ISSN 2039-1676


06 ottobre 2011 |

Monitoraggio luglio 2011

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte EDU rilevanti in materia penale

Prosegue il monitoraggio mensile delle sentenze e delle più importanti decisioni della Corte EDU che interferiscono con il diritto penale sostanziale.
La scheda mensile è, come di consueto, preceduta da una breve introduzione contenente una presentazione ragionata dei casi decisi dalla Corte, nella quale vengono segnalate al lettore le pronunce di maggiore interesse.
Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.
 
SOMMARIO
 
1. Introduzione
2. Articolo 2 Cedu
3. Articolo 3 Cedu
4. Articolo 5 Cedu
5. Articolo 6 Cedu
6. Articolo 8 Cedu
7. Articolo 9 Cedu
8. Articolo 10 Cedu
 
 
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1. Introduzione
 
a) In tema di art. 2 Cedu preme segnalare immediatamente all’attenzione dei lettori la sentenza resa dalla grande camera nel caso Al-Skeini e altri c. Regno Unito, che costituisce un importante esempio di applicazione extraterritoriale della Convenzione, questa volta nell’ambito di una missione militare all’estero.
Più nel dettaglio, i sei ricorsi decisi con la medesima pronuncia dal collegio nella sua composizione più estesa riguardavano l’uccisione di cittadini irakeni da parte di militari britannici di stanza in Iraq, e si riferivano ad episodi avvenuti tra il maggio ed il novembre 2003, ossia in un momento successivo a quello in cui le forze della coalizione avevano deposto il precedente regime ed esercitavano sul territorio irakeno alcuni dei poteri pubblici che normalmente sono di competenza di un governo sovrano: in virtù di tale considerazione, la Corte ha ritenuto che i cittadini irakeni rimasti uccisi fossero sottoposti alla “giurisdizione” del Regno Unito ai sensi dell’art. 1 Cedu, e che pertanto operassero le garanzie previste dalle norme della Convenzione. Sulla base di tale premessa, i giudici di Strasburgo hanno riscontrato in relazione a cinque dei sei episodi oggetto di ricorso la violazione procedurale dell’art. 2 Cedu, perché le autorità britanniche non avevano condotto indagini effettive.
La pronuncia – sulla quale verrà pubblicato a breve un contributo più esteso a firma di Chantal Meloni – presenta particolari profili di interesse anche per le potenziali applicazioni del principio di diritto espresso in tale occasione dalla Corte ad episodi analoghi avvenuti nei Paesi in cui l’Italia è impegnata in missioni militari, anche laddove le vittime non siano (esclusivamente) civili.
 
Nella pronuncia Papapetrou e altri c. Grecia, invece, la Corte ha escluso la violazione procedurale dell’art. 2 Cedu in relazione alla morte del patriarca di Alessandria, di suo fratello e di quattro alti prelati, avvenuta mentre si trovavano a bordo di un elicottero che, a causa di un incidente, era precipitato nel mar Egeo.
E’ interessante notare come i giudici di Strasburgo siano pervenuti alla suddetta conclusione esaminando il caso nel merito, a dispetto del fatto che, trattandosi di un’ipotesi di omicidio colposo (e non doloso), sulle autorità greche non incombesse l’obbligo procedurale di attivare i meccanismi della giustizia penale. Il ragionamento dei giudici di Strasburgo muove, infatti, dall’affermazione per cui le persone rimaste uccise si trovavano a bordo di un elicottero in dotazione all’esercito greco, e dunque sotto la “custodia” delle autorità; e che quest’ultime erano pertanto tenute, in prima battuta, ad adottare tutte le precauzioni necessarie a minimizzare i rischi per la vita e, in seconda battuta, ad attivare un’indagine effettiva sulle cause della morte.
 
Merita menzione anche la decisione di parziale ammissibilità resa dalla Corte nel caso Janowiec e altri c. Russia, relativo all’eccidio di prigionieri polacchi da parte del avvenuto nel 1940. La Corte ha invero dichiarato inammissibili tutti i motivi di ricorso, ad eccezione di quello fondato sull’art. 3 Cedu (i ricorrenti lamentavano, infatti, che l’atteggiamento sprezzante delle autorità russe a fronte delle loro richieste sulla sorte dei loro cari e la mancanza di informazioni in proposito costituisse un trattamento inumano e degradante).
 
La Corte ha infine riconosciuto una duplice violazione, sostanziale e procedurale, dell’art. 2 Cedu in relazione al suicidio in circostanze sospette di un militare turco (Metin c. Turchia) e all’uccisione di un ragazzo di soli undici anni durante una sparatoria (Khashuyeva c. Russia).
 
b) Sul fronte dell’art. 3 Cedu, va menzionata anzitutto la pronuncia Saçilik e altri c. Turchia, relativa ad un’imponente operazione di polizia all’interno di un istituto carcerario, in cui le forze dell’ordine si erano abbandonate a violenze brutali e gratuite nei confronti dei detenuti: la Corte ha riscontrato, in quell’occasione, una duplice violazione sostanziale e procedurale dell’art. 3 Cedu. 
Oltre a questo, sono ben sei gli episodi di police brutality affrontati nel mese di luglio dai giudici di Strasburgo (Shishkin c. Russia;  Fyodorov e Fyodorova c. Ucraina; Rupa c. Romania; Korobov c. Ucraina; Yavuz Celik c. Turchia; Ianos c. Romania), ai quali si aggiunge un caso di maltrattamenti in carcere da parte di altri detenuti, con l’acquiescenza delle guardie carcerarie (Antochi c. Romania).
 
Merita un cenno anche la sentenza Gadamauri e Kadyrbekov c. Russia, nella quale la Corte ha riscontrato la violazione sostanziale della norma in parola in relazione alla vicenda di un uomo che, mentre si dirigeva all’ospedale in preda a forti dolori addominali, era stato fermato dalla polizia e trattenuto in stato di detenzione fino a quando non era svenuto per il dolore, nonostante le sue disperate richieste di cure mediche.
 
Sono tre, infine, le pronunce in cui la Corte ha ravvisato una violazione dell’art. 3 Cedu in relazione alle condizioni della detenzione (Haritonov c. Moldavia; Kondratishko e altri c. Russia; Musialek e Baczynski c. Polonia).
 
c) Tra le sentenze in tema di art. 5 § 1 Cedu, si segnala per importanza la sentenza Al-Jedda c. Regno Unito, relativa all’internamento di un civile, con doppia cittadinanza inglese e irachena, nel 2004, in un centro di detenzione a Bassora, in Iraq, gestito dalle forze britanniche. La sentenza – per l’analisi della quale si rimanda ad un contributo più dettagliato in corso di pubblicazione su questa Rivista – presenta profili di interesse non solo perché risolve importante questioni in tema di giurisdizione, ma anche per il fatto che la Corte europea, contrariamente a quanto sostenuto dalla House of Lords inglese, ha escluso che la risoluzione 1546 del Consiglio di sicurezza dell’ONU (la quale aveva autorizzato le forze britanniche ad utilizzare l’internamento «se necessario per motivi imperativi di sicurezza in Iraq») avesse comportato una deroga all’art. 5 § 1 Cedu, concludendo pertanto che essa non poteva essere intesa nel senso di autorizzare, esplicitamente o implicitamente, la privazione della libertà personale di un individuo sulla base di un generico rischio di sicurezza.
 
