ISSN 2039-1676


14 maggio 2012 |

Ergastolo senza possibilità  di liberazione anticipata e art. 3 Cedu: meno rigidi gli standard garantistici richiesti in caso di estradizione

Nota a Corte EDU, sez. IV, sent. 10 aprile 2012, ric. nn. 24027/07, 11949/08, 36742/08, 66911/09 e 67354/09, Babar Ahmad et al. c. Regno Unito.

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1. Con la sentenza Babar Ahmad e altri c. Regno Unito, qui in commento, la Corte europea dei diritti dell'uomo si è pronunciata - a distanza di pochi mesi da un'altra sentenza che aveva ad oggetto la medesima questione (Harkins e Edwards c. Regno Unito, di cui si darà brevemente conto in chiusura) - sulla legittimità convenzionale dell'estradizione di soggetti che nello Stato richiedente potrebbero essere sottoposti a trattamenti contrari all'art. 3 CEDU, e in particolare all'ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata. I ricorrenti erano esposti al rischio di sottoposizione a tale pena poiché erano accusati negli Stati Uniti, che ne avevano richiesto l'estradizione al Regno Unito, di coinvolgimento o supporto ad attività di terrorismo internazionale.

 

2. E' anzitutto necessario richiamare brevemente la giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di compatibilità tra ergastolo e art. 3 Cedu, che vieta la tortura e i trattamenti inumani o degradanti (per puntuali rif. in materia, cfr. anche A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti, in DPC - Riv. trim., p. 241 e 244-247).

Il leading case in materia è rappresentato dalla nota sentenza Kafkaris c. Cipro (Corte EDU, grande camera, sent. 12 febbraio 2008, ric. n. 21906/04, Kafkaris c. Cipro). In quell'occasione, il ricorrente aveva sostenuto dinanzi alla Corte che la sua condanna all'ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata costituisse un trattamento inumano e degradante contrario all'art. 3 Cedu. La Corte,  muovendo dalla constatazione che, affinché un trattamento o una punizione assumano una consistenza afflittiva tale da cadere sotto il divieto di cui alla norma convenzionale in questione, è necessario che essi superino quel minimo di sofferenza e umiliazione che è connaturato al fatto stesso di essere sottoposti a un trattamento o a una punizione, aveva ritenuto che la pena dell'ergastolo non potesse essere considerata in sé contraria al divieto dell'art. 3. Uno dei fattori per valutare se tale forma di sanzione costituisca un ill-treatment suscettibile di essere inquadrato nell'alveo dell'art. 3 Cedu - aveva però precisato in quell'occasione la Corte - era proprio la sussistenza di concrete speranze di liberazione anticipata per il condannato: laddove l'ergastolo sia de jure o de facto riducibile, esso non viola l'art. 3 (cfr. § 95-108 della sentenza Kafkaris)[1].

 

3. La Corte europea, per altro verso, ha sempre riconosciuto la necessità di una tutela anche indiretta del divieto di trattamenti contrari all'art. 3 Cedu nel caso di estradizione, espulsione o comunque allontanamento da uno Stato parte della Convenzione; si tratta di un'applicazione del principio di stampo internazionalistico di non refoulement che, in questo contesto, mira a garantire effettività ai diritti individuali protetti dalla Convenzione. In particolare, nel caso in cui un individuo presente in uno Stato parte della Convenzione sia soggetto ad un allontanamento da questo Stato in altro Stato non parte, nel quale vi siano ragionevoli indizi per ritenere che egli sarà sottoposto a trattamenti inumani o degradanti, è ipotizzabile una violazione dell'art. 3 Cedu nel caso in cui lo Stato richiesto proceda all'allontanamento. Entra in gioco qu una possibile applicazione extraterritoriale della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, dal momento che il giudice europeo può valutare di riflesso la legittimità convenzionale del trattamento sanzionatorio previsto nello Stato (non parte) di destinazione.

