ISSN 2039-1676


28 gennaio 2019 |

Ergastolo ostativo e preclusione all’accesso ai permessi premio: la Cassazione solleva questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 27 Cost.

Cass., Sez. I, ord. 20 novembre 2018 (dep. 20 dicembre 2018), n. 57913, Pres. Santalucia, Est. Centonze, ric. Cannizzaro

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1. Con l’ordinanza che può leggersi in allegato la prima sezione della Cassazione dichiara rilevante e non manifestamente infondata una questione di costituzionalità riguardante un particolare aspetto della disciplina del c.d. ergastolo ostativo (art. 4 bis, co. 1 ord. pen.), chiamando la Corte costituzionale a scrivere un’ulteriore pagina nel dibattito sulla conformità a Costituzione di tale istituto. L’ordinanza in commento solleva infatti questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dell’art. 4 bis, comma 1 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia a norma dell’art. 58 ter ord. pen., possa beneficiare dei permessi premio di cui all’art. 30 ter ord. pen.

Com’è noto il comma 1 dell’art. 4 bis ord. pen. stabilisce il divieto di concessione di alcuni “benefici penitenziari”, fatti salvi i casi di collaborazione con la giustizia, per i soggetti condannati per alcune gravi ipotesi di reato tra cui, sia quelle previste dagli artt. 416 bis (Associazione di tipo mafioso) e 416 ter (Scambio elettorale politico-mafioso) c.p., sia quelle commesse avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.

 

2. Il caso dal quale origina la vicenda riguarda proprio un soggetto condannato per delitti commessi al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dall’art. 416 bis c.p. Il ricorrente – condannato all’ergastolo con isolamento diurno per un anno – aveva rivolto al Tribunale di sorveglianza di L’Aquila un reclamo avverso il decreto del Magistrato di sorveglianza che aveva in precedenza dichiarato inammissibile la sua richiesta di permesso premio ex art. 30 ter ord. pen. Il Tribunale rigettava il reclamo del detenuto sul presupposto che la pena da lui scontata era esclusivamente riferibile a delitti ostativi ex art. 4 bis ord. pen., per i quali non sussistevano condotte di collaborazione con la giustizia ex art. 58 ter ord. pen.

Sempre il Tribunale di sorveglianza – sollecitato dal ricorrente circa la sospetta incostituzionalità dell’art. 4 bis ord. pen., nella parte in cui subordina la concessione del permesso premio in favore dei condannati all’ergastolo per un delitto ostativo, alla loro collaborazione con la giustizia – riteneva che tale disposizione, sulla base della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, non poteva ritenersi «un’ipotesi di preclusione assoluta all’accesso ai benefici penitenziari, essendo rimessa al condannato la possibilità di superare il divieto normativo attraverso una scelta collaborativa, rilevante ai sensi dell’art. 58 ter ord. pen.».

 

3. Il detenuto ha proposto quindi ricorso per Cassazione deducendo due motivi di doglianza.

i) Da un lato, egli lamentava la violazione di legge del provvedimento impugnato, in riferimento agli artt. 4 bis, 30 ter e 58 ter ord. pen. Il Tribunale di sorveglianza aveva ritenuto che i delitti alla base della condanna all’ergastolo non consentivano la concessione del permesso premio richiesto, non dando erroneamente rilevanza, secondo il ricorrente, al fatto che nei suoi confronti non era mai stata contestata l’aggravante speciale di cui all’art. 7 decreto legislativo n. 152 del 1991 che, come è noto, comporta l’aumento da un terzo alla metà della pena prevista per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo, commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo. A sostegno di tale motivo di doglianza, infatti, il ricorrente richiamava quell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il divieto di cui all’art. 4 bis, co. 1 ord. pen. può operare solo in presenza di una sentenza di condanna che riconosca, sulla base di una contestazione formale, l’aggravante ex art. 7 d.l. n. 152/1991.

ii) Con il secondo motivo, invece, si riproponeva alla Corte di cassazione la questione della sospetta incostituzionalità dell’art. 4 bis, co. 1 ord. pen., per violazione degli artt. 27, comma 3 e 117 Cost., in relazione all’art. 3 Cedu. Ad opinione del ricorrente la preclusione assoluta stabilita dalla norma censurata «si pone in contrasto con la funzione rieducativa della pena, costituzionalmente garantita, sia perché impedisce il raggiungimento delle finalità riabilitative proprie del trattamento penitenziario, sia perché appare disarmonica rispetto ai principi affermati dall'art. 3 Cedu; quest'ultima norma, infatti, impone agli Stati membri di prevedere dei parametri temporali certi in base ai quali, in presenza di una condanna all'ergastolo, al detenuto è garantita la possibilità di ottenere, in conseguenza del suo percorso rieducativo, la revisione della condanna».

