11 aprile 2017 |
I molteplici volti della compassione: la Grande Camera della Corte di Strasburgo accetta le spiegazioni dei giudici inglesi in materia di ergastolo senza possibilità liberazione anticipata
Nota a Corte EDU, Grande Camera, sent. 17 gennaio 2017, Hutchinson c. Regno Unito
Contributo pubblicato nel Fascicolo 4/2017
Per leggere la sentenza in lingua inglese, clicca qui.
Per leggere la sentenza in lingua francese, clicca qui.
1. Il caso Hutchinson, di cui la pronuncia della grande camera rappresenta il passaggio conclusivo, costituisce un buon banco di prova per valutare la tenuta dei diritti fondamentali rispetto alle pressioni degli ordinamenti nazionali. Il tema è noto: la compatibilità con il sistema convenzionale, ed in particolare con l'art. 3, dell'istituto del “whole life order”, l'ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata previsto dal diritto inglese. Il ricorso giunge alla grande camera dopo che la quarta sezione aveva respinto le doglianze del ricorrente, accogliendo quasi tutte le argomentazioni del governo britannico. Contrariamente a quanto sarebbe forse stato auspicabile, con la decisione in commento la grande camera ha in buona sostanza, e con argomentazione in larga parte sovrapponibile, ratificato la decisione della quarta sezione, respingendo ancora una volta le ragioni del ricorrente.
2. Innanzitutto i fatti. Il ricorrente, cittadino britannico, nel 1984 era stato condannato all’ergastolo per furto con scasso aggravato, violenza sessuale e triplice omicidio: dopo essersi introdotto in un’abitazione, aveva ucciso tre componenti del nucleo famigliare che ivi risiedeva (madre, padre e figlio), quindi aveva ripetutamente violentato la figlia diciottenne. Data la gravità della condotta, il giudice del processo indicava come termine minimo (tariff) la reclusione per 18 anni, suggerendo tuttavia l’applicazione della prigione a vita. Il Segretario di Stato, responsabile della determinazione in concreto del quantum di pena applicabile, aveva ritenuto di disporre l’ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata, per mezzo di un c.d. “whole life order”[1].
Nel caso di condanna a pena perpetua, il diritto inglese prevede un'unica possibilità di cessazione della detenzione: la norma di riferimento è la Section 30 del Crime (sentence) Act 1997, che attribuisce al Segretario di Stato il potere di liberazione anticipata dei prigionieri a vita nel solo caso in cui si verifichino circostanze eccezionali che possano giustificare il rilascio del detenuto “on compassionate grounds”[2].
Tale disposizione legislativa, poi, è specificata da un atto di natura regolamentare emesso dallo stesso Segretario di Stato (Indeterminate sentence manual, c.d. Lifer manual). Esso fornisce criteri più precisi per l'individuazione delle “circostanze eccezionali” in cui il rilascio è consentito[3], in base ai quali, in buona sostanza, i condannati cui è stato imposto un “whole life order” possono ottenere la libertà solo se in fin di vita[4].
3. Per comprendere appieno la portata della decisione adottata dalla grande camera, prima di analizzarne il contenuto, è necessario ricostruire i principi elaborati dalla giurisprudenza precedente. Infatti, la disciplina inglese in materia di ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata era già stata oggetto di valutazione da parte della Corte EDU, in particolare nelle due sentenze Vinter ed altri c. Regno Unito, emesse rispettivamente dalla quarta sezione nel 2012 e dalla grande camera il 9 luglio 2013[5].
Nel primo giudizio, la quarta sezione aveva respinto il ricorso per violazione dell'art. 3 CEDU. I giudici infatti, avevano riconosciuto che la disciplina inglese non garantiva la riducibilità de iure o de facto della pena perpetua, richiesta come requisito di compatibilità dell’ergastolo con l’art. 3 CEDU a partire dalla nota sentenza Kafkaris[6]; tuttavia avevano negato che nel caso concreto vi fosse violazione dell'art. 3, in quanto i due ricorrenti non erano stati in grado di dimostrare che nei loro confronti la pena fosse già priva di fondamento giustificativo al momento della decisione[7].