Questi principi sono stati elaborati dai giudici di Strasburgo fin dalla nota sentenza Soering c. Regno Unito (Corte EDU, grande camera, sent. 7 luglio 1989, ric. n. 14038/88, Soering c. Regno Unito), che riguardava il caso di un cittadino tedesco che, se estradato negli Stati Uniti per un duplice omicidio ivi commesso, avrebbe potuto essere sottoposto alla pena capitale. Come è noto Corte europea, rilevato che l'art. 2 Cedu ancora ammette la legittimità della pena di morte, e che il Protocollo 6 che ne dispone la definitiva messa al bando non era ancora stato ratificato dal Regno Unito, aveva tuttavia ritenuto che la permanenza nel "corridoio della morte" - e cioè il periodo di reclusione che l'estradando avrebbe dovuto trascorrere in attesa dell'esecuzione della pena - avrebbe costituito un trattamento inumano o degradante, vietato ai sensi dell'art. 3 Cedu (cfr. § 93-99 della sentenza Soering).

Analoga forma di tutela indiretta - questa volta rispetto alle condizioni di detenzione nel paese di destinazione - è stata attuata dai giudici di Strasburgo in un'altra importante sentenza, Chahal c. Regno Unito (Corte EDU, grande camera, sent. 15 novembre 1996, ric. n. 22414/93, Chahal c. Regno Unito), che merita di essere qui brevemente richiamata anche per le affinità che presenta con la sentenza in commento. Anche in quel caso, infatti, i ricorrenti erano sospettati di attività di terrorismo internazionale; la Corte - nonostante le obiezioni del Governo britannico - aveva ritenuto che le ragioni alla base dell'espulsione dei ricorrenti, e in particolare il pericolo per la sicurezza nazionale determinato dall'attività terroristica di cui essi erano sospettati, non potessero comunque legittimare il loro allontanamento nel caso in cui ci fossero ragionevoli motivi per ritenere che essi sarebbero stati sottoposti a trattamenti contrari all'art. 3 Cedu (v. § 103-107)[2]. L'idea sottostante al ragionamento della Corte è che l'art. 3, custodendo uno dei valori fondanti di una società democratica, non possa entrare in bilanciamento con diverse - e pur legittime - istanze, ma debba ricevere una tutela assoluta[3].

 

4. Le tre recenti sentenze della Corte europea di cui si faceva poc'anzi cenno, pronunciate tra il gennaio e l'aprile 2012, hanno in parte ridimensionato i suesposti principi.

Quella ora in commento, Babar Ahmad e altri c. Regno Unito, trae origine dal ricorso di tre cittadini britannici, un cittadino egiziano e un cittadino saudita arrestati nel Regno Unito e incriminati negli Stati Uniti per terrorismo internazionale, contro la concessione dell'estradizione da parte del Regno Unito a favore degli Stati Uniti. I ricorrenti sostenevano che la loro estradizione avrebbe costituito una violazione dell'art. 3 Cedu da parte dello Stato richiesto perché li avrebbe esposti a trattamenti inumani e degradanti, tanto sotto il profilo delle condizioni di detenzione osservate nel carcere di massima sicurezza (ADX) di Florence, Colorado, cui essi erano destinati (condizioni aggravate dalla loro possibile sottoposizione a speciali misure amministrative post judicium), quanto sotto il profilo della tipologia di pena, poiché ad essi sarebbe stato applicato l'ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata.

 

5. Centrale nell'economia argomentativa della Corte è il dialogo con una precedente decisione della House of Lords inglese, R. (Wellington) v. Secretary of State for the Home Department (2008, UKHL 72), nella quale i supremi giudici britannici si erano confrontati con la questione se l'esecuzione di un'estradizione (nella specie verso il Missouri) violi l'art. 3 Cedu, allorché sussista un rischio reale che l'estradando sia condannato, nello Stato richiedente, alla pena dell'ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata.

In quell'occasione la House of Lords aveva, all'unanimità, autorizzato l'estradizione, tutti i giudici avendo ritenuto che i poteri attribuiti al governatore dello Stato di ridurre discrezionalmente la pena ponessero l'estradando in una posizione identica rispetto a quella affrontata dalla Corte EDU nel caso Kafkaris c. Cipro, poc'anzi rammentato, nel quale era stata appunto esclusa la violazione dell'art. 3 Cedu. Tuttavia la maggioranza dei giudici aveva ritenuto che, sulla base dei precedenti della Corte di Strasburgo (e in particolare di un dictum di Soering, mai espressamente smentito nella giurisprudenza successiva), dovesse essere affermato il principio secondo cui, nei casi di estradizione, si imponga una distinzione tra tortura e altre forme di trattamenti inumani o degradanti: mentre in caso di rischio reale di tortura la proibizione di eseguire l'estradizione è certamente assoluta, nel caso in cui il rischio abbia ad oggetto meri trattamenti inumani o degradanti la tutela del diritto dell'estradando sarebbe invece aperta a possibili bilanciamenti[4].