In tema di trattenimento di stranieri nel corso del procedimento di espulsione, si segnala invece la sentenza M. e altri c. Bulgaria, con cui la Corte europea, conformemente alla propria giurisprudenza consolidata (cfr., da ultimo, sent. 8 ottobre 2009, Tadesch c. Grecia), ha riscontrato una violazione dell’art. 5 § 1 lett. f Cedu sotto il profilo del principio di proporzione, in quanto le autorità bulgare si erano attivate per procurarsi i documenti necessari per espatriare il ricorrente dopo più di un anno dall’inizio della sua detenzione.
d) Per quel che concerne le sentenze in tema di art. 6 § 1 Cedu, merita senz’altro menzione la sentenza Csiki c. Romania, in cui la Corte ha riscontrato una violazione della norma in parola con riferimento all’irragionevole durata dell’inchiesta svolta in merito alla morte di un giovane durante il servizio militare, mentre ha escluso una violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo procedurale in relazione all’inefficacia della medesima inchiesta. La Corte pare, dunque, essersi discostata in quest’occasione dalla sua giurisprudenza più recente, la quale, in casi come quello in esame, dove il ricorrente è la vittima (e non l’imputato), tende sempre più spesso a considerare il profilo della durata del processo sotto l’angolo visuale dell’art. 2, invece che dell’art. 6 § 1 Cedu.
 
e) Sul fronte dell’art. 8 Cedu si segnala la già menzionata pronuncia M. e altri c. Bulgaria in cui la Corte europea – oltre a ravvisare, come poc’anzi accennato, una violazione dell’art. 5 § 1 lett. f Cedu in relazione al trattenimento del ricorrente nel corso della procedura di espulsone – ha concluso anche per una violazione strutturale dell’art. 8 Cedu in relazione all’espulsione amministrativa del ricorrente disposta dalle autorità bulgare per motivi di sicurezza nazionale, sulla base di informazioni d’intelligence riservate: i giudici europei, secondo quanto ritenuto precedentemente nelle sentenze C.G. e altri c. Bulgaria; Raza c. Bulgaria e Kaushal c. Bulgari, hanno ribadito che per ritenere legittimo l’allontanamento dal territorio è necessario che l’autorità giudiziaria nazionale sia messa in grado di effettuare un pieno controllo sulla fondatezza dei motivi che possono giustificare un’espulsione e sulla meritevolezza dei contro interessi che possono venire in rilievo, come il diritto alla vita privata e familiare. Considerato, inoltre, che casi simili a quello del ricorrente erano già stati portati alla sua attenzione,la Corte ha ritenuto di attivare l’art. 46 Cedu e assistere così lo stato convenuto nell’esecuzione della sentenza, suggerendo in particolare di adottare misure tese a garantire un pieno controllo giurisdizionale sulla sussistenza dei presupposti e di eventuali limiti all’esecuzione del provvedimento d’espulsione.
 
Merita inoltre di essere ricordata la sentenza K. c. Slovenia,con cui la Corte ha ravvisato una violazione dell’art. 8 Cedu, sotto il profilo del principio di proporzione, con riferimento alle limitazioni imposte al diritto del ricorrente di visitare e avere contatti con la figlia durante il processo penale avviato nei suoi confronti per aver abusato della medesima ragazza, in quanto il processo si era protratto per un periodo irragionevole di tempo.
 
f) Per quel che concerne l’art. 9 Cedu, riveste particolare importanza la sentenza Bayatyan c. Armenia con cui la grande camera – ribaltando la pronuncia resa dalla sezione semplice della Corte europea il 27 ottobre 2009 – ha ritenuto che la repressione penale della condanna penale del ricorrente, testimone di Geova, per essersi sottratto al servizio militare in nome delle proprie convinzioni religiose, avesse comportato una restrizione sproporzionata del suo diritto alla libertà religiosa. Giova al riguardo rilevare come i giudici europei, nella determinazione dell’ampiezza del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati firmatari in materia di obiezione di coscienza, abbiano riconosciuto l’esistenza di un consenso d’opinioni a livello europeo in merito al riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza, sottolineando in particolare come il riconoscimento di tale diritto rappresenta una precondizione per l’ammissione di nuovi Stati membri del Consiglio d’Europa.
 
g) In tema di art. 10 Cedu, si segnalano le sentenze Wizerkaniuk c. Polonia e UJ c. Ungeria in tema di diffamazione. In particolare, nel caso Wizerkaniuk la Corte ha riconosciuto una violazione della suddetta norma penale in relazione al divieto, sanzionato penale, previsto dalla legge polacca di pubblicare le interviste senza il consenso della persona intervistata. Nella sentenza UJ c. Bulgaria, invece, la Corte ha ritenuto sproporzionata la condanna per diffamazione del ricorrente per aver definito “una merda” un famoso vino ungherese, prodotto da una società di proprietà statale, rilevando che la forte critica aveva colpito la società pubblica e non una persona fisica e che essa era diretta alla politica nazionale in tema di privatizzazioni e non alla qualità del vino (Introduzione a cura di Angela Colella e Lodovica Beduschi).
 