Nel giudizio di impugnazione, però, la grande camera aveva ribaltato il verdetto: valorizzando la funzione rieducativa della pena anche nei confronti dei detenuti a vita, e spostando l’attenzione dalla situazione concreta dei ricorrenti della Corte alla normativa applicabile, i giudici di Strasburgo affermavano che il Regno Unito, nell’imporre pene detentive perpetue ed irriducibili, violava l’art. 3 CEDU. Come principale ragione a sostegno della decisione, i giudici affermavano che la possibilità di cessazione anticipata della pena solamente in “circostanze eccezionali” e “on compassionate grounds” negava agli individui sottoposti all'ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata tanto una “prospettiva di liberazione” fondata su presupposti sufficientemente chiari e certi, quanto la “possibilità di revisione” del loro caso. Secondo i giudici di Vinter, dunque, la disciplina inglese che abbiamo sopra brevemente tratteggiato non garantiva i necessari meccanismi per evitare la prosecuzione della pena perpetua quando questa non fosse più sorretta da “alcun legittimo presupposto funzionale”; ne impediva, insomma, la riducibilità de iure o de facto[8].
Il principio espresso dalla Grande Camera in Vinter è stato poi ripreso e specificato in una serie di altre sentenze, che ne hanno approfondito alcuni aspetti. In particolare, possiamo ricordare la sentenza della grande camera Murray c. Paesi Bassi[9], che compendia e chiarisce i principi enunciati dalla giurisprudenza Vinter e post-Vinter; ma non mancano sentenze di singole sezioni della Corte che applicano i medesimi principi[10].
4. Dopo la sentenza della Grande Camera in Vinter, gli stessi giudici inglesi hanno affrontato il problema della conformità della disciplina nazionale in materia di ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata con l’art. 3 CEDU. Ribadendo quanto affermato dalla giurisprudenza nazionale pre-Vinter[11], i giudici inglesi – nell'importante sentenza pronunciata dalla Court of Appeal in composizione ampliata nel caso McLoughlin[12] - sostengono che la violazione dichiarata dalla Grande Camera nel 2013 sia stata frutto di un errore di comprensione, da parte dei giudici europei, della normativa inglese.
La Court of Appeal, infatti, afferma che il Secretary of State inglese è tenuto, nell’esercizio di ogni sua funzione, e quindi anche nel concedere il “release on compassionate grounds” ai detenuti a vita, a rispettare la CEDU come interpretata dalla Corte di Strasburgo. Ciò sulla base delle Sections 2 e 3 dello Human Rights Act del 1998, che impongono un obbligo generalizzato di interpretazione convenzionalmente orientata di tutto l’ordinamento giuridico[13]. Ne deriva, secondo la lettura fornita dalla Court of Appeal, il carattere meramente esemplificativo e non tassativo dei parametri indicati dal Lifer Manual, sopra citati: in pratica, il Segretario di Stato sarebbe chiamato ad applicare il suo potere di concessione eccezionale della liberazione anticipata ogniqualvolta ciò si renda necessario per garantire che la detenzione non si protragga oltre la cessazione del legittimo fondamento funzionale della stessa. In tal modo risulterebbero garantiti, sempre nella visione dei giudici inglesi, tanto il “prospect of release” quanto la “possibility of review” richiesti dall’art. 3 CEDU nella lettura fornitane in Vinter.
Per quanto riguarda invece la certezza e la chiarezza dei criteri sulla cui base il Secretary of State dovrebbe consentire la liberazione, elementi altresì richiesti dalla Grande Camera in Vinter, questi sarebbero garantiti dall’obbligo di rispettare la Convenzione così come interpretata dal suo giudice naturale, e cioè dalla stessa Corte EDU. Inoltre, vi sarebbe la possibilità un controllo giurisdizionale sulle decisioni adottate dal Segretario di Stato in materia, le quali devono essere sempre motivate con riferimento alle circostanze del caso concreto.
5. Si comprende, a questo punto, la spinosa situazione in cui si sono trovati i giudici convenzionali nel decidere il ricorso proposto dal signor Hutchinson. La situazione normativa e fattuale, infatti, era del tutto analoga a quella già affrontata in Vinter; ma nel frattempo era intervenuta la decisione dei giudici inglesi con cui avevano ribadito la conformità alla Convenzione della normativa interna.
