13 giugno 2012 |
Monitoraggio Corte EDU aprile 2012
Rassegna di sentenze e decisioni della Corte EDU rilevanti in materia penale
Prosegue il monitoraggio mensile delle sentenze e delle più importanti decisioni della Corte EDU che interferiscono con il diritto penale sostanziale. La scheda mensile è, come di consueto, preceduta da una breve introduzione contenente una presentazione ragionata dei casi decisi dalla Corte, nella quale vengono segnalate al lettore le pronunce di maggiore interesse.
Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.
SOMMARIO
1. Introduzione
2. Articolo 2 Cedu
3. Articolo 3 Cedu
4. Articolo 5 Cedu
5. Articolo 6 Cedu
6. Articolo 7 Cedu
7. Articolo 8 Cedu
8. Articolo 9 Cedu
9. Articolo 10 Cedu
10. Articolo 1 prot. 1 Cedu
* * *
1. Introduzione
a) In tema di art. 2 conviene prendere le mosse dalla sentenza Ilbeyi Kemaloglu e Meriye Kemaloglu c. Turchia, relativa alla morte del figlio dei ricorrenti, di soli sette anni, nel corso di una tempesta di neve. La Corte ha riscontrato nel caso di specie la violazione procedurale di detta norma, unitamente a quella dell'art. 6 § 1 Cedu, perché il procedimento penale avviato nel 2004 contro il preside della scuola - che non aveva avvertito della fine anticipata delle lezioni i gestori del servizio di scuolabus - risultava ancora pendente, e perché i ricorrenti non avevano ottenuto alcun esonero dal pagamento del contributo per le spese di giustizia a dispetto delle loro precarie condizioni economiche.
Si può accostare a quella or ora esaminata anche la sentenza Iliya Petrov c. Bulgaria, in cui la Corte ha riconosciuto una duplice violazione dell'art. 2 Cedu in relazione alle gravi lesioni riportate da una bambina di undici anni che, mentre giocava in un parco giochi, si era introdotta all'interno di una centralina di energia elettrica ed era stata colpita da una scarica accidentale.
Entrambe le pronunce evidenziano una progressiva estensione, nella giurisprudenza di Strasburgo, degli obblighi procedurali discendenti dall'art. 2 Cedu a fronte di violazioni soltanto colpose di detta norma.
Per quanto la stessa non presenti ricadute immediate sotto il profilo penalistico (non essendo nel caso di specie stati attivati gli strumenti della giustizia penale), va segnalata poi la sentenza Panaitescu c. Romania, in cui la Corte ha condannato la Romania in relazione alla morte del padre del ricorrente a causa di un tumore, perché il servizio sanitario si era rifiutato di dare esecuzione a un provvedimento giurisdizionale che imponeva la somministrazione gratuita di farmaci antineoplastici.
Merita un cenno anche la sentenza Sašo Gorgiev c. Ex Repubblica Yugoslava di Macedonia, in cui la Corte EDU ha evidenziato la mancanza di una normativa volta a disciplinare l'utilizzo delle armi da parte delle forze dell'ordine (nel caso di specie, un poliziotto riservista ubriaco aveva esploso un colpo di arma da fuoco e gravemente ferito al petto un cameriere in un bar).
E ancora, si segnala la pronuncia Shchebetov c. Russia, in cui la Corte ha escluso (rispettivamente per mancanza di prove e per incompetenza ratione temporis) la violazione degli artt. 2 e 3 Cedu a fronte del contagio con il virus dell'HIV e con il batterio responsabile della TBC di un detenuto, che lamentava di aver contratto entrambe le patologie proprio mentre si trovava in carcere.
L'incompetenza ratione temporis ha precluso l'esame nel merito delle violazioni procedurali dell'art. 2 Cedu nel caso Janowiec e altri c. Russia, relativo al massacro di prigionieri polacchi uccisi nel 1940 in un campo di prigionia russo: le indagini si erano infatti in gran parte svolte prima della ratifica della Convenzione da parte della Russia (avvenuta nel 1998), e nessun elemento di prova significativo era stato scoperto successivamente alla suddetta ratifica.
All'opposto, la Corte ha concluso di avere giurisdizione in merito alla lamentata ineffettività dell'inchiesta penale avviata a livello interno nel caso Crainiceanu e Frumusanu c. Romania, riguardante la morte di due giovani attinti da colpi d'arma da fuoco esplosi da un ufficiale della polizia romena nel corso di una manifestazione antigovernativa tenutasi nel 1991: l'inchiesta, infatti, non si era ancora conclusa dopo venti anni dai fatti di causa (ciò che determinava la competenza ratione temporis della Corte), e le indagini erano state affidate a soggetti del corpo di appartenenza del pubblico ufficiale.
b) Sul fronte dell'art. 3 Cedu si segnala anzitutto la pronuncia Piechowicz c. Polonia, in cui la Corte ha ritenuto incompatibile con tale norma l'applicazione al ricorrente di un regime carcerario speciale e particolarmente severo, perché non erano state fornite motivazioni sufficienti in merito alla necessità dello stesso nel caso di specie.
La sentenza è importante - anche per le sue potenziali ricadute sull'ordinamento italiano - perché i giudici di Strasburgo hanno affermato, alla luce dei Report del CPT del 2004 e del 2009, che le autorità polacche non avevano compiuto alcun sforzo per controbilanciare gli effetti dell'isolamento assicurando al detenuto la possibilità di ricevere stimoli fisici e mentali adeguati (ad esempio concedendogli di svolgere attività sportive): di qui un ulteriore motivo di censura del loro operato.
Nella pronuncia Janowiec e altri c. Russia, già menzionata in tema di art. 2, la Corte ha affermato che la mancanza di informazioni sulla sorte dei loro parenti e l'approccio sprezzante delle autorità russe rispetto alle loro richieste in tal senso hanno integrato una violazione dell'art. 3 Cedu.
Va poi menzionata la sentenza Babar Ahmad e altri c. Regno Unito, in cui la Corte è tornata a pronunciarsi sulla compatibilità dell'isolamento e dell'ergastolo con l'art. 3 Cedu, ribadendo in relazione ad entrambi i profili i principi sinora affermati.
Nella pronuncia Ali Günes c. Turchia, invece, i giudici di Strasburgo hanno precisato che l'utilizzo di gas lacrimogeno su una persona che già si trova sotto il controllo delle forze di polizia è ingiustificabile e costituisce trattamento inumano e degradante.
Paradigmatici esempi di violazioni dirette dell'art. 3 Cedu al momento dell'arresto sono poi le sentenze Dimitar Dimitrov c. Bulgaria e Kazantsev c. Russia (nella quale la Corte ha ribadito il principio per cui ogni utilizzo della forza fisica che oltrepassi il limite della stretta necessità nei confronti di un soggetto in vinculis deve ritenersi, di per sé, contrastante con detta norma).
Nella sentenza Verbint c. Romania, ancora, la Corte ha tra l'altro riconosciuto una violazione procedurale dell'art. 3 Cedu in relazione all'eccessiva lunghezza del procedimento volto alla concessione della sospensione della pena per motivi sanitari (che si era concluso dopo ben sette mesi dalla richiesta); mentre nella pronuncia J.L. c. Lituania - in cui il ricorrente lamentava di essere stato ripetutamente percosso e stuprato dai compagni di cella perché aveva accettato di collaborare con l'autorità giudiziaria - la Corte ha per la prima volta individuato nei collaboratori di giustizia una nuova categoria di soggetti particolarmente vulnerabili, come tali destinatari di obblighi positivi di protezione.