2. Articolo 2 Cedu
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, decisione 5 luglio 2011, ric. nn. 55508/07 e 29520/09, Janowiec e altri c. Russia (importance level 3)
Il 23 agosto 1939 i ministri degli Esteri della Germania e dell'Unione Sovietica hanno firmato un trattato di non aggressione (noto come “il Patto Molotov-Ribbentrop”) che includeva un protocollo addizionale segreto con cui le parti hanno convenuto la spartizione del territorio polacco. Dopo la conquista da parte dell'Armata Rossa della Polonia, l'NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni) imprigionò migliaia di militari e civili polacchi nei Gulag per poi condannarli alla pena di morte a seguito di procedimenti sommari condotti da troike (commissioni composte da 3 persone), una sorta di corte marziale. Molti dei documenti relativi a tali procedimenti andarono distrutti, altri furono archiviati e mantenuti segreti. L'8 maggio 2010, il presidente russo ha trasmesso al Presidente del Parlamento polacco 67 volumi contenenti i fascicoli d'indagine relativi alla strage di KatyÅ„ in cui furono giustiziati migliaia di polacchi. In merito a detta strage, a partire dal 1990 furono avviati indagini penali, anche a seguito del ritrovamento di fosse comuni.
I ricorrenti, tutti parenti di cittadini polacchi, uccisi nei campi di prigionia, hanno adito la Corte EDU invocando l’applicazione di varie disposizioni della Convenzione. Con riferimento all’articolo 2 sotto il profilo sostanziale, la Corte rileva, come riconosciuto dagli stessi ricorrenti, di non avere competenza ratione temporis per esaminare l'omicidio di massa dei prigionieri polacchi avvenuto nel 1940. Per la Corte EDU, si tratta, dunque, di capire se l'articolo 2 della Convenzione possa essere applicato sotto il profilo procedurale relativamente all’inadeguatezza delle indagini, in quanto queste si sono svolte dopo la data di ratifica. La Corte ritiene che il problema della competenza temporale sia strettamente connesso al merito della censura dei ricorrenti, tanto da ritenere necessario, nel caso di specie, un esame congiunto di questi profili.
I ricorrenti invocano, poi, l'articolo 3 della Convenzione, affermando che, a causa della mancanza di informazioni sulla sorte dei loro parenti e per l'approccio sprezzante delle autorità russe rispetto alle loro richieste di informazioni, essi hanno subito un trattamento inumano e degradante. La Corte ha ritenuto questo motivo di ricorso non inammissibile.
I ricorrenti lamentano, ai sensi dell'articolo 6 della Convenzione, che i procedimenti nazionali sono stati iniqui perché era stato negato loro lo status di vittima e l'accesso ai fascicoli d’indagine e perché il tribunale aveva respinto il loro ricorso contro le decisioni dei pubblici ministeri con cui erano state respinte le richieste di riabilitazione dei loro parenti. Assumendo che l'articolo 6 si applica nelle circostanze particolari del caso, la Corte ritiene che, nel caso di specie, non vi è alcuna indicazione in merito a violazioni procedurali. Il fatto che le domande dei ricorrenti non siano state accolte non è di per sé indicativo di una violazione del principio dell’equo processo. Alla luce di tutto il materiale disponibile nel fascicolo di causa, la Corte non ha riscontrato alcuna violazione dell'articolo 6 della Convenzione.
I ricorrenti lamentano, ai sensi dell'articolo 13 della Convenzione, di non avere avuto un rimedio efficace per ottenere l'accesso alle informazioni sulla sorte dei loro parenti e che essi non sarebbero stati in grado di presentare un ricorso civile con probabilità di successo in assenza dei risultati delle indagini penali. La Corte rileva che i ricorrenti non hanno mai manifestato alcuna intenzione di introdurre cause civili di risarcimento. Anche se avessero avuto intenzione di avviarle, la Corte non può presumere che esse si sarebbe inevitabilmente concluse con esito negativo. Pertanto, la Corte rileva che questa censura è manifestamente infondata e deve essere respinta.
Infine, i ricorrenti lamentano, ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione, il rifiuto delle autorità russe di accogliere le domande di riabilitazione dei loro parenti e, ai sensi dell'articolo 9 della Convenzione, la mancanza di informazioni sui luoghi di sepoltura degli stessi. La Corte ritiene che, nonostante i ricorrenti avessero un interesse legittimo a richiedere la riabilitazione dei loro parenti, il rigetto delle loro domande non costituisce un'interferenza con il loro diritto al rispetto della vita familiare. Invero, monumenti e targhe commemorative sono state erette nella foresta di Katyn e altrove per segnare i luoghi dove i parenti dei ricorrenti sono stati giustiziati. Allo stesso modo, non si può dire che la mancanza di informazioni precise abbia impedito ai ricorrenti di svolgere cerimonie religiose o comunque esercitare il loro diritto alla libertà di religione. Ne consegue che, a giudizio della Corte EDU, questa parte del ricorso è manifestamente infondata e deve essere respinta.
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 5 luglio 2011, ric. n. 34085/06, Velkhiyev e altri c. Russia (importance level 3)
I ricorrenti sono Bekhan Velkhiyev, la moglie e i cinque figli, tutti cittadini russi. I ricorrenti erano tutti a casa di Bashir Velkhiyev, fratello di Bekhan Velkhiyev, quando, la mattina del 20 luglio 2004, un gruppo di militari in uniforme mimetica e armati irruppe nell’abitazione che fu sottoposta a perquisizione senza aver prodotto un mandato. Secondo i ricorrenti, i militari avrebbero rubato diverse migliaia di dollari USA. Inoltre, i fratelli Velkhiyev vennero portati, bendati, presso locali del Ministero degli Interni della Inguscezia, a Nazran, dove, interrogati su un attacco da parte di ribelli combattenti avvenuto in Inguscezia un mese prima, non avendo fornito alcuna informazione, furono picchiati e torturati.
Il mattino seguente a Bekhan fu detto che suo fratello Bashir era morto per un infarto. Nell'aprile del 2005, la Procura di Nazran ha confermato che alcuni ufficiali non identificati del Ministero dell’Interno avevano illegittimamente arrestato Bekhan e Bashir Velkhiyevi e li avevano picchiati brutalmente presso i locali dell'Unità per la criminalità organizzata. Invocando gli articoli 2, 3, 5, 8, e 13 CEDU, i ricorrenti hanno denunciato la detenzione e le torture di Bekhan e Bashir, nonché la morte di Bashir. La Corte EDU ha concluso che l'incapacità di identificare le persone responsabili non poteva che essere il risultato di una riluttanza delle autorità giudiziarie a proseguire le indagini, in violazione dell'articolo 2 della Convenzione. La Corte EDU ha poi constatato che Bekhan e Bashir Velkhiyevi erano stati torturati, in violazione dell'articolo 3 della Convenzione, e che le indagini non erano state efficaci, sempre in violazione dell'articolo 3 della Convenzione. Essa ha infine rilevato che Bekhan e Bashir Velkhiyevi era stato tenuti in uno stato di detenzione, non registrato, in violazione dell'articolo 5 § 1 della Convenzione.
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 5 luglio 2011, ric. n. 26773/05, Metin c. Turchia(importance level 2)
I ricorrenti, Abdurrahmann Metin e Remziye Metin, due cittadini turchi, invocando in particolare la violazione dell'articolo 2 Cedu, lamentavano le circostanze in cui era morto, per impiccagione, il loro figlio Mustafa, durante il servizio militare obbligatorio ed il fatto che l'inchiesta penale sulla sua morte era stata inefficace. L'inchiesta si era, poi, conclusa avendo stabilito che si sarebbe trattato di un caso di suicidio, sebbene i ricorrenti avessero sempre sostenuto che il loro figlio era stato ucciso. Secondo il procuratore militare era evidente da alcune dichiarazioni raccolte che Mustafa si era suicidato a causa della depressione derivante da problemi familiari ed economici; depressione che aveva richiesto delle cure di carattere psichiatrico.
La Corte EDU ha, in primis, ricordato che l'articolo 2 della Convenzione impone un obbligo positivo per gli Stati di assumere in via preventiva tutte le misure necessarie per proteggere le persone che si trovano sotto la loro giurisdizione da terzi o, se del caso, da se stessi. Tale obbligo, senza dubbio, esiste anche nel campo del servizio militare obbligatorio. Secondo la Corte EDU, nel caso di specie, se non era emersa durante le indagini alcuna ragione per supporre che la vita del sig. Mustafa Metin fosse stata minacciata da terzi, si tratta di capire se le autorità militari sapevano o avrebbe dovuto sapere che c'era il rischio che Mustafa si potesse suicidare e, in caso affermativo, se tali autorità avevano fatto tutto quello che si poteva ragionevolmente attendere da loro per evitare questo rischio. In proposito, la Corte EDU ricorda che Mustafa aveva informato le autorità che aveva problemi psicologici, assumeva alcol e droghe e aveva compiuto atti autolesionistici. Stando così le cose, ed in base alle verifiche fatte, secondo la Corte le autorità sanitarie militari avevano omesso di vigilare e monitorare, con la necessaria attenzione, lo stato psicologico di Mustafa prima e durante il servizio militare. La Corte EDU ha, dunque, riscontrato una duplice violazione dell'articolo 2 Cedu, sia sotto il profilo sostanziale, sia sotto quello procedurale.
 