Nel giudizio davanti alla quarta sezione, il Governo inglese aveva invocato la decisione della Court of Appeal, sostenendo che la disciplina del diritto inglese risultava ora chiarita, in senso compatibile con la Convenzione.
La quarta sezione della Corte aveva ritenuto fondati i rilievi del Governo, e con una motivazione estremamente sintetica sul punto aveva affermato: a) che il compito di interpretare il diritto interno spetta primariamente ai giudici nazionali; b) e che, se le “circostanze eccezionali” in cui può essere concesso l’early release sono da interpretarsi in senso sufficientemente ampio da coprire tutti i casi di esaurimento di funzione della pena, come affermato dai giudici inglesi in McLoughlin, allora la normativa inglese risulta compatibile con il divieto di trattamenti inumani e degradanti ex art. 3 CEDU[14].
6. Nella sentenza qui commentata, la Grande Camera conferma la decisione di prima istanza, cercando di meglio chiarirne la ratio.
Innanzitutto (§§ 38 ss. della sentenza in esame), la Corte si chiede se la normativa interna sia chiara e prevedibile per i condannati, alla luce della sentenza McLoughlin della Court of Appeal. La risposta è affermativa, dal momento che – secondo la Corte – quella sentenza avrebbe superato il contrasto tra l’obbligo di applicazione “convenzionalmente orientata” della liberazione anticipata “on compassionate grounds” e le restrittive disposizioni del Lifer Manual, emanato dal Secretary of State, contrasto che era stato la ragione principale della pronuncia di condanna emessa nei confronti del Regno Unito in Vinter.
Sulla base di questa premessa, la Corte passa ad analizzare il merito della questione, cioè se la disciplina britannica garantisca o meno la riducibilità de iure o de facto della condanna a vita. I principi applicabili individuati dalla Grande Camera possono così essere compendiati (§§ 42-45): 1) l’ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata non è, di per sé, incompatibile con l’art. 3 CEDU, purché siano sempre conservati “both a prospect of release and a possibility of review”, rivolti a verificare la perdurante sussistenza di “legitimate penological grounds” per la prosecuzione della carcerazione; 2) tra i diversi “legitimate penological grounds” che giustificano il proseguire della detenzione, particolarmente importante è il profilo della rieducazione del condannato, il cui peso relativo aumenta con il trascorrere del tempo e la prosecuzione della pena[15]; 3) i criteri e le condizioni sulla cui base orientare la revisione devono essere chiaramente definiti dal diritto interno, e devono essere compatibili con i principi individuati dalla giurisprudenza della Corte stessa; 4) il momento in cui la revisione deve essere effettuata è rimesso al margine di apprezzamento degli Stati, tenendo però come punto di riferimento il termine venticinquennale, individuato sulla base del consenso internazionale; 5) la natura della procedura di revisione (giudiziale o amministrativa) è rimessa al margine di apprezzamento nazionale[16].
Sulla base di tali principi, i giudici della grande camera valutano il sistema britannico. Innanzitutto, e cominciando dall’ultimo dei parametri indicati sopra, i giudici di Strasburgo affermano che la natura amministrativa della procedura di revisione della condanna a pena perpetua non pone problemi di compatibilità convenzionale, trattandosi di aspetto rimesso alla discrezionalità del legislatore nazionale.
Per quanto riguarda i parametri-guida della revisione, poi, la Court of Appeal li individua nella norma (Section 30 del Crime Act 1997, sopra cit.) che attribuisce al Secretary of State il potere di liberare i condannati all’ergastolo quando ricorrano circostanze eccezionali “on compassionate grounds”. Secondo la Court of Appeal tale norma deve essere interpretata in via convenzionalmente orientata, così da garantire la cessazione della pena quando questa abbia esaurito la sua legittima funzione. Nonostante il Governo inglese non abbia fornito alcuna prova del fatto che, in concreto, il Segretario di Stato abbia aderito alle indicazioni fornite dalla Court of Appeal in McLoughlin, superando la propria restrittiva policy esplicitata nel Lifer Manual, la Corte si accontenta delle rassicurazioni fornite dalla sentenza McLoughlin e ritiene che anche sotto questo profilo il Regno Unito rispetti l’art. 3 CEDU. Addirittura, i giudici della grande camera affermano che l’espressione “exceptional circumstances” contenuta nella Section 30 sarebbe fonte di un preciso obbligo per il Segretario di Stato di procedere ad una revisione della pena in ogni occasione in cui, alla luce dei progressi compiuti dal prigioniero nel percorso rieducativo, essa divenga priva di legittimo fondamento funzionale (in particolare, § 57).