Va segnalata, infine, la sentenza Gorgiev c. Ex Repubblica Yugoslava di Macedonia, in cui il ricorrente lamentava di essere stato ferito gravemente da uno dei tori dell'allevamento situato all'interno dell'istituto penitenziario in cui era recluso, e dei quali si occupava. La Corte ha ravvisato una violazione procedurale dell'art. 3 Cedu in relazione al mancato avvio di un'inchiesta penale sull'accaduto, ritenendo insufficiente la predisposizione del solo rimedio civilistico del risarcimento del danno.
La pronuncia conferma la progressiva estensione degli obblighi procedurali discendenti dall'art. 3, evidenziando - con maggior chiarezza rispetto alle due sentenze esaminate sul fronte dell'art. 2 - i presupposti in presenza dei quali essi sorgono: pare decisiva, ad esempio, la circostanza che la vittima della violazione fosse affidata alla custodia delle autorità statali (anche se talora la Corte afferma la violazione dei suddetti obblighi anche a fronte di incidenti che non coinvolgono i beneficiari degli obblighi di protezione rafforzata: cfr. ad esempio la sentenza Sergiyenko c. Ucraina in tema di art. 2); e assume certamente un peso notevole la gravità del fatto (dato che le ipotesi in cui la Corte afferma tali obblighi riguardano essenzialmente casi di morte o di gravi lesioni personali).
c) Delle sentenze in tema di art. 5 Cedu, merita di essere, anzitutto, menzionata la sentenza M. c. Ucraina, nella quale la Corte europea - chiamata a verificare la legittimità dell'internamento coattivo della ricorrente in un ospedale psichiatrico per esigenze di tutela della sicurezza collettiva - ha concluso per una violazione di detta norma convenzionale in quanto le autorità ucraine, da un lato, non avevano compiuto alcun accertamento in merito alla possibilità di applicare altre misure adeguate allo scopo preventivo perseguito ma meno afflittive (principio di sussidiarietà) e, dall'altro, non avevano accertato che la misura prescelta fosse proporzionata rispetto alla situazione concreta, disponendo l'internamento della ricorrente per un periodo indeterminato (principio di proporzione).
Conferma un orientamento ormai consolidato in tema di misure di sicurezza detentive a partire dalla sentenza M. c. Germania del dicembre 2009, la sentenza B. c. Germania, nella quale i giudici europei hanno ritenuto arbitraria l'applicazione nei confronti del ricorrente di una misura cautelare detentiva in attesa della decisione da parte dell'autorità competente in merito all'applicabilità retroattiva del nuovo e più duro regime di durata della custodia di sicurezza.
Per quel che concerne il trattenimento dello straniero nelle more del procedimento di espulsione o di estradizione, meritano altresì un cenno le sentenze Mathloom c. Grecia (con la quale la Corte, confermando un orientamento ormai consolidato, ha ritenuto sproporzionata la detenzione del ricorrente in quanto essa si era protratta per un periodo di due anni e tre mesi, senza che le autorità greche avessero intrapreso le attività necessarie per eseguirne l'allontanamento, condannando pertanto lo Stato convenuto al pagamento di 16,000 euro a titolo di equa riparazione) e Molotchoko c. Ucraina (nella quale la Corte ha ritenuto, invece, illegittima la detenzione del ricorrente in assenza di una base legale nell'ordinamento ucraino).
Rilevante è infine la sentenza Hakobyan e altri c. Armenia con la quale i giudici europei hanno concluso per una violazione dell'art. 5 Cedu in relazione alla detenzione amministrativa dei ricorrenti in conseguenza della commissione di alcuni illeciti in materia di ordine pubblico, perché priva di una base legale nell'ordinamento nazionale.
d) Quanto all'art. 6 Cedu, deve essere ricordata la sentenza Boulois c. Lussemburgo, in tema di permessi temporanei ai detenuti, con la quale la Grande Camera - premesso che il diritto di Strasburgo non riconosce al detenuto il diritto a ottenere tali permessi - ha escluso una violazione del diritto ad un processo equo con riferimento al ripetuto diniego da parte delle autorità nazionali di permessi temporanei al ricorrente.
Si segnala, poi, la sentenza Michelioudakis c. Grecia, la quale presenta invero profili di interesse soprattutto per il diritto penale processuale: infatti, la Corte ha qui ravvisato una violazione sistematica dell'art. 6 Cedu, in relazione all'eccessiva durata dei processi, imponendo inoltre allo Stato convenuto l'adozione di modifiche di carattere strutturale per risolvere il problema entro un anno a decorrere dalla data della pronuncia.
e) Sul fronte dell'art. 8 Cedu, si segnala per importanza la sentenza Stübing c. Germania, con cui la Corte europea ha affrontato la questione della compatibilità con la Convenzione della repressione penale dell'incesto tra fratelli maggiorenni consenzienti prevista dal codice penale tedesco, e sulla quale verrà a breve pubblicato su questa Rivista un contributo più meditato. Nel caso di specie il ricorrente, che era stato posto in orfanatrofio all'età di tre anni, lamentava che la condanna penale pronunciata nei suoi confronti per aver intrattenuto una relazione sessuale con la propria sorella naturale integrasse una violazione dell'art. 8 Cedu, nella sua dimensione negativa. La Corte europea - recependo in parte le argomentazioni della Corte costituzionale tedesca che nel 2008 aveva respinto le censure formulate dal ricorrente in merito alla illegittimità costituzionale della norma incriminatrice dell'incesto - ha escluso nel caso di specie la violazione di detta norma convenzionale: e ciò in quanto il divieto penale dell'incesto appariva necessario e proporzionato al fine di garantire la tutela della famiglia, della morale e del partner più debole.
Quanto alle ripercussioni della pronuncia sull'ordinamento italiano, immediato è il riferimento all'art. 564 del c.p., che punisce l'incesto: al riguardo va anzitutto ricordato che la Corte costituzionale italiana, con la sentenza n. 518/2000, ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale della norma in parola nella parte in cui punisce l'incesto tra affini in linea retta, poiché spetta al legislatore il potere di definire i confini della famiglia nella specie rilevante. Alla luce dell'amplissimo margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati membri dalla Corte europea nella sentenza qui segnalata, peraltro, non sembra possibile ravvisare (almeno per il momento) alcun profilo di contrasto della suddetta norma penale con i diritti convenzionali.
Riveste profili di interesse, poi, la sentenza Van der Heijden c. Olanda con la quale la Grande Camera ha escluso una violazione dell'art. 8 Cedu in relazione alla condanna penale della ricorrente, la quale si era rifiutata di testimoniare nel processo a carico del proprio convivente, ritenendo che il fatto costituisse un'ingerenza legittima nella vita familiare della medesima in quanto necessaria in una società democratica per la tutela della pubblica sicurezza (per un esame approfondito della pronuncia e per le sue ripercussioni sull'ordinamento italiano si rinvia alla nota di Marta Pelazza, Obbligo di testimonianza del convivente more uxorio: la Corte EDU non apre alle coppie di fatto. Riflessioni su art. 384 c.p. e famiglia di fatto, in questa Rivista).
E ancora, giova segnalare la sentenza Gillberg c. Svezia, con la quale la Grande Camera, confermando le statuizioni rese dalla sezione III della Corte europea, ha escluso che la condanna del ricorrente per inottemperanza ad un provvedimento dell'autorità giurisdizionale potesse costituire un'interferenza nel suo diritto all'onore e alla reputazione.