C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 7 luglio 2011, ric. n. 55721/07, Al-Skeini e altri c. Regno Unito(importance level 1)
Il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti d'America, il Regno Unito e la loro coalizione di alleati, attraverso le forze armate, sono entrati in Iraq con l'obiettivo di sostituire il regime Ba’ath allora al potere. Nel maggio del 2003 gli obiettivi militari erano stati completati e gli Stati Uniti e il Regno Unito erano diventate potenze occupanti il cui ruolo di sicurezza è stato riconosciuto dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con la risoluzione 1483. L'occupazione si è conclusa il 28 giugno 2004, con il subentro del governo provvisorio iracheno. I ricorrenti, sei cittadini iracheni, si sono rivolti alla Corte EDU lamentando che i loro familiari erano rimasti uccisi per mano delle forze britanniche e che le indagini non erano state condotte in modo efficacie.
Il problema principale era se la Convenzione europea dei diritti dell'uomo trovasse applicazione in caso di uccisione di civili iracheni in Iraq da parte di soldati britannici tra il maggio ed il novembre 2003. La Corte ha dovuto decidere se i parenti dei ricorrenti rientravano nella "giurisdizione" del Regno Unito ai sensi dell'articolo 1 Cedu. La Corte ha fatto riferimento alla sua precedente giurisprudenza nella quale ha affermato che uno Stato è normalmente tenuto ad applicare la Convenzione soltanto all'interno del proprio territorio. L'applicazione extraterritoriale cadrebbe nella giurisdizione dello Stato ai sensi della Convenzione solo in caso di eccezionali circostanze. Una di esse si ha quando un Stato vincolato dalla Convenzione esercita poteri pubblici sul territorio di un altro Stato. Nel caso di specie, dopo la rimozione dal potere del regime Ba’ath e fino alla adesione del governo provvisorio iracheno, il Regno Unito (insieme agli Stati Uniti) ha assunto in Iraq l'esercizio di alcuni dei poteri pubblici che vengono esercitati in genere da un governo sovrano.
I ricorrenti lamentavano che il governo britannico non aveva adempiuto al suo obbligo di effettuare un'indagine efficace sulla morte dei loro parenti. La Corte ha fatto riferimento alla sua precedente giurisprudenza secondo cui l'obbligo di proteggere la vita richiede che ci dovrebbe essere un'indagine ufficiale efficace quando gli individui sono stati uccisi in conseguenza dell'uso della forza da parte di agenti dello Stato. In conclusione, la Corte ha riscontrato una violazione procedurale dell'articolo 2 relativamente alla mancanza di un efficace indagine sulla morte dei parenti del primo, secondo, terzo, quarto e quinto ricorrente, non invece in riferimento al sesto ricorrente in quanto qui un'indagine è stata effettivamente svolta. Ai ricorrenti sono stati risarciti i danni non patrimoniali.
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 12 luglio 2011, ric. n. 17380/09, Papapetrou e altri c. Grecia (importance level 3)
I ricorrenti  sono sette cittadini ciprioti residenti a Nicosia (Cipro) e tre cittadini greci residenti sull'isola di Lesbo (Grecia). L'11 settembre 2004 un elicottero che trasportava il Patriarca ortodosso di Alessandria e di tutta l’Africa, Pietro VII, e 16 membri del suo entourage è caduto nel Mar Egeo nei pressi del monte Athos, dove il patriarca avrebbe dovuto fare la sua prima visita ufficiale. Lo stesso giorno la Procura della Repubblica presso il Tribunale militare di Salonicco ha avviato un procedimento per omicidio colposo. Pochi giorni dopo, il Ministro della Difesa ha ordinato l'istituzione di una commissione d'inchiesta con il compito di condurre un’indagine sulla caduta e sul recupero del relitto del velivolo. L'operazione di recupero è stata condotta dalle forze armate. Nel luglio 2006 alcuni importanti pezzi del relitto sono stati trasferiti negli Stati Uniti ai laboratori militari ed ai laboratori di proprietà della Boeing, la società che aveva prodotto l'elicottero. I ricorrenti sostengono che la scatola nera che era stata recuperata è stata accidentalmente distrutta mentre era in corso l’indagine negli Stati Uniti. I ricorrenti si sono costituiti come parte civile, chiedendo che venisse avviata una ricerca per trovare la seconda scatola nera e la parte anteriore dell'elicottero che era affondata. La Commissione d’inchiesta ha sostenuto che il co-pilota non aveva soddisfatto i requisiti di sicurezza per il volo. Il 12 luglio 2006 il Tribunale militare di Salonicco ha respinto la richiesta dei ricorrenti di riesumare i corpi delle vittime per condurre una seconda autopsia. Il comitato consultivo istituito negli Stati Uniti ha inviato la sua relazione al giudice militare di Salonicco, ma non ha individuato una causa specifica per l'incidente. Il 12 maggio 2008 il Tribunale militare di Salonicco ha ritenuto che non era stato possibile identificare le cause esatte dell’incidente, e che il co-pilota avrebbe potuto essere in parte responsabile in quanto difettava della necessaria competenza professionale. Il Tribunale di Salonicco ha, poi, lasciato decadere il capo di imputazione.
Invocando l'art. 2 CEDU, i ricorrenti hanno lamentato, in particolare, il fatto che le autorità non erano state in grado di individuare le cause dell’incidente e che non era stato contestato alcun reato.
La Corte ha sottolineato che l'obbligo di tutelare il diritto alla vita comporta che gli agenti dello Stato o gli enti coinvolti devono essere ritenuti responsabili per le morti che si verificano sotto la loro responsabilità. Le indagini devono essere condotte in modo indipendente e devono essere adottate tutte le misure ragionevoli per identificare e punire i responsabili, gravando, tuttavia, sugli inquirenti un obbligo non di risultati, ma di mezzi. La Corte ha osservato, per quanto riguarda la questione della indipendenza delle autorità inquirenti, che i comitati erano stati composti da esperti provenienti da diversi settori, militari e civili. La Corte ha, inoltre, rilevato che i ricorrenti avevano regolarmente partecipato all'inchiesta al fine di meglio difendere i loro interessi. In particolare, avevano avuto accesso ai documenti ed ai rapporti trasmessi alle autorità giudiziarie. Di conseguenza, secondo la Corte EDU l'indagine condotta dalle autorità si poteva considerare come "efficace" e hanno pertanto escluso una violazione procedurale dell'articolo 2 della Convenzione.
 
La ricorrente, cecena, è madre di Mamed Bagalayev, ragazzo di undici anni rimasto accidentalmente ucciso nel corso di una sparatoria tra uomini dei servizi russi e i vicini di casa. La ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2 Cedu tanto sotto il profilo sostanziale – con riguardo naturalmente alla morte del figlio – quanto sotto il profilo procedurale, dal momento che le autorità governative negano il coinvolgimento dei servizi russi in quanto accaduto e le inchieste giudiziarie non sono riuscite ad individuare i responsabili della morte di Mamed.
La Corte accoglie il ricorso sotto entrambi i profili, ritenendo poco plausibili le spiegazioni fornite dal governo russo relativamente all’intera vicenda e del tutto inadeguate le inchieste giudiziarie.
 