La chiarezza dei parametri individuati dalla Court of Appeal, e la conoscibilità da parte dei soggetti sottoposti alla misura stessa, sono giudicati positivamente dalla Corte sulla base di due ordini di ragioni: da un lato, l’obbligo per il Segretario di Stato di basarsi sulla giurisprudenza di Strasburgo nel compiere le sue valutazioni, obbligo espressamente indicato dalla Court of Appeal, sarebbe fonte di chiarezza per i condannati a pena perpetua; dall’altro, l’obbligo di motivare i propri provvedimenti dovrebbe consentire di sviluppare una forma di case-law che, a sua volta, dovrebbe chiarire sempre più i criteri stessi con l’accumularsi delle decisioni.
Infine, per quanto riguarda il parametro temporale, il Segretario di Stato non ha l'obbligo di avviare d'ufficio la procedura di revisione. Tuttavia, la possibilità per il detenuto di rivolgersi a lui in qualsiasi momento sulla base della Section 30 garantisce, secondo la Corte, la compatibilità del sistema con l’art. 3 CEDU anche sotto questo punto di vista.
7. La decisione è corredata da due opinioni dissenzienti.
Innanzitutto il giudice López, pur concordando con la maggioranza sul fatto che la sentenza McLoghlin ha reso la disciplina inglese compatibile con la Convenzione, non condivide la scelta della Corte di non valutare la situazione precedente a tale sentenza. Il giudice spagnolo ritiene infatti che si sarebbe dovuta dichiarare la violazione per tutto il periodo intercorso tra la condanna del ricorrente e la sentenza della Court of Appeal: egli evidenzia, infatti, come si tratti di un non breve periodo, della durata di 30 anni, durante il quale al ricorrente non sono stati garantiti il “prospect of release” e la “possibility of review” imposti dall'art. 3 CEDU.
L’altra opinione dissenziente è firmata, invece, del giudice Pinto de Albuquerque; e ad essa aderisce in toto anche il giudice Sajó, con una brevissima nota.
Il giudice portoghese individua innanzitutto i parametri che la giurisprudenza precedente della Corte ha utilizzato per valutare la compatibilità dell’ergastolo con l’art. 3 CEDU, soffermandosi in particolare sulle sentenze Vinter e Murray. La prima, a suo giudizio, avrebbe individuato un generale “right to parole” a favore di tutti i detenuti a vita, diritto che dovrebbe essere garantito fin dal momento di imposizione della condanna; la seconda, poi, ne avrebbe meglio definito i contenuti, sulla base di cinque principi vincolanti: il rispetto del principio di legalità (inteso, secondo i consueti parametri di Strasburgo come chiarezza e certezza del diritto applicabile); il principio dell’accertamento del fondamento funzionale per la prosecuzione della pena detentiva; il principio dell’accertamento entro scadenze predefinite (per i detenuti a vita, il termine di riferimento è di 25 anni); il principio delle giuste garanzie procedurali; il principio del diritto ad una revisione giurisdizionale delle decisioni in materia di early release.
Passando quindi all’esame del diritto inglese, il giudice Pinto evidenzia come la tesi sostenuta dalla Court of Appeal in McLoughlin contrasti con la lettera della legge vigente in quel paese: mentre la Section 30 del Crime (Sentences) Act del 1997, infatti, consente la liberazione solo “on compassionate grounds”, la Court of Appeal vorrebbe che tale disposizione venisse interpretata come volta a garantire la liberazione del condannato a vita in tutti i casi in cui non sussista più alcun “legitimate penological ground for continued imprisonment”, secondo quanto richiesto dalla giurisprudenza Vinter. A detta del giudice dissenziente, però, l'operazione compiuta dai giudici inglesi non è una mera interpretazione della norma, in quanto attribuisce alla stessa un significato che non è compatibile con alcuna possibile lettura dell'espressione “compassionate grounds”. Si tratterebbe, al contrario, dell'introduzione in via analogica di un nuovo istituto, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di incertezza dei suoi confini applicativi.