 

6. I giudici di Strasburgo, nella pronuncia in commento, riconoscono che la sentenza Wellington ha evidenziato una potenziale ambiguità nella propria giurisprudenza, che è necessario dipanare.

In particolare la Corte esamina le tre possibili distinzioni che la maggioranza della House of Lords aveva ritenuto di poter rilevare nell'ambito della giurisprudenza della Corte europea sui limiti in materia di estradizione derivanti dall'art. 3 Cedu.

Una prima distinzione sussisterebbe tra l'estradizione e le altre forme di allontanamento dallo Stato. La Corte EDU ritiene però, di doversi discostare dalla ricostruzione dei giudici inglesi, dal momento che la valutazione sulla possibilità che il ricorrente venga sottoposto in un altro Stato a un trattamento contrario all'art. 3 Cedu non può dipendere dalla base legale con cui avviene l'allontanamento.

La seconda distinzione sussisterebbe tra la tortura e le altre forme di trattamenti contrari all'art. 3 Cedu: solo in presenza di un rischio di tortura il divieto di allontanamento sarebbe assoluto; qualora invece sussista un mero pericolo di sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti, il divieto di refoulement sarebbe solo relativo.

Pur ritenendo che tale distinzione riceva qualche supporto nella sentenza Soering, la Corte EDU, richiamato un passaggio della sentenza Chahal (§ 80: "The prohibition provided by Article 3 against ill-treatment is equally absolute in expulsion cases. Thus, whenever substantial grounds have been shown for believing that an individual would face a real risk of being subjected to treatment contrary to Article 3 if removed to another State, the responsibility of the Contracting State to safeguard him or her against such treatment is engaged in the event of expulsion"), conclude per la non rilevanza, ai fini della compatibilità dell'allontanamento con l'art. 3 Cedu, della valutazione sulla natura del maltrattamento cui il soggetto rischia di essere sottoposto, ribadendo come la proibizione offerta dall'art. 3 Cedu in tutti i casi di allontanamento sia assoluta tanto per la tortura quanto per le altre forme di ill-treatment (§ 176).

Tuttavia - osserva la Corte in adesione, questa volta, all'opinione della maggioranza della house of Lords in Wellington - i criteri per valutare il livello minimo di gravità del maltrattamento ai fini della sua qualificazione in termini di contrarietà all'art. 3 Cedu possono essere differenti se si tratta di valutare un caso in cui la violazione lamentata dal ricorrente dipenda da un atto o da un'omissione delle autorità dello Stato resistente, o invece un caso che concerna una violazione potenziale ad opera delle autorità di uno Stato terzo (non parte della Convenzione) cui il ricorrente dovrebbe essere consegnato. Ciò in quanto "la Convenzione non intende essere uno strumento attraverso il quale gli Stati contraenti impongano gli standard convenzionali a Stati non contraenti" (§ 177). Secondo i giudici di Strasburgo quindi, la ragione che può legittimare una diversa forma di tutela ex art. 3 Cedu nel caso di estradizione non è né la differenza tra tortura e altre forme di maltrattamento né la differenza tra estradizione e altre forme di allontanamento, ma il fatto che la Convenzione, in quanto fonte pattizia di diritto internazionale, non può essere applicata agli Stati non contraenti allo stesso modo in cui viene applicata agli Stati contraenti: di talché trattamenti che, se direttamente imputabili alle autorità dello Stato parte, sarebbero considerati dalla Corte come trattamenti degradanti, non necessariamente devono essere considerati tali se compiuti dallo Stato non parte che abbia richiesto l'estradizione.

Di qui, l'enucleazione di due diversi standard di tutela a fronte delle violazioni potenziali dell'art. 3 Cedu, uno per il contesto nazionale, l'altro per quello internazionale; con la conseguenza - per il vero alquanto problematica - che il grado di cogenza delle garanzie convenzionali, anche laddove venga in gioco una norma fondamentale come l'art. 3 Cedu, possa essere inferiore in tutte le ipotesi di applicazione extraterritoriale della Convenzione.