 

4. Prima di valutare la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, la Cassazione respinge senza particolare sforzo argomentativo il primo motivo di ricorso. Secondo l’ordinanza annotata, la più recente giurisprudenza di legittimità è infatti ormai consolidata nel ritenere che la preclusione al godimento dei benefici penitenziari di cui all’art. 4 bis, co. 1 ord. pen. opera, per i condannati all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, anche quando l’aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 «non sia stata formalmente contestata, ma ne venga riscontrata la sussistenza attraverso l’esame del contenuto della sentenza di condanna»[1]. Ne consegue la dichiarazione di infondatezza del primo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente – lo ricordiamo – lamentava l’illegittimità del diniego del permesso premio, sul presupposto che non gli era mai stata contestata formalmente la sopramenzionata aggravante.

 

5. Veniamo ora all’esame della questione di costituzionalità prospettata nel secondo motivo di ricorso. La Cassazione, lo abbiamo già anticipato in avvio, con l’ordinanza in commento ritiene infatti rilevante e non manifestamente infondata, la questione di costituzionalità dell’art. 4 bis, comma 1 ord. pen., in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia a norma dell’art. 58 ter ord. pen., possa essere ammesso al godimento di un permesso premio di cui all’art. 30 ter ord. pen.

Se appare fin da subito evidente la rilevanza del quesito per il processo a quo, più articolato è invece il percorso argomentativo sviluppato dai giudici di legittimità per affermare la non manifesta infondatezza della questione. Come vedremo tra breve, l’ordinanza di rimessione sceglie di non sostenere la tesi della frontale incostituzionalità dell’intera disciplina dell’ergastolo ostativo di cui all’art. 4 bis, primo comma ord. pen., ma di intraprendere una strada diversa. L’oggetto della censura viene, infatti, ritagliato sul caso particolare del ricorrente, ovvero l’ipotesi del condannato all’ergastolo ostativo per delitti commessi al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dall’art. 416 bis c.p., che non abbia collaborato con la giustizia a norma dell’art. 58 ter ord. pen., e che, nonostante questo, richieda di essere ammesso al godimento di uno specifico beneficio penitenziario, quello del permesso premio.

 

6. L’ordinanza della Cassazione muove dal presupposto che l’art. 30 ter ord. pen. subordina la concessione del permesso premio alla condizione che il condannato all’ergastolo abbia scontato almeno dieci anni di reclusione, abbia tenuto in carcere una condotta regolare e non sia socialmente pericoloso. Senonché, per i soggetti che come il ricorrente sono stati condannati all’ergastolo per uno dei delitti di cui all’art. 4 bis ord. pen., non si può procedere a tale valutazione di pericolosità in concreto. Ad essa osta la disciplina dello stesso art. 4 bis che impedisce a costoro il godimento dei benefici penitenziari in mancanza di una condotta di collaborazione con la giustizia. A parere dei giudici di legittimità, quella di cui all’4 bis, co. 1 ord. pen. rappresenta allora una sorta di presunzione assoluta di pericolosità che si espone a dubbi di irragionevolezza, che sembrano suffragati da alcune recenti prese di posizione della Corte costituzionale.

A questo proposito, l’ordinanza in commento richiama due recenti sentenze nelle quali la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità di una disposizione del codice di procedura penale – l’art. 275, comma 3, secondo periodo – che, nel prevedere una presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere nei confronti degli indagati per i reati di criminalità organizzata, sottendeva anche qui un irragionevole giudizio di pericolosità presunta di tali soggetti. In particolare, nella prima pronuncia – sent. n. 57 del 2013[2] – è stata affermata l’incostituzionalità dell’art. 275, comma 3, secondo periodo c.p.p., nella parte «in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure». Nella seconda – sent. 48 del 2015[3] – è stata invece dichiarata incostituzionale la disciplina dell’art. 275, comma 3, secondo periodo c.p.p. nella parte «in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416 bis c.p., è applicata custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, rispetto al concorrente esterno nel suddetto delitto, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».

Nel pronunciarsi in merito alla presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per gli indagati nei reati di criminalità organizzata, e quindi in merito al giudizio di pericolosità presunta ad essa sotteso, le due citate sentenze mostrano di distinguere le diverse posizioni soggettive che possono emergere nell’ambito di un’indagine per delitti di criminalità organizzata. Al fine dell’applicazione delle misure cautelari, infatti, i soggetti indagati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo e i concorrenti esterni nel delitto di cui all’art. 416 bis c.p. non possono essere equiparati, quanto a pericolosità e quindi nei presupposti di applicazione delle misure, a coloro che invece sono sospettati di aver commesso un delitto – come quelli di cui agli artt. 416 bis e 416 ter c.p. – che implica necessariamente un vincolo di appartenenza ad una consorteria mafiosa.