 
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3. Articolo 3 Cedu
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 5 luglio 2011, ric. n. 43044/05, Saçilik e altri c. Turchia(importance level 2)
Il caso riguardava una denuncia presentata da Veli Saçilik e da 24 altri cittadini turchi, ex detenuti nel carcere di Burdur (Turchia), in merito ad una grande operazione di sicurezza svoltasi nel carcere il 5 luglio 2000. I ricorrenti sostengono che la forza usata contro di loro durante l'operazione era stata
inutile ed eccessiva. In particolare, nel corso di tale operazione, ben 415 fra agenti di polizia penitenziaria e soldati avevano dato fuoco alle celle dei detenuti, i quali in due casi avevano riportato delle ustioni, e avevano usato gas lacrimogeni e gas chimici. Il Sig. Saçılık ha affermato inoltre che con un marchingegno utilizzato per aprire un buco nel muro dove si erano asserragliati i detenuti, gli era stato strappato il braccio sinistro, poi recuperato dalla bocca di un cane randagio. Altri detenuti erano rimasti ammanettati con le mani dietro la schiena per 15 ore e sistematicamente picchiati con i manganelli. Il governo ha affermato che le forze di sicurezza erano dovute intervenire nel carcere per sedare una rivolta carceraria e ripristinare la sicurezza. Le indagini portavano alla conclusione che non c’erano stati maltrattamenti e che le accuse erano state inventate per danneggiare la reputazione delle forze armate. Invocando l'articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti), i ricorrenti affermavano di essere stati sottoposti a sistematica, sproporzionata e ingiustificata violenza nella prigione di Burdur. Essi hanno inoltre sostenuto che le indagini successive erano state inadeguate ed erano state effettuate semplicemente per salvare le apparenze.
La Corte EDU, facendo applicazione del criterio dell’inversione dell’onere della prova, ha concluso che il governo non era riuscito, in violazione dell'articolo 3 della Convenzione, a fornire una plausibile spiegazione di come i detenuti in loro custodia, vulnerabili per la natura stessa della loro condizione, avessero subito delle lesioni e pertanto ha riconosciuto una violazione sostanziale dell’art. 3 Cedu per trattamenti disumani o degradanti. La Corte EDU ha, inoltre, sostenuto che vi era stata una violazione procedurale dell'articolo 3, a causa della inefficacia delle indagini condotte per far luce sulle accuse di maltrattamenti.
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 5 luglio 2011, ric. n. 41550/02, Gadamauri e Kadyrbekov c. Russia (importance level 3)
 
I ricorrenti, Kuri Gadamauri e Magomed Kadyrbekov, sono cittadini russi. Il sig. Gadamauri, mentre si dirigeva verso un ospedale, a causa di forti dolori addominali, era stato fermato dalla polizia e posto in stato di detenzione. Nonostante le sue continue richieste di aiuto medico, egli non era stato ricoverato in ospedale fino a quando era svenuto privo di conoscenza. A quel punto, il ricorrente era stato, quindi, sottoposto ad un intervento chirurgico di emergenza per una peritonite, con varie complicanze post-operatorie. La Corte EDU ha riscontrato una violazione sostanziale dell’art. 3 della Convenzione per trattamenti disumani o degradanti.
 
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 5 luglio 2011, ric. n. 15868/07,Haritonov c. Moldavia(importance level 3)
Il richiedente, Ghenadi Haritonov, un cittadino ucraino, residente a Comyshany (Ucraina), veniva arrestato nel maggio 2006 con l'accusa di possesso di documenti falsi. Il ricorrente è stato anche accusato di essere membro e capo di una banda criminale specializzata nella falsificazione di documenti e tratta di persone. Durante la sua detenzione, che si è svolta in tre diversi centri di detenzione, il ricorrente ha affermato di essere stato recluso in celle sovraffollate, infestate da parassiti, che il cibo era di scarsa qualità, e che i detenuti erano stati autorizzati a fare la doccia solo una volta alla settimana per due minuti e potevano fare passeggiate di 15-20 minuti due o tre volte alla settimana. Dopo questo periodo di custodia cautelare, il ricorrente è stato riconosciuto colpevole e condannato al carcere a diciassette anni. Il signor Haritonov, in base dell'articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti), si è rivolto alla Corte EDU lamentando le condizioni disumane della sua detenzione. La Corte EDU, alla luce delle verifiche effettuate, ha riscontrato la veridicità delle asserzioni del ricorrente e quindi la violazione diretta dell'articolo 3 della Convenzione per trattamenti disumani o degradanti.
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 7 luglio 2011, ric. n. 18280/04, Shishkin c. Russia(importance level 3)
Il richiedente, Sergey Shishkin, è un cittadino russo, residente a Lipetsk (Russia). Due diversi procedimenti penali sono stati avviati nei suoi confronti nel novembre 2000 e nel gennaio 2001, in quanto sospettato di tre episodi di rapina e furto e di un episodio di omicidio e rapina. Dato che il signor Shishkin aveva negato il proprio coinvolgimento in questi reati, egli era stato duramente picchiato e torturato presso i locali della polizia. Come conseguenza del maltrattamento, il sig. Shishkin ha confessato i reati di cui era sospettato e ha rinunciato al suo diritto ad un avvocato. Nel febbraio 2001, il sig. Shishkin ha presentato una denuncia per maltrattamenti da parte della polizia finalizzati ad estorcergli una confessione. Nel maggio di quell'anno, il procedimento penale per omicidio e rapina nei suoi confronti è stato archiviato, perché altri indagati sono stati condannati per quei reati. Invocando, in particolare, l'articolo 3 della Convenzione, il ricorrente ha lamentato di essere stato torturato mentre si trovava in stato di custodia presso la stazione della polizia e di essere stato maltrattato quando è stato scortato in tribunale, e che i suoi reclami non era stati oggetto di indagine.
Invocando, poi, l'articolo 6 della Convenzione, il ricorrente lamentava di non aver avuto
accesso ad un avvocato dal momento in cui era stato arrestato e che la condanna si era basata su prove ottenute da lui sotto costrizione. 
La Corte EDU ha rilevato che i tribunali russi avevano riconosciuto che il sig. Shishkin era stato ripetutamente maltrattato.  Dato che era stato maltrattato con lo scopo di fargli confessare un crimine che non aveva commesso, la Corte EDU ha concluso che il sig. Shishkin era stato sottoposto a torture. La Corte ha poi rilevato che né l'inchiesta su tali torture, né il risarcimento che gli era stato concesso erano stati adeguati. Di conseguenza, vi era stata una duplice violazione dell'articolo 3 della Convenzione sia sotto il profilo sostanziale, sia procedurale. 
Quanto all’assenza dell’avvocato difensore, che il ricorrente aveva potuto incontrare solo 10 giorni dopo il suo arresto, la Corte ha riscontrato una violazione dell'articolo 6 § 3. La Corte ha, poi, affermato che lo stesso fatto che il ricorrente non era stato assistito da un avvocato durante l'interrogatorio, aveva compromesso il procedimento.Di conseguenza, vi era stata una violazione anche dell'articolo 6 § 1 della Convenzione.
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 7 luglio 2011, ric. n. 39229/03, Fyodorov e Fyodorova c. Ucraina (importance level 2)
 