Merita, inoltre, di essere ricordata anche la sentenza Kalucza c. Ungheria nella quale la Corte ha riscontrato una violazione degli obblighi di protezione dalla violenza domestica discendenti da detta norma perché le autorità ungheresi, nonostante le ripetute denunce della ricorrente, non avevano disposto l'allontanamento dalla casa familiare dell'ex marito della donna.
Si segnala altresì la sentenza Balogun c. Regno Unito, con la quale la Corte ha ritenuto l'espulsione del ricorrente, condannato per delitti in materia di stupefacenti, necessaria e proporzionata rispetto alle esigenze di prevenzione dei reati e di tutela dell'ordine pubblico, nonostante questi vivesse nel Regno Unito dall'età di circa tre anni.
Infine, meritano un cenno le sentenze K.A.B. c. Spagna e Pontes c. Portogallo, entrambe in tema di adozione disposta contro la volontà dei genitori.
f) Per quel che concerne l'art. 9 Cedu, si segnala la sentenza Sessa c. Italia con la quale la Corte europea ha escluso una violazione di detta norma convenzionale in relazione alla mancata concessione al ricorrente, in qualità di difensore di una persona offesa dal reato, di un rinvio dell'udienza per un incidente probatorio, che era stata fissata in corrispondenza dello Yom Kippur, una importante festività ebraica, affermando che l'interferenza realizzata nel diritto alla libertà di religione del medesimo fosse necessaria e proporzionata rispetto all'esigenza di assicurare il buon andamento della giustizia.
g) In tema di art. 10 Cedu, si ricorda, anzitutto, la sentenza KapezyÅ„ski c. Polonia, nella quale la Corte ha ritenuto sproporzionata e quindi contraria all'art. 10 Cedu la condanna del ricorrente ad una pena restrittiva della libertà' personale, sospesa condizionalmente, per non aver pubblicato una rettifica.
Infine meritano un cenno due sentenze, rese entrambe contro la Francia: la sentenza Lesquen du Plessis-Casso (nella quale la Corte ha ravvisato una violazione della norma in parola in relazione alla condanna del ricorrente, un uomo politico, per le opinioni espresse nel corso di un dibattito politico) e la sentenza Martin e altri (in cui i giudici europei hanno concluso per una violazione dell'art. 10 Cedu in relazione alla perquisizione operata presso la sede di un giornale).
h) Quanto all'art. 1 prot. 1 Cedu, riveste profili d'interesse la sentenza Silickiene c. Lituania con la quale i giudici europei hanno escluso una violazione di detta norma convenzionale in relazione alla confisca disposta nei confronti dei parenti di un soggetto, deceduto dopo essere stato condannato per alcuni gravi reati, affermando che tale provvedimento doveva ritenersi giustificato per esigenze di contrasto della criminalità (Introduzione a cura di Lodovica Beduschi e Angela Colella).
2. Articolo 2 Cedu
C. eur. dir. uomo, sez. V, dec. 3 aprile 2012, ric. n. 47868/06, Emin (Mustafa) e altri c. Cipro (importance level 3)
I ricorrenti sono parenti di persone scomparse durante i fatti di violenza avvenuti a Cipro nel 1963-1964 contro i villaggi ed i cittadini turco-ciprioti. Tra il 2006 ed il 2009 i resti di alcuni di essi sono stati ritrovati nel corso di esumazioni compiute dal "Comitato ONU per le persone scomparse". I ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 2 - per la mancanza di effettive indagini su sparizioni ed uccisioni - e 3 Cedu - per la sofferenza psicologica subita nello scoprire i resti dei propri parenti nell'assenza di seri tentativi da parte delle autorità di individuare i responsabili della loro morte. La Corte dichiara il ricorso inammissibile perché manifestamente infondato sotto entrambi i profili. I giudici riconoscono che la scoperta di fosse comuni comporta effettivamente per le autorità il dovere, ex art. 2 Cedu, di attivarsi, anche se l'identità delle vittime è ignota, ed indipendentemente dalla richiesta di avviare indagini da parte dei parenti delle vittime. Tuttavia, pur ravvisando carenze e lentezza nell'azione dell'autorità giudiziaria cipriota, la Corte ritiene al momento prematuro dichiarare ineffettive le indagini avviate dalle autorità, ricordando però che l'inattività ed il silenzio delle autorità per un periodo di tempo più consistente potrebbe portare, in un secondo momento, alla violazione dell'art. 2 Cedu. La Corte, infine, ritiene che l'atteggiamento delle autorità nei confronti dei ricorrenti non sia tale da costituire trattamento contrario all'art. 3 Cedu.
C. eur. dir. uomo, sez. IV, dec. 3 aprile 2012, ric. n. 46744/07, Charlambous e altri c. Turchia (importance level 3)
Caso speculare rispetto al precedente. Si tratta infatti dei parenti di civili e militari greco-ciprioti, scomparsi nell'agosto del 1974 in seguito all'invasione di Cipro da parte della Turchia, i cui corpi sono stati ritrovati con le medesime modalità tra il 2005 ed il 2009. Il ricorso è rivolto contro la Turchia, dal momento che il controllo da essa esercitato sul territorio di Cipro del nord la rende responsabile per le azioni della "Repubblica Turca di Cipro del Nord" (TRNC); la Corte specifica, tuttavia, che ciò "non mette assolutamente in dubbio né l'opinione della comunità internazionale sulla TRNC né il fatto che il governo della Repubblica di Cipro rimane il solo governo legittimo di Cipro". Le violazioni lamentate rispetto agli artt. 2 e 3 Cedu sono analoghe a quelle riportate per il caso precedente, ed analoga è la risposta della Corte. E' altresì proposto ricorso per violazione dell'art. 34 Cedu, in relazione al rimpatrio dell'avvocato di uno dei ricorrenti, che giunto ad Istambul per un viaggio di lavoro è stato trattenuto in aeroporto, dichiarato "non gradito" e messo dopo poche ore su un volo di ritorno ad Atene. Trattandosi di soggetto da decenni professionalmente dedito al tema della violazione dei diritti umani in Turchia, egli ritiene che le autorità turche abbiano in questo modo tentato di scoraggiare la sua attività. La Corte dichiara manifestamente infondato il ricorso anche sotto quest'ultimo profilo, ritenendo che non ci siano basi sufficienti per ritenere che le autorità turche abbiano ostacolato il diritto di ricorso individuale alla Corte.
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 3 aprile 2012, ric. n. 25548/07, Akhmadova c. Russia (importance level 3)
La ricorrente è madre di un poliziotto ceceno ucciso nel 2004 da un gruppo di persone, in uniforme ed armate, che si muovevano alla guida di automobili prive del numero di targa. La ricorrente lamenta la violazione dell'art. 2 e 13 Cedu, sostenendo che l'omicidio è stato commesso da militari russi, lamentando la mancanza di indagini effettive sui fatti e la conseguente ineffettività degli eventuali rimedi previsti dall'ordinamento interno.
La Corte, alla luce delle numerose testimonianze che confermano la ricostruzione dei fatti proposta dalla ricorrente e del fatto che l'omicidio sia avvenuto in una zona sotto il pieno controllo delle autorità statali, riconosce la violazione di entrambi gli articoli (in particolare, è riconosciuta la violazione dell'art. 2 Cedu sia sotto il profilo sostanziale che procedurale).