 

7. Nel merito dei profili d'illegittimità lamentati dai ricorrenti, per quanto riguarda il potenziale conflitto tra l'art. 3 Cedu e le condizioni di detenzione presso l'ADX di Florence la Corte parte dalla considerazione che, affinché le condizioni di detenzione cadano sotto il divieto di trattamenti inumani o degradanti, è necessario che esse superino quella soglia minima di afflizione che è connaturata ad ogni tipo di detenzione. Lo Stato d'esecuzione deve in ogni modo assicurare: a) che la persona sia detenuta in condizioni che siano compatibili col rispetto della sua dignità di uomo; b) che le modalità d'esecuzione della misura non lo sottopongano a stress o sofferenze eccedenti l'inevitabile livello di afflizione proprio della condizione di detenuto, tenuto conto delle ragioni della sua reclusione; c) che la sua salute e il suo benessere siano adeguatamente tutelati. Nel merito, i giudici di Strasburgo ritengono che le condizioni di reclusione dell'ADX di Florence, per quanto severe, non superino tale soglia minima di gravità (essendo assicurati i contatti con gli altri detenuti e la possibilità di riceveretelefonate e corrispondenza), e che pertanto la concessione dell'estradizione da parte del Regno Unito non violi - per questo profilo - l'art. 3 Cedu, tenuto conto anche del fatto che proprio i reati di cui i ricorrenti erano accusati giustificano un isolamento accentuato rispetto alla comunità intra ed extra carceraria.

 

8. Più articolato il ragionamento della Corte in merito al secondo profilo, relativo al potenziale conflitto tra art. 3 Cedu e life imprisonment without parole.

La Corte - riprendendo fedelmente i passaggi argomentativi anticipati dalle sentenze Wellington della House of Lords e Bieber della Court of Appeal inglesi sul medesimo tema - afferma anzitutto che l'inflizione dell'ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata integra una violazione dell'art. 3 Cedu allorché tale pena appaia manifestamente sproporzionata (a grossly disproportionated sentence) rispetto al reato di cui il ricorrente è accusato: un test da intendere peraltro in senso assai rigoroso, sottolineano i giudici di Strasburgo citando un precedente della Corte Suprema canadese, sì da spalancare le porte al riconoscimento di una violazione soltanto in "rare and unique occasions". Laddove invece una simile pena non possa ritenersi manifestamente sproporzionata al momento della sua inflizione, una violazione dell'art. 3 potrebbe sorgere soltanto nel momento successivo in cui il condannato, il quale abbia già scontato un primo periodo di detenzione, sia in grado di dimostrare a) che l'ulteriore protrazione della propria detenzione non è più funzionale al perseguimento di alcuno degli scopi legittimi della pena (identificati dalla Corte in retribuzione, deterrenza, protezione della collettività e risocializzazione), e b) che ciononostante non vi è per lui alcuna possibilità, de iure o de facto, di essere ammesso a una liberazione anticipata.

Sulla base di questo duplice test, la Corte esclude anzitutto che rispetto a ciascuno dei sei ricorrenti la prospettiva dell'inflizione di un ergastolo senza liberazione anticipata debba considerarsi manifestamente sproporzionata. Tutti i ricorrenti sono accusati di reati di terrorismo, fenomeno criminoso particolarmente grave e pericoloso per la collettività; rispetto a cinque di essi, d'altra parte, l'inflizione dell'ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata è meramente discrezionale, di talché il giudice avrà la possibilità di tenere in adeguato conto eventuali circostanze attenuanti nel determinare in concreto la pena, mentre contro l'ultimo ricorrente - esposto a una condanna obbligatoria al life-imprisonment without parole - sono stati formulati ben 269 capi di imputazione per omicidio, rispetto ai quali non è stata neppure allegata alcuna circostanza attenuante tale da far apparire manifestamente sproporzionata una simile condanna.

La Corte osserva poi che nessuno dei ricorrenti è stato in grado di dimostrare che l'assenza di possibilità di liberazione anticipata renderà in futuro la loro detenzione non più funzionale ad alcuno degli scopi legittimi della pena. E' ben possibile, osserva la Corte, che una simile condizione non verrà mai a verificarsi; e laddove invece essa si dovesse verificare, non vi è nessuna certezza che le autorità degli Stati Uniti negherebbero in tal caso le possibilità di condonare in parte la pena, possibilità che sono previste, sia pure in casi eccezionali, anche nei confronti dei condannati all'ergastolo without parole[5].

