002 con l'accusa di avere fatto parte di Al-Qaeda. Prosciolto da ogni accusa nell'agosto 2005, egli era stato ritenuto una minaccia per la sicurezza nazionale. La Corte ha ribadito che il divieto di maltrattamento di cui all'articolo 3 della Convenzione deve essere considerato come assoluto, vale a dire che non ammette alcuna eccezione. La Corte ha, inoltre, osservato che l'esistenza di leggi nazionali e l'adesione ai trattati internazionali sui diritti da parte di uno Stato che non è parte della Convenzione non è di per sé sufficiente a garantire un'adeguata protezione da maltrattamenti. Ciò avviene soprattutto laddove vengono svolte o tollerate pratiche, manifestamente contrarie alla Convenzione. La Corte, tuttavia, avendo rilevato che il signor Ramzy, non era intervenuto nel corso del procedimento, ne ha dedotto che lo stesso avesse perso interesse a proseguire la sua azione, e ha deciso di cancellare il caso.