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 10 aprile 2012, ric. n. 30909/06, Panaitescu c. Romania (importance level 2)
Il ricorrente, Stefan Panaitescu (ad alla sua morte il figlio, Alexandru Panaitescu), lamenta la violazione dell'art. 2 Cedu da parte delle autorità romene. Stefan Panaitescu, aveva ottenuto nel 2003 il riconoscimento giudiziale del diritto, tra l'altro, ad assistenza medica ed alla gratuità dei farmaci di cui avrebbe potuto avere bisogno, come sorta di "riparazione" per le persecuzioni etniche subite tra il 1940 ed il 1945. Diagnosticatogli un tumore nell'aprile 2005, il sig. Panaitescu inizia ad assumere i due farmaci oncologici prescrittigli, a proprie spese. Le numerose richieste di ottenere gratuitamente le medicine al servizio sanitario nazionale e ad altre istituzioni non hanno alcun esito, tanto che, non potendo più sostenere i costi dei farmaci, nel maggio 2006 Stefan Panaitescu acconsente a partecipare ad un programma per la sperimentazione di un nuovo farmaco antineoplastico. Nel dicembre del 2005, in seguito ad un ricorso del sig. Panaitescu, la locale Corte d'appello accerta il diritto del ricorrente ad ottenere gratuitamente i farmaci ed ordina al servizio sanitario di fornirglieli. La sentenza diviene definitiva nell'aprile del 2006, con la conferma della Corte di Cassazione; ciononostante il servizio sanitario rifiuta di darne esecuzione, avanzando un "appello straordinario" e chiedendo la sospensione dell'esecuzione. Nel dicembre del medesimo anno il ricorrente muore a causa del tumore.
La Corte, alla luce delle circostanze del caso concreto, riconosce la violazione dell'art. 2 Cedu da parte delle autorità romene: queste, non fornendo l'assistenza medica necessaria come imposto dalle Corti nazionali, non hanno impedito che la vita del ricorrente fosse messa in pericolo, in violazione degli obblighi positivi ex art. 2 Cedu.
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 10 aprile 2012, ric. n. 19986/06, Ilbeyi Kemaloglu e Meriye Kemaloglu c. Turchia (importance level 1)
I ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 2 e 6 par. 1 Cedu da parte delle autorità turche, in relazione alla morte di loro figlio. Questi era morto nel 2004, all'età di sette anni, a causa del freddo patito nel cercare di tornare da scuola a casa a piedi nel corso di una bufera di neve. Normalmente il bambino usufruiva del servizio di scuolabus comunale, che quel giorno, però, non aveva funzionato: la scuola era stata chiusa prima del solito, ed il servizio di scuolabus non era stato avvertito di tale cambio di orario. I genitori, allarmati dal mancato rientro del figlio, avevano allertato la polizia nel pomeriggio, che aveva avviato invano le ricerche; il bambino era stato trovato il giorno seguente, morto, vicino al letto di un fiume. Il procedimento civile avviato contro Ministero dell'educazione e Comune per ottenere una compensazione pecuniaria si era interrotto perché i ricorrenti non avevano pagato il contributo loro richiesto per lo svolgimento del procedimento giudiziario. La domanda di esenzione dal versamento di tale contributo, avanzata dai ricorrenti per la scarsità delle loro risorse economiche, era stata respinta. Il procedimento penale avviato nel 2004 contro il preside della scuola interessata, per "misconduct in office" risulta tuttora pendente.
E' riconosciuta la violazione di entrambi gli articoli. Per quanto riguarda l'art. 2, la Corte osserva che tra gli obblighi da esso derivanti vi è quello di dotarsi di un sistema giudiziario effettivo ed indipendente, capace di individuare le responsabilità e di dare ristoro alle vittime. In questo caso, i rimedi giudiziari predisposti dall'ordinamento turco non hanno soddisfatto questi requisiti; in particolare, l'eccessiva durata del procedimento penale ha reso inefficace l'accertamento della responsabilità dei soggetti coinvolti, e la mancata esenzione dei ricorrenti dal pagamento delle tasse per i procedimenti giudiziari ha loro impedito di sottoporre il caso al tribunale per ottenere un risarcimento. Lo Stato non ha perciò correttamente adempiuto al dovere di proteggere la vita del figlio dei ricorrenti, in violazione dell'art. 2 Cedu. La restrizione del diritto di accesso al tribunale ha costituito inoltre violazione dell'art. 6 par. 1 Cedu.
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 10 aprile 2012, ric. n. 21731/02, Shchebetov c. Russia (importance level 2)
Il ricorrente, di nazionalità russa, lamenta la violazione degli artt. 2 e 3, per aver contratto rispettivamente HIV e tubercolosi durante il periodo di detenzione in carcere. I test medici effettuati in custodia cautelare nel 1997 avevano dato risultato negativo per queste patologie, che invece erano state riscontrate in successivi esami svolti in carcere, rispettivamente nel 2002 e nel 1998. Il ricorrente sostiene, in particolare, di aver contratto il virus HIV a causa dell'utilizzo da parte di un infermiere, per un prelievo ematico, di una siringa infetta.
La Corte, in relazione al virus HIV, esclude la violazione dell'art. 2, sia sotto il profilo sostanziale (per la mancanza di elementi a sostegno della tesi del ricorrente circa la modalità di trasmissione del virus) che procedurale. In relazione alla tubercolosi, la Corte rigetta il ricorso perché manifestamente infondato (sul contagio, avvenuto prima dell'entrata in vigore in Russia della Convenzione, la Corte non ha competenza; la successiva assistenza medica è stata conforme a quanto richiesto dall'art. 3 Cedu). E' esclusa anche la violazione dell'art. 34 Cedu, relativo alla corrispondenza tra il ricorrente e la Corte stessa, a parere del ricorrente ostacolata dalle autorità penitenziarie.
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 16 aprile 2012, ric. n. 55508/07, Janowiec e altri c. Russia (importance level 1)
Il caso riguarda il massacro degli ufficiali polacchi, detenuti nel campo di prigionia di Kozielsk, avvenuto nel 1940 nella foresta di Katyń, vicino al villaggio di Gnezdovo, a breve distanza da Smolensk.
I ricorrenti, tutti parenti dei cittadini polacchi uccisi, hanno adito la Corte EDU invocando la violazione di varie norma convenzionali: i giudici europei, peraltro, con la decisione del 5 luglio del 2011, hanno dichiarato inammissibili tutti i motivi di ricorso, ad eccezione di quelli fondati sulla violazione degli artt. 2 sotto il profilo procedurale (perché le autorità russe non avevano condotto delle indagini effettive) e dell'art. 3 Cedu, sotto quello sostanziale (perché i parenti delle vittime, a causa dell'atteggiamento sprezzante delle autorità russe e della mancanza di informazioni, avevano subito un trattamento inumano e degradante).
Nella pronuncia in esame, la Corte europea riconosce, innanzitutto, per quattro voti contro tre, una violazione dell'art. 38 Cedu perché le autorità russe non hanno ottemperato all'obbligo di cooperazione che su di esse grava in virtù di detta norma, dal momento che non hanno fornito una copia del provvedimento di archiviazione relativo all'inchiesta, a nulla valendo l'eccezione proposta dal Governo russo secondo la quale tale provvedimento era coperto dal segreto di Stato: ad avviso dei giudici europei, infatti, nel caso di specie non sussistano ragioni di sicurezza nazionale, tali da giustificare la sua secretazione.
La Corte ritiene, poi, per quattro voti contro tre, di non poter esaminare la doglianza relativa all'asserita violazione procedurale dell'art. 2 Cedu. Al riguardo, essa rileva, innanzitutto, di non avere competenza ratione temporis in quanto le indagini si sono svolte in gran parte prima della ratifica da parte della Russia della Convenzione (avvenuta nel 1998) e nessun elemento di prova significativo è stato scoperto successivamente alla ratifica della Convenzione da parte della Russia.