I ricorrenti, Vladimir Fyodorov e Tatyana Fyodorova, marito e moglie, sono cittadini ucraini, residenti in Takhtaulovo (Ucraina). I coniugi Fyodorovs avevano una lunga storia di contrasti con i loro vicini, con risvolti sia civili, sia penali (per una lite in cui il sig Fyodorov aveva ferito il vicino di casa). I vicini lo hanno accusato di molestie continuate, nonché hanno sostenuto che egli possedeva due fucili ed era una persona pericolosa. Al signor Fyodorov, nel corso di un colloquio informale nel cortile di un ospedale dove era stato ricoverato, è stato diagnosticato da parte di uno psichiatra un disturbo della personalità ed è stato suggerito un trattamento psichiatrico. Il sig. Fyodorov ha proposto ricorso lamentandosi di essere stato oggetto di un esame psichiatrico estemporaneo senza il suo consenso e che, pertanto, l'esame e la diagnosi risultante erano stati eseguiti in violazione della legge e della deontologia. I giudici nazionali, ritenendo che lo psichiatra non avesse informato il signor Fyodorov del motivo della sua visita e avesse tratto le sue conclusioni solo dopo una conversazione molto breve e informale, ha ordinato alle autorità mediche di rimuovere la diagnosi dall’archivio del sig. Fyodorov. Tale sentenza è stata successivamente annullata in appello, in quanto l’operato del medico era stato ritenuto conforme al diritto interno. Il sig. Fyodorov successivamente ha presentato ricorso in cassazione e ha chiesto una revisione straordinaria, senza successo. Successivamente, a seguito di ulteriori reclami da parte dei vicini, il signor Fyodorov è stato trasportato in ospedale per cure psichiatriche. I ricorrenti sostengono che, nell’occasione, essi sarebbero stati sottoposti a brutalità da parte degli agenti di polizia. Gli esami medici hanno in effetti denotato lividi sui loro volti e corpi. Il procedimento penale che ne è seguito si è concluso con una decisione secondo cui la forza usata contro i signori Fyodorovs era stata necessaria e ragionevole in base alle circostanze. In seguito, il signor Fyodorov è stato sottoposto ad una valutazione psichiatrica e gli esperti hanno concluso che egli non era affetto da un disturbo psichiatrico né in tale epoca, né al momento del suo internamento.
Invocando l'articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti), i ricorrenti hanno affermato di essere stati maltrattati dalla polizia e che la successiva inchiesta era stata inefficace. Invocando l'art 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), il signor Fyodorov ha anche fatto ricorso per il fatto che era stato condotto un esame psichiatrico estemporaneo senza il suo consenso. Infine, il sig. Fyodorov si è lamentato ai sensi dell'articolo 6 § 1 (diritto ad un equo processo) in quanto non gli era stato notificato il processo d'appello relativo alla causa che aveva intentato contro il medico.  La Corte EDU ha rilevato che, in violazione dell'articolo 3 della Convenzione, la violenza usata nei confronti del sig. Fyodorov era stata sproporzionata. La Corte EDU ha poi rilevato che, a distanza di sette anni, l’indagine non si era ancora formalmente conclusa, in violazione sempre dell'articolo 3 della Convenzione. La Corte ha poi rilevato una violazione dell’articolo 8 della Convenzione, avendo ritenuto che la diagnosi medica sulla salute mentale del sig. Fyodorov non era stata legittima. La Corte ha, infine, ritenuto che l’assenza del sig. Fyodorov all'udienza di appello, per mancata notifica, ha costituito una violazione del principio della parità delle armi e quindi dell'articolo 6 § 1 della Convenzione.
 
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 12 luglio 2011, ric. n. 36632/04, Antochi c. Romania (importance level  3)
Il richiedente, Ghiorghi Antochi, è un cittadino rumeno detenuto dal 1994 nel carcere di Craiova, condannato per l'omicidio del padre. Durante la detenzione, quando era in cura per la tubercolosi nell'ospedale della prigione, il ricorrente è stato picchiato da due detenuti, in presenza di una guardia carceraria. A fronte della denuncia del ricorrente, l'ufficio del procuratore militare ha archiviato il caso, ritenendo che le affermazioni del ricorrente non erano giustificate. In seguito, il ricorrente è stato trasferito al carcere di Craiova, dove è stato oggetto di una nuova aggressione da parte di un detenuto che gli ha causato un trauma nella zona toracica destra. Il procedimento penale nei confronti dell’aggressore si è concluso con la sua assoluzione, in quanto il giudice ha ritenuto che il ricorrente avesse contribuito al verificarsi dei fatti denunciati. Tale decisione è stata confermata anche in secondo grado. Invocando l'articolo 3 della Convenzione (divieto di trattamenti inumani o degradanti), il ricorrente si è rivolto alla Corte EDU lamentando, dunque, di essere stato sottoposto a maltrattamenti da parte di suoi compagni di detenzione in due occasioni, nel 1999 e nel 2004, con la complicità delle guardie carcerarie, e che nessuna indagine seria era stata condotta in merito a tali eventi. La Corte EDU ha, in primo luogo, rilevato la lentezza del procedimento, essendo stato il ricorrente sottoposto alla visita di un medico legale più di due anni dopo i fatti, quando oramai tutte le tracce delle violenze erano scomparse, ciò nonostante una esplicita richiesta del ricorrente di essere sottoposto subito a detta visita. La Corte EDU ha quindi concluso che l'indagine da parte delle autorità nazionali era stata insufficiente e, pertanto, vi era stata una violazione dell'articolo 3 della Convenzione sugli aspetti procedurali.
 