Inoltre, anche a voler trascurare l'incongruenza lessicale tra tenore della legge e significato ad essa attribuito dalla Court of Appeal, rimane aperto il problema della chiarezza dei criteri a cui il Segretario di Stato deve fare riferimento nell’esercizio del suo potere di early release. Sul punto i giudici inglesi non forniscono alcuna indicazione, limitandosi ad affermare che “l’espressione «circostanze eccezionali» è già di per sé sufficientemente chiara”; al contrario, il giudice Pinto dubita della chiarezza di tale parametro, soprattutto se da interpretarsi in senso ampio in modo da renderlo compatibile con i dettami di Strasburgo. Anche l’obbligo di “tenere in considerazione” la Convenzione nell’interpretazione del diritto interno non sarebbe sufficiente a garantire il rispetto degli standard posti dalla giurisprudenza CEDU; ed anzi, l’opinione dissenziente elenca una serie di giudizi in cui i giudici inglesi si dimostrano piuttosto restii a consentire l’ingresso della giurisprudenza della Corte EDU nell’ordinamento interno.
Ad ulteriore conferma di quanto sostenuto, infine, il giudice Pinto propone diversi stralci di decisioni, tutte successive alla sentenza McLoughlin, nettamente orientate nel senso di ritenere l’imposizione del whole life order come una pena realmente perpetua, tale per cui “the defendant will die in prison”. Vero è che non si tratta di provvedimenti del Segretario di Stato, autorità deputata alla concessione della liberazione anticipata; ma se si considera che il governo inglese non si è premurato di fornire alcuna dimostrazione di un mutato atteggiamento da parte di tale organo nella concessione della liberazione anticipata, tali sentenze costituiscono certamente un segno del permanere di un atteggiamento ostile da parte degli operatori di diritto interno nei confronti della concessione della liberazione anticipata agli ergastolani, atteggiamento non compatibile con i dettami della Convenzione.
In generale, il giudice portoghese mette in guardia dal rischio che deriva dall’apposizione di limiti alla penetrazione dei diritti umani nei sistemi interni. A suo dire, in questa occasione non solo i giudici inglesi, posti di fronte alla condanna da parte del massimo organo convenzionale per violazione dell’art. 3 CEDU, si sarebbero limitati a ribadire la correttezza del loro sistema senza introdurne alcuna modifica, neanche simbolica, ma addirittura la Corte EDU, di nuovo nella sua composizione più ampia, si sarebbe accontentata delle rassicurazioni provenienti dai giudici nazionali, senza preoccuparsi di valutare se almeno il “diritto vivente” sia coerente o meno con la ricostruzione fornitane dalla Court of Appeal.
* * *
8. In questa sede non si può che esprimere qualche prima, breve osservazione sulla pronuncia in esame. La motivazione con cui i giudici europei accolgono le istanze proposte dalla Court of Appeal inglese desta infatti non poche perplessità.
In particolare, si possono individuare due fondamentali profili critici della sentenza.
Il primo, di carattere letterale, è connesso al testo della disposizione di cui alla Section 30 del Crime Act 1997. Non si capisce, infatti, come la Corte possa ritenere risolto il problema di chiarezza dell'ordinamento interno sollevato in Vinter semplicemente per effetto di una pronuncia che afferma, con una semplicità che lascia interdetto il lettore, che “the term «exceptional circumstances» is of itself sufficiently certain”[17]. Dal punto di vista semantico, l'espressione “eccezionale”, quando non meglio chiarita, non fornisce all'interprete alcuna indicazione sui confini della fattispecie in cui la norma deve trovare applicazione; l'unico dato che è possibile ricavare da tale termine è di tipo numerico, statistico: l'applicazione della liberazione anticipata da parte del Secretary of State ai condannati soggetti ad un whole life order deve rappresentare, appunto, l'eccezione alla regola, un fenomeno isolato e straordinario in un contesto di generale detenzione a vita.