La Corte riconosce, invece, con cinque voti contro due, una violazione diretta dell'art. 3 Cedu in relazione a dieci ricorrenti, affermando che, a causa della mancanza di informazioni sulla sorte dei loro parenti e per l'approccio sprezzante delle autorità russe rispetto alle loro richieste di informazioni, essi hanno subito un trattamento inumano. Ciò posto, essa ritiene che, alla luce delle circostanze del caso concreto, il riconoscimento della violazione dell'art. 3 Cedu costituisce un'equa soddisfazione del diritto delle parti lese.
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 19 aprile 2012, ric. n. 47690/07, Sergiyenko c. Ucraina (importance level 3)
Si tratta di un caso di omicidio colposo. Il ricorrente lamenta la violazione procedurale dell'art. 2 Cedu per l'ineffettività dell'inchiesta penale in merito alla morte del figlio, rimasto ucciso in un incidente stradale. La Corte europea accoglie il ricorso per via dell'eccessiva durata (sette anni) del processo celebratosi a livello nazionale.
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 19 aprile 2012, ric. n. 49382/06, Sašo Gorgiev c. Ex Repubblica Yugoslava di Macedonia (importance level 2)
Il ricorrente, un cameriere in un bar, veniva gravemente ferito al petto, con un colpo di arma da fuoco, esploso inavvertitamente da un poliziotto riservista, ubriaco, il quale aveva lasciato la stazione di polizia, presso la quale era in servizio, senza alcuna autorizzazione. Il poliziotto veniva condannato a due anni di reclusione e alla sospensione dai pubblici uffici per quattro anni. Nel procedimento civile, invece, veniva esclusa ogni responsabilità delle autorità statali in relazione all'accaduto in ragione del fatto che il poliziotto aveva agito fuori servizio.
La Corte europea - pur ammettendo che, nel caso di specie, le autorità macedoni non avrebbero potuto prevedere la condotta del poliziotto - rileva che il Governo non ha fornito informazioni in merito all'esistenza di una normativa volta a disciplinare l'utilizzo delle armi da parte delle forze dell'ordine né ha dimostrato che il poliziotto era stato ritenuto idoneo ad utilizzare armi da fuoco. Conclude, pertanto, per una violazione sostanziale dell'art. 2 Cedu in ragione della mancata predisposizione, da parte delle medesime, di misure idonee a prevenire l'utilizzo abusivo di armi letali da parte degli agenti di polizia (e in particolare da parte dei riservisti).
C. eur. dir. uomo, sent. 24 aprile 2012, ric. n. 19202/03, Iliya Petrov c. Bulgaria (importance level 2)
Il ricorrente, all'epoca dei fatti undicenne, mentre giocava in un parco giochi per bambini, si introduceva all'interno di una centralina di energia elettrica ivi ubicata e rimaneva vittima di una scarica accidentale di energia elettrica, in conseguenza della quale cadeva in uno stato di coma profondo e riportava gravi lesioni. Lamenta una duplice violazione dell'art. 2 Cedu sia sotto il profilo sostanziale sia sotto quello procedurale.
La Corte europea, accogliendo la censura del ricorrente, ravvisa, anzitutto, una violazione degli obblighi di protezione promananti dall'art. 2 Cedu a fronte di attività pericolose a dispetto del comportamento colposo della vittima, in ragione del fatto che la normative nazionale in materia di sicurezza degli impianti elettrici ad alta tensione, in vigore all'epoca dei fatti, non prevedeva un sistema di controllo in merito alla corretta attuazione delle norme di sicurezza (in particolare, essa stigmatizza il fatto che il processore in questione fosse ubicato in un parco giochi per bambini, che non fossero presenti segnali di pericolo e che l'accesso al suo interno non fosse adeguatamente impedito ai non addetti ai lavori). L'ineffettività dell'indagine interna (che si era conclusa dopo sei anni dal verificarsi dei fatti, senza che fossero stati identificati i proprietari della centralina e, quindi, i responsabili per l'accaduto) dà luogo inoltre ad un'ulteriore violazione dell'art. 2 Cedu, sotto il profilo procedurale. La Corte condanna, pertanto, lo stato convenuto al pagamento di 15,000 euro a titolo di equa soddisfazione.
C. eur. dir. uomo, sez. 1, sent. 24 aprile 2012, ric. n.12442/04, Crainiceanu e Frumusanu c. Romania (importance level 2)
I ricorrenti sono i parenti di due giovani attinti mortalmente da due colpi di arma da fuoco mentre partecipavano ad una manifestazione antigovernativa tenutasi a Bucarest nel settembre del 1991. Secondo la prospettazione dei ricorrenti, i giovani erano stati uccisi da un ufficiale della polizia rumena, il quale aveva sparato alcuni colpi sulla folla.
La Corte europea - ritenuto di non potersi, invece, pronunciare sul profilo sostanziale di violazione di detta norma, perché la morte dei giovani era avvenuta precedentemente alla ratifica della Convenzione da parte della Bulgaria nel 1994 - conclude invece di avere giurisdizione ratione temporis in merito all'effettività dell'inchiesta interna avviata in merito all'accaduto in quanto la stessa, pur essendo stato avviato subito dopo il verificarsi dei fatti, al momento della pronuncia della Corte non si era ancora conclusa.
I giudici europei sono dell'avviso che l'indagine sulla morte dei giovani non sia stata diligente che essa abbia subito significativi ritardi (in particolare essa non era ancora conclusa dopo vent'anni dal verificarsi dei fatti). Inoltre, essi stigmatizzano il fatto che le indagini siano state affidate a soggetti del corpo di appartenenza del sospetto autore delle violazioni e che l'ufficiale sottoposto ad indagini non sia stato sospeso dal servizio. Infine, sottolineano come alcuni elementi di prova siano stati distrutti e come, in generale, le autorità rumene non abbiano cooperato tra di loro ai fini dell'accertamento dei fatti. Ciò posto, essi ritengono che la complessità dei fatti in causa e del contesto socio politico in cui essi sono stati realizzati non valgano a giustificare l'ineffettività dell'inchiesta interna in merito all'accaduto e riconoscono, pertanto, una violazione dell'art. 2 Cedu sotto il profilo procedurale, condannando lo Stato convenuto al pagamento di 60.000 euro a titolo di equa soddisfazione.
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3. Articolo 3 Cedu
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 3 aprile 2012, ric. n. 7842/04, Verbint c. Romania (importance level 3)
Il ricorrente, cittadino romeno, lamenta la violazione dell'art. 3 Cedu, sostenendo di aver subito un trattamento inumano per non aver ricevuto, durante la detenzione in carcere, le cure mediche specializzate di cui aveva bisogno, e per il ritardo nella concessione di una sospensione della detenzione per motivi sanitari. La Corte ritiene non sufficientemente provato che le condizioni di detenzione e la mancanza di cure specialistiche abbiano causato problemi di salute al ricorrente, non ravvisando dunque violazione dell'art. 3 sotto il profilo sostanziale. E' invece accertata la violazione dell'art. 3 sotto il profilo procedurale, in relazione all'eccessiva lunghezza del procedimento di concessione della sospensione della pena per motivi sanitari (concessa solo sette mesi dopo la presentazione della domanda).