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 12 luglio 2011, ric. n. 8258/05, Ianos c. Romania (importance level 3)
Il richiedente, Daniel Ianos, è un cittadino rumeno residente a Timisoara (Romania). La sera del 12 maggio 2001 un gruppo di agenti di polizia, membri delle forze speciali, alla ricerca di presunti criminali, fermò una macchina in cui viaggiavano il signor Ianos e altre quattro persone. Gli agenti di polizia trascinarono violentemente le cinque persone fuori dalla macchina, per poi bloccarle a terra ed ammanettarle. Secondo il sig. Ianos, uno degli agenti, che lo aveva riconosciuto e con cui aveva litigato in precedenza, lo aveva colpito da dietro con un pugno sul torace. Dopo che gli agenti si erano resi conto che i cinque fermati non erano i sospetti, questi erano stati rilasciati subito dopo il loro arrivo alla stazione di polizia. In seguito, il sig. Ianos era stato sottoposto ad una operazione per la rottura della milza. Un medico legale, dopo averlo esaminato, aveva concluso che il sig. Ianos era stato in pericolo di vita e che, con ogni probabilità, era stato colpito con un oggetto contundente. Il sig. Ianos presentava, quindi, una denuncia contro il poliziotto, il quale veniva condannato da un tribunale di primo grado che prevedeva in favore del sig. Ianos un risarcimento. A seguito di un ricorso straordinario da parte del pubblico ministero, l’Alta Corte annullava la sentenza, ritenendo che la condanna era fondata principalmente sulle osservazioni dei passeggeri e non sulla versione dei fatti data dalla polizia. Il poliziotto è stato, quindi, assolto. Invocando l'articolo 6 della Convenzione, il sig. Ianos ha lamentato l'annullamento della sentenza a lui favorevole e passata in giudicato per mezzo di un ricorso straordinario. Basandosi poi sull'articolo 3 della Convenzione, il sig. Ianos ha lamentato la denegata giustizia. Secondo la Corte EDU una sentenza può essere soggetta a revisione in presenza di fatti nuovi, di errori di giurisdizione o di applicazione del diritto sostanziale, di gravi violazioni della procedura o per abuso di potere, mentre la semplice opinione che l'indagine era stata incompleta o unilaterale non poteva di per sé essere equiparata a un difetto fondamentale nel procedimento. La Corte EDU ha quindi riscontrato una violazione dell'articolo 6 § 1 e anche dell’articolo 3 della Convenzione, ritenendo che le lesioni subite dal sig. Ianos fossero state il risultato dei maltrattamenti da parte dell’agente di polizia.
 
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 19 luglio 2011, ric. n. 37971/02, Rupa c. Romania (importance level 3)
Il ricorrente, cittadino rumeno, nel 2000 rifiutava di sottoporsi ad un controllo da parte della polizia, colpendo peraltro l’agente di pattuglia e danneggiando l’auto di quest’ultimo. Iniziavano quindi procedimenti penali a suo carico. Il ricorrente, invocando gli artt. 3 e 13 Cedu, lamenta di essere stato picchiato durante l’interrogatorio, della mancanza di un’inchiesta effettiva su quanto accaduto e di non aver avuto a disposizione un rimedio giurisdizionale effettivo per valere i propri diritti.
La Corte ritiene che non vi sia stata violazione dell’art. 3 sotto il profilo sostanziale, dal momento che il ricorrente non è riuscito a provare le violenze subite, a suo dire, dalla polizia. La Corte invece accoglie il ricorso quanto alle doglianze relative al profilo procedurale dell’art. 3 e all’art. 13.
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 19 luglio 2011, ric. n. 3937/03, Kondratishko e altri c. Russia(importance level 3)
I ricorrenti, cittadini russi, venivano arrestati e condannati, tra l’altro, per rapina e sequestro di persona. Il primo ricorrente lamenta la violazione dell’art. 3 Cedu per le condizioni (sovraffollamento) della custodia cautelare. Il terzo ricorrente lamenta di essere stato picchiato e minacciato durante l’arresto dalla polizia, che voleva costringerlo a confessare.
La Corte accoglie il ricorso del primo ricorrente, in quanto ritiene accertata la denunciata situazione di estremo sovraffollamento dell’istituto penitenziario, tale per cui i carcerati, al momento della custodia cautelare del ricorrente, potevano usufruire in cella di uno spazio compreso tra 1,3 e 2 metri quadrati. La Corte ritiene violato l’art. 3 anche con riferimento al terzo ricorrente, tanto sotto il profilo sostanziale quanto sotto il profilo procedurale, data la mancanza di un’inchiesta effettiva sui maltrattamenti subiti.
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 19 luglio 2011, ric. n. 52442/09, Durdevic c. Croazia(importance level  2)        
Il ricorrente, zingaro croato, rimaneva coinvolto in una rissa originata da insulti razzisti rivolti al fratello. I partecipanti alla rissa – salvo il ricorrente, al tempo minore – venivano condannati al più a pagare qualche multa. Inoltre, la madre del ricorrente, durante la permanenza in questura dei coinvolti nella rissa, subiva maltrattamenti gratuiti da parte della polizia. Il ricorrente, ancora, da tempo era vittima di episodi di bullismo durante la scuola. Il ricorrente invoca gli artt. 3 e 8 Cedu. In particolare, con riferimento alla rissa, il corrente ritiene che le autorità nazionali non si siano adoperate per punire adeguatamente i partecipanti.
La Corte ritiene inammissibile il ricorso con riferimento alla rissa, rilevando come le autorità nazionali avessero effettivamente proceduto contro i soggetti coinvolti. La Corte poi, con riferimento ai maltrattamenti subiti dalla madre del ricorrente, riconosce la violazione dell’art. 3 ma soltanto sotto il profilo procedurale – in particolare rilevando la mancanza di un’inchiesta indipendente sull’accaduto – dal momento che non può ritenersi sufficientemente stabilita la dinamica della vicenda. La Corte, infine, dichiara inammissibile e rigetta il ricorso relativo agli episodi di bullismo, in quanto non sufficientemente circostanziato.
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 21 luglio 2011, ric. n. 39598/03, Korobov c. Ucraina (importance level  3)
Il ricorrente, cittadino ucraino, durante la custodia cautelare ordinata per un’accusa di estorsione veniva picchiato e torturato con scariche elettriche dalla polizia. Il ricorrente invoca l’art. 3 Cedu tanto sotto il profilo sostanziale quanto sotto il profilo procedurale.
La Corte accoglie il ricorso sotto entrambi i profili, ritenendo che le autorità governative non siano riuscite a spiegare in modo convincente le lesioni subite dal ricorrente e risultanti da certificati medici e rilevando come l’autorità giudiziaria non abbia sentito testimoni chiave citati dal ricorrente nel processo relativo alle torture.
 
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 26 luglio 2011, ric. n. 32798/02, Musialek e Baczynski c. Polonia (importance level 3)
I ricorrenti, cittadini polacchi, lamentano la violazione dell’art. 3 Cedu, in riferimento alle condizioni della detenzione subita. La Corte accoglie il ricorso del primo ricorrente mettendo in rilievo, tra l’altro, il limitato spazio vitale concesso al detenuto nella propria cella e il sovraffollamento di detenuti ivi presenti, anche in rapporto alle particolari condizioni di salute del ricorrente. La Corte dichiara invece inammissibile per mancato esaurimento dei rimedi interni il ricorso del secondo ricorrente.
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 26 luglio 2011, ric. n. 34461/07, Yavuz Celik c. Turchia (importance level 3)
Il ricorrente, cittadino turco, lamenta la violazione dell’art. 3 Cedu per essere stato picchiato durante la sua permanenza alla stazione di polizia in seguito a un episodio di oltraggio ed aggressione agli agenti e per la mancanza di un’inchiesta effettiva su tali fatti.
La Corte accoglie il ricorso tanto sotto il profilo sostanziale quanto sotto il profilo procedurale rilevando, da un lato, come le lesioni patite dal ricorrente risultassero da certificati medici non contestati dalle autorità governative, dall’altro le numerose ed evidenti omissioni degli inquirenti.
 