Conseguentemente, la Corte esclude la violazione potenziale dell'art. 3 Cedu, ingiungendo peraltro allo Stato britannico di astenersi dall'eseguire l'estradizione sino a che non la sentenza della Corte divenga definitiva ai sensi dell'art. 44 Cedu.

 

9. Come si accennava in apertura, con un'altra sentenza, decisa anch'essa dalla quarta sezione il 17 gennaio di quest'anno, la Corte di Strasburgo si era pronunciata sulla medesima questione (compatibilità tra art. 3 Cedu e ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata in caso d'estradizione) con motivazioni in diritto e dispositivo pressoché identici, gettando le basi per il futuro consolidamento dell'indirizzo che qui si è esposto.

Alludiamo alla sentenza Harkins e Edwards c. Regno Unito (Corte EDU, sez. IV, sent. 17 gennaio 2012, ric. nn. 9146/07 e 32650/07):  i due ricorrenti, accusati - tra gli altri - di omicidio volontario negli Stati Uniti, erano sottoposti a richiesta di estradizione presentata da questo Stato al Regno Unito. Essi sostenevano che, vista la possibile applicazione della pena capitale o, alternativamente, dell'ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata, la loro estradizione violasse l'art. 3 Cedu. La Corte EDU, ritenute idonee le assicurazioni ricevute dalle autorità americane sulla non applicazione della pena capitale, ha giudicato, per ragioni identiche in diritto a quelle suesposte (le condanne all'ergastolo non sarebbero state palesemente sproporzionate; la reclusione non era ancora cominciata e sussistevano astrattamente possibilità di liberazione anticipata), che l'estradizione dei due ricorrenti non violasse l'art. 3 Cedu.

 


[1]Il principio appena enunciato non è da intendersi in modo assoluto, soprattutto se si ha riguardo a quel meccanismo di "riduzione" che nel caso concreto salvò la legislazione cipriota da un contrasto con l'art. 3 CEDU. La Corte di Strasburgo, per dieci voti a sette, ritenne che il solo potere di remissione, commutazione o riduzione delle sentenze attribuito dall'art. 54 della Costituzione cipriota al Presidente della Repubblica - rectius alla discrezionalità insindacabile di costui, previo parere conforme del Ministro della Giustizia - rendesse la sentenza d'ergastolo de facto riducibile.

 

[2]Nel caso, il trattamento cui il ricorrente avrebbe potuto essere assoggettato era al confine tra ill-treatment e tortura; la circostanza non è di poco conto e deve essere tenuta presente per quanto si dirà tra breve sulla sentenza Wellington dell'House of Lords che è più volte richiamata dalla pronuncia della Corte europea qui in commento.

 

[3] Tale principio fu poi ribadito con particolare nettezza dalla Grande Camera nel caso Saadi c. Italia, sent. 28 febbraio 2008,  ric. n. 37201/06, § 138-141, parimenti relativa all'espulsione di un sospetto terrorista verso la Tunisia, dove sarebbe stato esposto al rischio di tortura.

[4]Anche la sentenza Wellington come la sentenza Kafkaris non è stata decisa all'unanimità; si notino le dissenting opinion di Lord Scott e Lord Brown, che per l'appunto ritennero impossibile tracciare una distinzione tra tortura e trattamento inumano o degradante e che invece l'art. 3 CEDU, anche nel contesto di un'estradizione, garantisse una tutela assoluta.

 

[5]Si noti che la difesa dei ricorrenti - riprendendo gli argomenti delle dissenting opinions in Kafkaris, che avevano per l'appunto sottolineato il difetto di tutela giurisdizionale nell'esercizio di simili poteri di condono parziale della pena -contestava che tali possibilità di condono da parte delle autorità governative potessero essere sufficienti a escludere la violazione dell'art. 3 (v. § 133): la prima ipotesi riguarda essenzialmente i malati terminali o i disabili; la seconda, relativa a chi collabori con le indagini, è rimessa alla completa discrezionalità del Governo; la terza (applicazione retroattiva di sentencing guidelines modificate in senso sostanzialmente più favorevole) dipende dalla circostanza del tutto imprevedibile se le guidelines vengano effettivamente modificate; la quarta - un condono straordinario da parte del Presidente degli Stati Uniti -  è stata utilizzata sinora molto raramente, e comunque in modo controverso.