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 3 aprile 2012, ric. n. 18059/05, Dimitar Dimitrov c. Bulgaria (importance level 3)
Il ricorrente, all'epoca detenuto, lamenta la violazione dell'art. 3 Cedu per essere stato malmenato dai poliziotti che lo stavano scortando per trasferirlo dal carcere di Burgas ad una udienza presso la Corte di Cassazione a Sofia. Il ricorrente, che era stato ammanettato ad entrambi i polsi insieme ad ad altri detenuti, afferma di essere stato malmenato, subendo in particolare a calci e pugni su addome, reni e schiena, per aver chiesto che gli fosse liberato un braccio per poter trasportare alcune sue pertinenze.
La Corte riconosce a violazione dell'art. 3 sia sotto il profilo sostanziale che procedurale, per la sproporzione nell'uso della forza utilizzata dai poliziotti e per l'assenza di indagini effettive sui fatti.
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 3 aprile 2012, ric. n. 14880/05, Kazantsev c. Russia (importance level 3)
Il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 3 Cedu per le violenze subite mentre si trovava in custodia cautelare, durante la quale risulta essere stato picchiato con un manganello. La Corte sottolinea che, nel caso in cui una persona si trovi in stato di privazione della libertà, ogni utilizzo della forza fisica che non sia strettamente necessario costituisce di per sé violazione dell'art. 3, anche se non particolarmente intenso. Osservando che in questo caso le autorità russe non hanno addotto valide motivazioni per giustificare l'impiego della forza, la Corte riconosce l'avvenuta violazione dell'art. 3 sotto il profilo sia sostanziale che procedurale, per i trattamenti inumani e degradanti subiti dal ricorrente e la mancanza di indagini effettive sui fatti. Ritiene invece non necessario analizzare il caso anche sotto il profilo di cui agli artt. 6 e 13 Cedu.
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 5 aprile 2012, ric. n. 8968/08, Jirsak c. Repubblica Ceca (importance level 3)
Il ricorrente, sig. Jirsak, lamenta la violazione dell'art. 3 Cedu a causa delle condizioni di sovraffollamento del carcere di Valdice, in Repubblica Ceca, in cui ha scontato una pena detentiva. In particolare il sig. Jirsak afferma di aver condiviso, tra il novembre 2010 ed il gennaio 2011, una cella di 36 mq con altre nove persone, senza impianto di ventilazione e con un solo bagno per dieci persone. Inoltre, il ricorrente sostiene di non aver ricevuto cure adeguate in carcere, in seguito alla rottura di una caviglia.
La Corte esclude la violazione dell'art. 3. Per quanto riguarda le condizioni di sovraffollamento, la Corte afferma che, ove lo spazio a disposizione del singolo detenuto sia tra i tre e i quattro metri quadrati, come in questo caso, la compatibilità di tale spazio con la Convenzione deve essere valutata tenendo conto anche di altri fattori (quali la possibilità di passare un certo numero di ore fuori dalla cella, la libertà di movimento possibile in cella, la presenza di luce ed aria, ...) che in questo caso portano ad escludere la violazione. Per quanto riguarda l'inadeguatezza delle cure mediche prestate al ricorrente, la Corte osserva che questi non contesta tanto la qualità delle cure, ma il fatto che gli siano state prestate con un giorno di ritardo, sostenendo che ciò abbia avuto conseguenze negative sulle sue condizioni di salute. Analizzando i fatti, la Corte non ritiene che tale ritardo possa configurarsi come un trattamento inumano o degradante, non raggiungendo il livello minimo di gravità necessario per potersi dire tale.
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 10 aprile 2012, ric. n. 24027/07, 11949/08, 36742/08, 66911/09 e 67354/09, Babar Ahmad e altri c. Regno Unito (importance level I)
I sei ricorrenti lamentano la violazione dell'art. 3 Cedu da parte della Gran Bretagna, dove si trovano detenuti in seguito alla richiesta di estradizione proveniente dagli USA, ove sono accusati di vari reati di terrorismo (supporto o coinvolgimento diretto). I ricorsi riguardano principalmente le condizioni di detenzione nel carcere di massima sicurezza ove sarebbero incarcerati (aggravate dalla loro possibile sottoposizione ad ulteriori misure amministrative), e la probabile condanna all'ergastolo o a pene estremamente lunghe senza possibilità - di fatto - di ridurre tale sanzione.
La Corte esclude la violazione dell'art. 3 Cedu nel caso in cui la Gran Bretagna conceda l'estradizione dei ricorrenti. In primo luogo affronta la questione delle condizioni di detenzione nel carcere di massima sicurezza ("ADX") di Florence, in Colorado, nel quale i ricorrenti sarebbero con ogni probabilità detenuti in USA. I ricorrenti sostengono che tali condizioni costituirebbero trattamenti contrari all'art. 3, a causa del "quasi completo isolamento sociale" imposto in tale struttura ai detenuti (cella singola, in cui i detenuti rimangono permanentemente chiusi, salvo che per dieci ore settimanali; diritto a due telefonate e cinque visite al mese; possibilità di attività "ricreativa" - hobbistica, televisione, radio - da svolgersi unicamente in cella). Viene fortemente sottolineata dai ricorrenti l'estrema discrezionalità concessa alle autorità penitenziarie di limitare ulteriormente i residui diritti dei detenuti (ad. es., sospendere per periodi di tre mesi il godimento delle ore al di fuori della cella per minime infrazioni disciplinari), nonché l'aleatorietà nell'accesso a regimi detentivi meno severi (c.d. programma di "step down").
La Corte ritiene che le rigide limitazioni alla possibilità di comunicare con l'esterno sarebbero giustificate dai significativi rischi per la sicurezza posti dai ricorrenti (ove condannati), valorizzando altresì la possibilità di attività ricreativa "in cella" (singola), nonché la possibilità per i detenuti di parlare tra loro attraverso il sistema di ventilazione, e la previsione in USA di un programma di "step down" attraverso il quale i detenuti ammessi possono accedere a regimi detentivi meno severi.
La Corte esclude inoltre la violazione dell'art. 3 Cedu anche in relazione alla possibile condanna dei ricorrenti all'ergastolo o a pene estremamente lunghe: ritiene anzitutto che tali pene, dati i reati contestati ai ricorrenti, non possano dirsi "sproporzionate"; considera infine sufficienti i meccanismi che in USA prevedono la possibilità di ridurre, de jure e de facto, la pena, ritenendo non provato che le autorità USA priverebbero i ricorrenti della possibilità di accedere a tali meccanismi.
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 10 aprile 2012, ric. n. 9829/07, Ali Günes c. Turchia (importance level 2)
Il ricorrente, Ali Günes, cittadino turco, lamenta la violazione dell'art. 3 Cedu per essere stato malmenato dalle forze dell'ordine in occasione di una manifestazione, autorizzata e pacifica, contro un vertice NATO a Istambul. In particolare, il ricorrente afferma che alcuni poliziotti, dopo averlo arrestato, avevano spruzzato sul suo viso, a distanza ravvicinata, un gas lacrimogeno. La Corte riconosce la violazione dell'art. 3 in relazione a questo episodio, costituente trattamento inumano e degradante. E' in particolare ritenuto ingiustificabile l'utilizzo di gas lacrimogeno su persona che si trova già sotto il controllo delle forze dell'ordine. Costituisce violazione dell'art. 3 Cedu anche la mancanza di indagini effettive sui fatti.
C. eur. dir. uomo, sez. V, dec. 10 aprile 2012, ric. n. 35745/11, R.W. e altri c. Svezia (importance level 3)
La ricorrente, di nazionalità keniota, giunge in Svezia nel 2008, dichiarando alle autorità di essere fuggita per aver subito un tentativo di mutilazione genitale femminile (MGF) da parte di persone vicine al proprio fidanzato, appartenente alla setta dei Mungiki, che dato il suo rifiuto l'avrebbero picchiata e stuprata. Poco dopo l'arrivo in Svezia rimane incinta e da' alla luce due gemelle (anch'esse ricorrenti nella presente causa). Chiede senza successo asilo politico in Svezia, adducendo, oltre al timore di venire sottoposta a MGF in caso di rimpatrio, la possibilità che le figlie subiscano maltrattamenti in Kenya, in quanto nate al di fuori del matrimonio.