 
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4. Articolo 5 Cedu
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 5 luglio 2011, ric. n. 33055/08, Venios c. Grecia(importance level 3)
Il ricorrente, Ioannis Venios, è un cittadino greco, residente ad Atene. Nei confronti del ricorrente, la madre ed il fratello avevano chiesto di disporre una perizia psichiatrica, in seguito a fenomeni di aggressività nei loro confronti. Il ricorrente veniva così portato, su ordine del pubblico ministero, da due poliziotti in un ospedale dove un medico ne ordinava l’internamento nel reparto psichiatrico sulla base di un accertato delirio associato a manie di persecuzione. Avvalendosi in particolare dell'articolo 5 § 1 (diritto alla libertà e sicurezza) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, egli si era rivolto alla Corte EDU lamentando di essere stato recluso in un ospedale psichiatrico, senza il suo consenso, dal dicembre del 2007 al gennaio 2008. La Corte EDU, adita dal ricorrente, ha accertato che il sig. Venios era stato internato, contro la sua volontà, per periodi superiori a quelli previsti dalla normativa nazionale. Inoltre, la decisione di internare il ricorrente era stata presa dallo psichiatra dell'ospedale, a seguito di un esame su una base ambulatoriale, senza un’autorizzazione espressa del pubblico ministero o del tribunale. Questi elementi sono sufficienti, a giudizio della Corte, per riscontrare una violazione dell'articolo 5 § 1 della Convenzione in quanto la privazione della libertà del ricorrente era stata illegittima.
 
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 5 luglio 2011, ric. n. 14749/03, Karņejevs c. Lettonia(importance level 3)
Il ricorrente, Valenti ns Karņejevs, residente in Lettonia, sta attualmente scontando una condanna di 21 anni nella prigione di Jelgava (Lettonia) per omicidio aggravato e furto. Il ricorrente, invocando in particolare l'articolo 5 § 4 (diritto alla libertà e alla sicurezza) della Convenzione, si è rivolto alla Corte EDU lamentando l'illegittimità e la mancanza di sindacato giurisdizionale relativamente alla sua detenzione dopo che era stato rinviato a giudizio. La Corte EDU ha, in primo luogo, rilevato che la censura del ricorrente riguarda solo un aspetto particolare, preso in considerazione dall'articolo 5 § 4 della Convenzione, ovvero che non gli è stato riconosciuto un rimedio adeguato con il quale richiedere un controllo sulla legittimità della sua detenzione nella fase processuale, ovvero dopo essere stato rinviato a giudizio. Tale circostanza è stata effettivamente accertata dalla Corte che ha constatato, dunque, la violazione dell'articolo 5 § 4 della Convenzione.
 
C. eur. dir. uomo, Grande Camera, sent. 7 luglio 2011, ric. n. 27021/08, Al-Jedda c. Regno Unito(importance level 1)
Il richiedente, Hilal Abdul-Razzaq Ali Al-Jedda, cittadino iracheno, residente a Istanbul, in Turchia, aveva giocato per la squadra di basket irachena fino a quando, in seguito al suo rifiuto di aderire al Partito Baath, aveva lasciato l'Iraq e vissuto negli Emirati Arabi Uniti ed in Pakistan. In seguito, il ricorrente si è trasferito nel Regno Unito nel 1992, dove ha presentato una richiesta di asilo ed è stato ammesso a tempo indeterminato. Nel giugno del 2000 gli è stata concessa la cittadinanza britannica. Nel settembre 2004 il signor Al-Jedda ed i suoi quattro figli più grandi ,viaggiando da Londra in Iraq, via Dubai, venivano arrestati ed interrogati dai servizi di intelligence degli Emirati Arabi Uniti. Rilasciati dopo 12 ore hanno proseguito il  loro viaggio verso l'Iraq. In seguito, alcuni soldati degli Stati Uniti, a quanto pare sulla base di informazioni fornite dai servizi segreti britannici, hanno arrestato il signor Al-Jedda a casa della sorella a Baghdad, portandolo in seguito in un Centro di detenzione temporanea a Bassora City, gestito dalle forze britanniche. Qui il ricorrente è stato internato per oltre tre anni. In seguito, il sig. Al-Jedda ha avviato un giudizio lamentando l'illegittimità della sua detenzione continuata ed anche il rifiuto del governo britannico di consentirgli il ritorno nel Regno Unito. Il governo inglese sosteneva che il fermo fosse stato autorizzato dalla Risoluzione 1546 del Consiglio di sicurezza dell'ONU. La Camera dei Lord il 17 dicembre 2007, ha dichiarato, all'unanimità, che la Risoluzione 1546 del Consiglio di sicurezza aveva imposto al Regno Unito degli obblighi che prevalevano, ai sensi dell'articolo 103 della Carta delle Nazioni Unite, su qualsiasi obbligo derivante dalla CEDU. Il sig. Al-Jedda è poi stato privato della cittadinanza britannica, sulla base di presunti collegamenti con Gruppi islamici, in Iraq e altrove, e per essere stato responsabile di reclutamento di terroristi fuori dall'Iraq. 
Il ricorrente davanti alla Corte EDU lamentava di essere stato imprigionato dalle forze armate del Regno Unito in Iraq, in violazione dell'articolo 5 § 1. Sui rapporti fra Carta Onu e Convenzione, la Corte EDU ha rilevato che l'Onu è stata creata, non solo per mantenere pace e sicurezza internazionali, ma anche per ottenere "la cooperazione internazionale nel promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali". La Corte ha poi affermato che, sebbene la risoluzione 1546 del Consiglio di sicurezza dell'ONU avesse autorizzato il Regno Unito ad adottare misure per contribuire al mantenimento della sicurezza e della stabilità in Iraq, né tale risoluzione, né altra risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU, esplicitamente o implicitamente, aveva autorizzato il Regno Unito a mantenere un individuo in stato di detenzione senza accuse specifiche, solo per il fatto di essere considerato un rischio per la sicurezza dell'Iraq. Secondo la Corte non c’è stato, dunque, nel caso di specie, alcun conflitto fra gli obblighi del Regno Unito in base alla Carta delle Nazioni Unite ed i suoi obblighi ai sensi articolo 5 §1 della Convenzione; inoltre, tale ultima norma era stata violata avendo mantenuto il signor Al-Jedda in stato di ingiusta detenzione.
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 12 luglio 2011, ric. n. 26291/05, Hıdır Durmaz c. Turchia (importance level 3)
Il ricorrente, il sig Hıdır Durmaz, è un cittadino turco, residente a Smirne. Nel 1998 è stato condannato a 14 anni e 7 mesi di reclusione. Dopo la pubblicazione, nel 2004, del nuovo codice penale turco, che sarebbe entrato in vigore nel giugno del 2005 e avrebbe reso il reato commesso dal sig Durmaz punibile con un periodo di reclusione più breve di quello previsto dal codice penale precedente, la sentenza del ricorrente era stata sospesa. Invocando l'articolo 5 §§ 1 e 5, il ricorrente ha presentato ricorso davanti alla Corte EDU lamentando il fatto di non essere stato rilasciato se non dieci giorni dopo che la sentenza era stata sospesa, e per il fatto di non avere ricevuto alcun risarcimento del danno causato dal protrarsi della propria detenzione, ritenuta illegale. La Corte EDU ha constatato una viola