Una maggiore consistenza definitoria è fornita alla norma inglese dal riferimento ai “compassionate grounds”. La Court of Appeal afferma che tale requisito può essere inteso come idoneo a comprendere tutti i casi di avvenuto reinserimento del condannato, tale per cui la pena abbia esaurito la sua funzione preventiva e rieducativa. Tuttavia, questa interpretazione, più che praeter legem, appare contra legem: nessun possibile significato del termine “compassionate grounds”, infatti è in grado di comprendere in sé l’ipotesi di esaurimento dei presupposti funzionali della pena. Trattandosi di un’interpretazione analogica in favor rei, non si pongono problemi in relazione all’art. 7 CEDU; ma certamente tale operazione ermeneutica non può che rendere ancora più incerti i confini della valutazione di cui è investito il Segretario di Stato, accentuando pertanto il contrasto con l’art. 3 come interpretato da Vinter.
Vi è poi un secondo profilo della pronuncia in esame che genera perplessità. Pur non essendosi mai spinta fino a negare in radice la legittimità della detenzione perpetua, riconoscendo un “diritto al fine-pena” in capo ad ogni detenuto, a partire da Vinter la Corte EDU ha sviluppato l'idea che vi sia almeno un diritto al riesame del proprio caso e, in una certa misura, il diritto ad essere messi alla prova dall'ordinamento, una volta che la pena abbia esaurito la sua funzione retributiva, puramente sanzionatoria[18]. Al contrario, la Court of Appeal nel caso McLoghlin appare convinta che il reinserimento dei condannati a vita all’interno della società non possa che essere un evento eccezionale, anomalo e che, pertanto, a tali soggetti sia richiesto qualcosa di più di ciò che è richiesto agli altri condannati per accedere alla libertà prima della naturale scadenza del termine di pena[19]. In effetti, la prospettiva dei giudici inglesi non stupisce: il punto di riferimento normativo, infatti, rimane pur sempre la norma che consente la liberazione anticipata degli ergastolani solo in circostanze eccezionali e “on compassionate grounds”, una norma che presenta confini a tal punto angusti da non aver ricevuto alcuna applicazione negli ultimi quindici anni.
Il contrasto tra le due prospettive non potrebbe essere più palese. E tuttavia la Grande Camera, in questa occasione, sembra nascondere la testa sotto la sabbia, apparentemente più preoccupata di evitare lo scontro diretto con i giudici nazionali – giudici appartenenti ad uno Stato tradizionalmente tra i più riottosi ad adeguarsi alle influenze provenienti dal continente – che non di garantire il coerente rispetto degli standard di tutela da lei stessa fissati in precedenza.
Il giudice Pinto, nella parte conclusiva della sua opinion, mette in guardia contro i rischi di deriva che possono ingenerarsi da un atteggiamento troppo timido della Corte di Strasburgo nei confronti delle giurisdizioni nazionali. Non si può che concordare: è vero che i giudici nazionali sono i primi giudici della Convenzione, ma giudice ultimo non può che esserne la Corte. La scelta di quest’ultima di non esigere il rispetto concreto ed effettivo degli standard posti dalla sua giurisprudenza, accontentandosi di ricevere rassicurazioni dagli operatori di diritto interno circa la compatibilità dei sistemi nazionali con i diritti convenzionali, rischia di minare alla base l’intero sistema convenzionale. La Convenzione, infatti, è finalizzata a garantire “a common understanding and observance” dei diritti umani, diritti che devono ricevere ovunque il medesimo livello minimo di tutela[20].
Non è questa la sede per approfondire oltre considerazioni di ordine così generale, che richiedono un’analisi ad ampio spettro dell’evolversi dell’intera giurisprudenza di Strasburgo. Certamente, però, la sentenza che qui si analizza non rappresenta un passo in avanti nel percorso di armonizzazione delle garanzie all’interno del Consiglio d’Europa, né un esempio positivo di “dialogo tra Corti”.