La Corte dichiara manifestamente infondato il ricorso per quanto riguarda la violazione degli artt. 2 e 3 Cedu, ritenendo che le autorità svedesi abbiano sufficientemente argomentato il diniego dell'asilo, fondato sostanzialmente sulla scarsa credibilità della ricorrente. La Corte dubita altresì che, in ogni caso, le ricorrenti siano realmente a rischio in caso di rimpatrio, sottolineando in particolare che l'etnia di appartenenza di R.W. e la sua famiglia d'origine non praticano MGF (mentre la setta Mungiki è conosciuta per imporre tuttora la pratica della MGF), e che le autorità keniote e diverse ONG sono impegnate sul territorio nel tutelare le donne dalle MGF (nonostante in Kenya la MGF sia proibita solo se praticata su minorenni). Infine i giudici dichiarano inammissibile il ricorso anche in relazione alla la violazione degli artt. 5 e 8 Cedu, perché manifestamente infondato a causa del carente supporto argomentativo e probatorio fornito dalla ricorrente.
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 17 aprile 2012, ric. n. 20071/07, Piechowicz c. Polonia (importance level 1)
Nella decisione in esame la Corte europea è stata chiamata a valutare la compatibilità con la Convenzione dell'applicazione nei confronti del ricorrente del regime di detenzione speciale, previsto nell'ordinamento polacco, per i detenuti ritenuti socialmente pericolosi. Il ricorrente, indagato per gravi reati di criminalità organizzata, durante la custodia cautelare in carcere, trascorreva due anni e nove mesi in isolamento, all'interno di una cella sottoposta a video sorveglianza continuata, con la conseguente perdita di qualsiasi forma di intimità; inoltre ogni volta che gli veniva consentito di lasciare la propria cella veniva ammanettato e sottoposto da due guardie carcerarie ad una perquisizione personale particolarmente invasiva; e ancora, durante le ore d'aria, non gli era consentito avere rapporti con gli altri detenuti; e gli veniva vietato di svolgere un'attività lavorativa all'interno della prigione e di possedere, all'interno della sua cella un equipaggiamento sportivo, dei giochi per il computer o dei CDs di musica da ascoltare. Alle condizioni estremamente severe della detenzione, si aggiungeva il divieto, oppostogli dall'autorità penitenziaria per tutta la durata della detenzione, di ricevere visite dai propri familiari nonché di intrattenere con i medesimi una corrispondenza.
La Corte europea - pur affermando che nel diritto di Strasburgo la sottoposizione di alcune categorie di detenuti a misure severe deve ritenersi, in via generale, giustificata laddove sussistano esigenze di ordine pubblico e prevenzione dei reati - ritiene che, nel caso di specie, l'applicazione nei confronti del ricorrente delle misure sopra descritte, per un periodo di alcuni anni, non possa ritenersi necessaria per mantenere la sicurezza pubblica per una duplice ragione. Innanzitutto, i giudici europei ritengono, sulla base tra l'altro del Reports del CPT sulle prigioni polacche del 2004 e del 2009, che le autorità polacche non abbiano compiuto alcun sforzo per controbilanciare gli effetti dell'isolamento, assicurando al detenuto una stimolazione fisica e mentale adeguata (in particolare, esse rigettavano le richieste del ricorrente di svolgere attività sportive o lavorative, come gli altri detenuti, consentendogli solo alcune ore d'aria in un luogo isolato). In secondo luogo, esse hanno reiterato l'applicazione del regime senza fornire motivazioni adeguate in merito alla sua necessità nel caso concreto. Pertanto, la Corte riconosce una violazione diretta dell'art. 3 Cedu.
La Corte riconosce altresì la violazione dell'art. 5 §§ 3 (riguardo alla durata della custodia cautelare) e 4 (sotto il profilo del procedimento di applicazione e reiterazione della medesima). Infine, essa conclude per la violazione dell'art. 8 Cedu in relazione alle limitazioni imposte alle visite dei ricorrenti con i propri familiari, poiché queste si protraevano in maniera automatica per un periodo di alcuni anni.
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 17 aprile 2012, ric. n. 13621/08, Horuch c. Polonia (importance level 2)
Anche questo caso riguarda la compatibilità con la Convenzione dell'applicazione nei confronti del ricorrente del regime di detenzione speciale, previsto nell'ordinamento polacco, per i detenuti ritenuti socialmente pericolosi. Il ricorrente, anch'esso indagato per gravi reati di criminalità organizzata di matrice violenta, trascorreva per un periodo di sette anni e nove mesi, in isolamento all'interno di una cella video sorvegliata per un periodo di sette anni e nove mesi; veniva sottoposto a perquisizioni personali e ammanettato ogni volta che gli veniva concesso di uscire dalla sua cella; e infine, gli veniva vietato di avere qualsiasi tipo di rapporto con gli altri detenuti e i suoi familiari. La Corte, similmente a quanto affermato nel caso Piechowicz sopra esaminato, conclude per una violazione degli artt. 3, 5 §§ 3 e 4, 8 Cedu.
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 17 aprile 2012, ric. n. 31805/06, Rizvanov c. Azerbaijan (importance level 3)
La ricorrente, una giornalista che all'epoca dei fatti prestava servizio presso una nota agenzia di informazione, durante una manifestazione politica delle forze di opposizione, per scattare alcune foto si serviva, come tra l'altro avevano fatto in precedenza altri colleghi, di una scala metallica. Un poliziotto, quindi, le si avvicinava e la colpiva ripetutamente con un manganello per costringerla a scendere, procurandole una contusione sulla gamba sinistra ed un'altra sul braccio sinistro.
La Corte europea riconosce una duplice violazione dell'art. 3 Cedu, sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello procedurale. Quanto al primo profilo, essa ritiene - sulla base del certificato medico allegato dalla ricorrente nonché delle fotografie scattate sul luogo del fatto che confermano la presenza dell'agente di polizia con un manganello in mano e in assenza di elementi convincenti in senso contrario da parte del Governo convenuto - che la ricorrente abbia subito delle lesioni alla gamba e al braccio. In particolare, secondo i giudici europei, tali lesioni, per quanto lievi e di minore gravità, integrano un trattamento suscettibile di ricadere nell'ambito di applicazione dell'art. 3 Cedu in quanto esse hanno comportato nella vittima sentimenti di paura e angoscia nonché di umiliazione. Per quel che concerne il profilo procedurale, invece, la Corte ha ritenuto inadeguata l'inchiesta interna, che si era conclusa con un provvedimento di archiviazione, in particolare sotto il profilo della valutazione delle prove: le autorità nazionali, infatti, non avevano ritenuto ammissibili né il certificato medico prodotto dalla ricorrente né le foto, scattate dagli altri giornalisti sul luogo del fatto. Ciò posto, la Corte condanna lo Stato convenuto, ai sensi dell'art. 41 Cedu, al pagamento di 4.500 euro a titolo di riparazione pecuniaria.