In questa occasione, infatti, non resta neanche la – per la verità piuttosto magra – consolazione evidenziata da Francesco Viganò in relazione alla sentenza A e B c. Norvegia[21]. In quella situazione, i giudici norvegesi si erano sforzati di adeguarsi, almeno su alcuni aspetti, agli standard convenzionali di tutela del diritto coinvolto, ottenendo “in cambio” da parte della Corte la valorizzazione di criteri di valutazione meno stringenti; i giudici inglesi, invece, non sono sembrati disposti a fare concessioni, e finiscono in tal modo per arrogarsi il diritto di interpretare essi stessi la Convenzione in modo autonomo,
[1] Per una ricostruzione più approfondita della disciplina inglese in materia si veda F. Viganò, Ergastolo senza speranza di liberazione condizionale e art. 3 CEDU: (poche) luci e (molte) ombre in due recenti sentenze della Corte di Strasburgo, in questa Rivista, 4 luglio 2012, pp. 4-5. L’espressione “liberazione anticipata” è usata, qui come in seguito, in senso atecnico, con riferimento non al solo istituto della riduzione della pena detentiva per effetto della buona condotta, ma altresì a qualsiasi forma di anticipazione del fine-pena rispetto a quello fissato con il provvedimento di condanna
[2] La Section 30 del Crime (Sentences) Act del 1997 è rubricata, significativamente, “Power to release life prisoners on compassionate grounds”.
[3] Il Lifer Manual è racchiuso nel Capitolo 12 del Prison Service Order 4700, formulato nel 2010. Il testo è reperibile sul sito del Ministero della Giustizia britannico.
[4] Il Lifer Manual, infatti, specificamente elenca i presupposti cumulativi per la concessione del “compassionate release on medical grounds”, richiedendo la presenza di una malattia in fase terminale che è probabile che causi la morte del detenuto entro un breve lasso di tempo (il termine di riferimento è di 3 mesi) o che ne provochi l'allettamento permanente; la presenza di un rischio minimo di recidiva; la riduzione dell'aspettativa di vita del detenuto per effetto della prosecuzione della pena detentiva; l'esistenza di cure e trattamenti adeguati al di fuori del carcere; un significativo beneficio per il detenuto o la sua famiglia derivante dalla scarcerazione. Il testo si premura altresì di specificare che i costi derivanti dalla necessità di mantenere il detenuto in ospedale e del piantonamento non costituiscono ragione per concedere la liberazione anticipata, così come questa non può essere concessa a prigionieri che si siano indotti volontariamente lo stato di malattia.
[5] Si tratta delle pronunce Corte EDU, sez. IV, sent. 17 gennaio 2012, Vinter e altri c. Regno Unito, Ric. 66069/09, 130/10 e 3896/10, su cui si veda F. Viganò, Ergastolo senza speranza di liberazione condizionale, cit. e Corte EDU, grande camera, sent. 9 luglio 2013, Vinter ed altri c. Regno Unito, Ric. 66069/09, 130/10 e 3896/10.
[6] Corte EDU, grande camera, sent. 12 febbraio 2008, Kafkaris c. Cipro, Ric. 21906/05.
[7] Giova ricordare che la decisione fu assunta a stretta maggioranza, con 4 voti e favore e 3 contrari e l’opinione fortemente dissenziente del giudice De Gaetano.
[8] Si vedano in particolare i §§ 123-131 della sentenza Vinter della grande camera, cit. supra.
[9] Corte EDU, grande camera, sent. 26 aprile 2016, Murray c. Paesi Bassi, Ric. 10511/10.
[10] Ad esempio, senza pretesa di completezza, possiamo citare Corte EDU, sez. V, sent. 13 novembre 2014, Bodein c. Francia, Ric. 40014/10; Corte EDU, sez. IV, sent. 4 settembre 2014, Trabelsi c. Belgio, Ric. 140/10; Corte EDU, sez. II, sent. 20 maggio 2014, Lázló Magyar c. Ungheria, Ric. 73593/10; Corte EDU, sez. IV, sent. 4 ottobre 2016, T.P. e A.T. c. Ungheria, Ric. 37871/14 e 73986/14, in questa Rivista, 28 novembre 2016.
[11] In particolare la Court of Appeal richiama le sue precedenti sentenze del 2008, R. v. Bieber, e del novembre 2012, R. v. David Oakes and others, in cui aveva ritenuto la compatibilità del sistema inglese del whole life order e dell’early release on compassionate grounds con l’art. 3 CEDU.
[12] Court of Appeal (Criminal Division), R. v. Ian McLoughlin e R. v. Lee William Newell, 18 febbraio 2014, casi n. 2013/5646/A7 e 2013/5317/A5. Formavano parte del collegio giudicante, ad evidenziare la rilevanza del problema e l’autorevolezza della decisione raggiunta, il Lord Chief Justice di Inghilterra e Galles, il Presidente della Queen’s Bench Division e il vice-presidente della Court of Appeal-Criminal Division.
[13] La Section 2, in particolare, impone di interpretare la Convenzione “tenendo conto” di sentenze, decisioni, dichiarazioni ed avvisi della Corte di Strasburgo; la Section 3, quindi, impone di interpretare ed applicare la legislazione interna primaria e secondaria “in modo compatibile con i diritti convenzionali”, ma specifica che l’obbligo opera “fino al punto in cui è possibile” un’interpretazione convenzionalmente orientata.
[14] Si veda Corte EDU, sez. IV, sent. 3 febbraio 2015, Hutchinson c. Regno Unito, Ric. 57592/08, §§ 24-25.
[15] Il principio per cui, esaurita la funzione rieducativa della pena detentiva perpetua, debba cessarne l'esecuzione, rimane un po’ tra le righe nella sentenza in esame, ma può essere più chiaramente individuato sulla base di quella giurisprudenza della Corte che si è occupata della compatibilità convenzionale di sistemi che prevedevano meccanismi di revisione della condanna attivabili solo dopo lassi di tempo molto lunghi (30-40 anni): da tali pronunce emerge come la funzione retributiva della pena sia considerata dalla Corte un “legitimate penological ground for incarceration”, ma che al tempo stesso tale funzione non possa mai giustificare, di per sé sola, una reclusione di durata superiore a 25 anni. Dopo tale termine, l’unica legittima funzione sembra essere quella rieducativa: si vedano, in particolare, le sentenze Corte EDU, Bodein c. Francia, cit. e Corte EDU, A.T. e T.P. c. Ungheria, cit.
[16] Per la verità, in Corte EDU, A.T. e T.P. c. Ungheria, cit., § 49, la Corte sembrava propensa ad ritenere sussistente un obbligo di introdurre la possibilità di ricorso giurisdizionale in caso di procedura amministrativa; questo spunto, però, non è stato ripreso dalla grande camera nella decisione qui in commento, che anzi ribadisce la natura discrezionale della scelta. Peraltro, su questo punto non si sarebbero comunque posti problemi nel caso di specie, in quanto la decisione (amministrativa) del Secretary of State è soggetta a ricorso giurisdizionale. A maggior ragione, non sorgerebbero profili di contrasto dell’ordinamento penitenziario italiano con la CEDU, se si considera che tutte le decisioni sulla liberazione anticipata, incluse quelle concernenti i condannati a vita, sono rimesse al Magistrato di Sorveglianza.
[17] Court of Appeal (Criminal Division), R. v. Ian McLoughlin, cit., §31.
[18] In particolare, si veda quanto sostenuto supra, alla nota 11, e la giurisprudenza ivi citata. Si veda inoltre Corte EDU, grande camera, Vinter c. Regno Unito, cit., §111, ripreso testualmente in Corte EDU, grande camera, Murray c. Paesi Bassi, cit., §100, dove la Corte sottolinea come la funzione della pena, nel corso della sua esecuzione, non indica un concetto statico, ma subisce un progressivo spostamento dalle funzioni retributiva e general-preventiva alla funzione special-preventiva, o più propriamente rieducativa; questo passaggio argomentativo costituisce, di fatto, il presupposto per l’imposizione di un obbligo di revisione della condanna nei confronti dello Stato.
[19] Questa prospettiva è sottesa all'intero giudizio della Corte di Appello, ma si può cogliere in modo palese ed esplicito dal § 36 della stessa.
[20] Il virgolettato è tratto dal Preambolo della CEDU.
[21] Il riferimento è a F. Viganò, La Grande Camera della Corte di Strasburgo su ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio, in questa Rivista, 18 novembre 2016, in particolare § 13.