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 17 aprile 2012, ric. n. 60179/09, Culev c. Moldavia (importance level 3)
Il ricorrente, un detenuto affetto da tubercolosi, lamenta di essere costretto a condividere la cella (di circa 20 metri quadri) con altri 20 detenuti, la maggior parte dei quali era fumatori: ritiene pertanto violato l'art. 3 Cedu, con riferimento al sovraffollamento carcerario, alle condizioni igieniche e alla sottoposizione al fumo passivo, che ha comportato un aggravamento delle sue condizioni di salute. La Corte europea - ribadendo quanto affermato nelle pronunce rese nei casi Ţurcan e Haritonov, entrambe contro la Moldovia, nelle quali essa aveva riconosciuto una violazione diretta dell'art. 3 Cedu in relazione alle condizioni della detenzione dei ricorrenti, i quali erano stati detenuti nel medesimo istituto penitenziario - conclude per una violazione dell'art. 3 Cedu e accorda al ricorrente 4,500 euro a titolo di riparazione pecuniaria.
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 17 aprile 2012, ric. n. 23893/06, J.L. c. Lituania (importance level 3).
Il ricorrente, detenuto, nel 2005 veniva ripetutamente stuprato e percosso violentemente dai suoi compagni di cella perché aveva accettato di collaborare con l'autorità giudiziaria. Lamenta la violazione procedurale dell'art. 3 Cedu in relazione all'ineffettività dell'inchiesta interna (essa veniva avviata con un anno di ritardo; non venivano chiamati a testimoniare né il ricorrente né il medico che lo aveva preso in cura; e le indagini venivano affidate a soggetti del corpo di appartenenza degli agenti penitenziari sospettati delle violazioni) e alla mancata adozione da parte delle autorità penitenziarie di misure idonee a proteggerlo in quanto collaboratore di giustizia. La Corte europea accoglie le censure del ricorrente sotto entrambi i profili, sottolineando - per la prima volta nella giurisprudenza della Corte - che i detenuti che collaborano con la giustizia, sono soggetti particolarmente vulnerabili in quanto esposti al pericolo di subire violenze da parte degli altri detenuti.
C. eur. dir. uomo, sez. I, dec. 17 aprile 2012, ric. n. 53351/09, X c. Norvegia (importance level 3)
Il ricorrente, un cittadino del Burundi di etnia Hutu, nel 2006 lasciava il suo paese di origine e giungeva in Norvegia con la moglie, di etnia Hutu, e i loro due figli: ivi, chiedeva senza successo asilo politico, adducendo che nel paese di provenienza sarebbe stato vittima di trattamenti contrari all'art. 3 Cedu. La Corte europea - attribuendo un peso assai incisivo ai reports provenienti dalle Nazioni Unite, il UNHCR, Human Rights Watch e il Dipartimento di Stato Americano sulla situazione degli Hutu in quel paese - conferma le valutazioni formulate dalle autorità norvegesi in merito all'assenza di un rischio reale per il ricorrente di essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti nel Paese di origine e dichiara, pertanto, inammissibile il ricorso perché manifestamente infondato.
C. eur. dir. uomo, sez. IV, dec. 17 aprile 2012, ric. n. 61254/09, Turzyński c. Polonia (importance level 3)
Il ricorrente, un cittadino polacco affetto da sclerosi multipla, è stato sottoposto a due anni di reclusione dopo essere stato condannato per truffa. Lamenta la violazione dell'art. 3 Cedu sostenendo che durante la detenzione non gli era stato fornito un trattamento sanitario adeguato alle sue condizioni di salute. La Corte dichiara rigetta il ricorso perché manifestamente infondato ritenendo, da un lato, che lo stato di salute del ricorrente fosse compatibile con la detenzione e, dall'altro, che il medesimo era stato detenuto presso un reparto neuropsichiatrico per otto mesi e che, per i restanti diciotto mesi, veniva sottoposto a cure mediche specifiche.
C. eur. dir. uomo, sez. III, dec. 17 aprile 2012, ric. n. 24159/03, Haţegan c. Romania (importance level 3)
Si tratta di un caso in materia di condizioni della detenzione: in particolare, il ricorrente, detenuto, lamenta la violazione dell'art. 3 Cedu in relazione alle condizioni igieniche e al sovraffollamento. La Corte rigetta il ricorso ai sensi dell'art. 34 Cedu perché manifestamente infondato (il ricorrente non ha fornito alcuna prova con riferimento alle proprie allegazioni) e abusivo (in ragione del linguaggio offensivo utilizzato dal ricorrente nei confronti delle autorità nazionali e della Corte europea).
C. eur. dir. uomo, sez. III, dec. 17 aprile 2012, ric. n. 8278/04, Moldovan e altri c. Romania (importance level 3)
Il caso riguarda i sanguinosi conflitti interetnici che hanno avuto luogo nel 1993 nel villaggio di Hadareni tra Rumeni e minoranza Rom. I ricorrenti, appartenenti all'etnia rom, lamentano la violazione degli artt. 3 e 8 Cedu in relazione alle loro condizioni di vita dopo gli scontri, allegando in particolare di avere perso la propria casa e di essere stati costretti a vivere nei boschi in condizioni precarie. La Corte dichiara inammissibile il ricorso per mancato previo esperimento delle vie di ricorso interne.
C. eur. dir. uomo, sez. IV, dec. 17 aprile 2012, ric. n. 9549/07, Ilieva e Georgieva c. Bulgaria (importanxe level 3)
Le ricorrenti, madre e figlia, venivano aggredite da un vicino di casa e riportavano alcune escoriazioni, che peraltro non raggiungevano, ad avviso delle autorità nazionali, un livello di gravità tale da giustificare l'instaurazione di un procedimento penale. Le ricorrenti adivano quindi la Corte europea, adducendo la violazione degli obblighi procedurali discendenti dagli art. 3 e 8 Cedu. La Corte dichiara inammissibile entrambi i motivi di ricorso, ritenendo che le aggressioni subite dalle ricorrenti non raggiungessero un livello di serietà tale da rientrare nell'ambito di applicazione dell'art. 3 né dell'art. 8 Cedu.
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 19 aprile 2012, ric. n. 26984/05, Gorgiev c. Ex Repubblica Yugoslava di Macedonia (importance level 2)
Il ricorrente - un detenuto che, all'interno dell'istituto penitenziario in cui era recluso, si occupava dell'allevamento del bestiame - nel 2000 veniva ferito gravemente da uno dei tori dell'allevamento. Lamenta una duplice violazione dell'art. 3 Cedu sia sotto il profilo sostanziale (perché le autorità nazionali non avevano assunto provvedimenti adeguati per prevenire eventuali aggressioni nei suoi confronti, pur essendo state informate della pericolosità dell'animale) sia sotto quello procedurale (in relazione alla mancata apertura di un'inchiesta disciplinare/penale in merito all'accaduto). La Corte europea riconosce, innanzitutto, una violazione procedurale dell'art. 3 Cedu rilevando come - pur trattandosi di un'ipotesi di violazione colposa di detta norma - nel caso di specie non possa ritenersi sufficiente che alla vittima sia stato riconosciuto il rimedio civilistico del risarcimento del danno dal momento che i giudici interni, ritenuto che l'animale in questione non appartenesse all'istituto penitenziario, avevano omesso qualsiasi accertamento nel merito. Secondo i giudici europei, dunque, le autorità nazionali sono venute meno all'obbligo, discendente dall'art. 3 Cedu, di attivare un'inchiesta al fine di accertare eventuali responsabilità per la violazione della suddetta norma convenzionale, considerato tra l'altro che il ricorrente era un detenuto e, pertanto, sottoposto all'autorità statale.
La Corte esclude, invece, una violazione sostanziale dell'art. 3 Cedu in