A detta della Cassazione in questo contesto risulta, allora, problematico l’art. 4 bis, co. 1 ord. pen. che, in relazione alla concessione del permesso premio, ne preclude l’accesso in senso assoluto, a tutte le persone condannate per delitti ostativi che non hanno fornito una collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter ord. pen. Così facendo, non distinguendo cioè tra gli effettivi affiliati di un’organizzazione mafiosa e gli autori di delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dalla stessa norma, la disciplina dell’art. 4 bis ord. pen. si pone in contraddizione con i principi affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze sopramenzionate che, in senso opposto, hanno stabilito l’illegittimità delle presunzioni di pericolosità quando applicate, indiscriminatamente, anche alle condotte illecite che non presuppongono l’affiliazione ad un’associazione mafiosa.

 

7. Concluso questo affondo, l’ordinanza della Cassazione richiama quindi un secondo gruppo di sentenze costituzionali, aventi ad oggetto benefici penitenziari diversi rispetto al permesso premio, ma accomunate dal fatto di avere tutte ampliato il campo di applicazione di tali benefici, restringendo, correlativamente, il raggio d’azione della preclusione di cui all’art. 4 bis, co. 1 ord. pen.

Dapprima l’ordinanza in esame segnala la sentenza n. 239 del 2014[4] che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis ord. pen. nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47 quinquies ord. pen. e quella della detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter, comma 1, lett. a) e b) della medesima legge. Si tratta di due forme di detenzione domiciliare previste, a condizione dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti, a beneficio, rispettivamente, i) della madre con prole di età non superiore ad anni dieci, ii) della donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente, e iii) del padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole. Ebbene, con questa decisione, la Corte costituzionale ha censurato la scelta legislativa di accomunare nel regime detentivo prefigurato dall’art. 4 bis, co. 1 ord. pen. misure alternative tra loro eterogenee. La subordinazione dell’accesso ai benefici penitenziari ad un effettivo ravvedimento del condannato è giustificata solo quando si discuta di misure alternative che mirano alla rieducazione del condannato e non quando al centro della tutela si collochi un interesse esterno ed eterogeneo che, nei casi di queste forme speciali di detenzione domiciliare, è quello del minore.

Nello stesso filone si colloca la sentenza n. 76 del 2017[5] in cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 47 quinquies, co. 1 bis ord. pen., nella parte in cui espressamente impedisce alle madri di prole di età inferiore agli anni dieci, condannate per uno dei delitti di cui all’art. 4 bis, co. 1 ord. pen., di poter accedere a tale forma di detenzione domiciliare speciale. Anche in questo caso la Corte ha ribadito l’inammissibilità di presunzioni assolute che neghino l’accesso della madre alle modalità agevolate di espiazione della pena, impedendo al giudice di valutare in concreto la pericolosità sociale e facendo ricorso ad indici presuntivi che comportano il totale sacrificio dell’interesse del minore.

 

8. La Cassazione trae quindi spunto dai due gruppi di pronunce qui richiamate per sostenere la non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità sottopostale dal ricorrente che, lo ricordiamo, riguarda l’art. 4 bis, co. 1 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia a norma dell’art. 58 ter ord. pen., possa essere ammesso al godimento di un permesso premio di cui all’art. 30 ter ord. pen.

 

9. In primis i giudici di legittimità sostengono l’irragionevolezza ex art. 3 Cost., dell’art. 4 bis, co. 1 ord. pen. Nel affermare che tutti i condannati per le diverse ipotesi di reato ivi previste possono accedere ai benefici penitenziari solo quando sia presente una condotta di collaborazione con la giustizia ex art. 58 ter ord. pen., tale disposizione sottopone allo stesso trattamento ipotesi delittuose molto diverse tra loro. Così facendo, viene preclusa ad una categoria troppo ampia e diversificata di condannati il diritto di ricevere un trattamento penitenziario rivolto alla risocializzazione, senza che sia data al giudice la possibilità di verificare in concreto la presenza di una situazione di pericolosità sociale che effettivamente giustifichi l’inflizione di un percorso penitenziario non aperto alla realtà esterna. A questo proposito i giudici di legittimità sottolineano che, se la scelta di fornire un contributo collaborativo, rilevante ai sensi dell’art. 58 ter ord. pen., rappresenta sicuramente, per un detenuto appartenente ad una consorteria mafiosa, una manifestazione inequivocabile del suo definitivo distacco dal sodalizio in cui gravitava, tuttavia, non è sempre vero che tali condotte collaborative siano l’unico modo per dimostrare la cessazione di un rapporto con il gruppo criminale.

Ciò, a maggior ragione alla luce delle sentenze costituzionali n. 57 del 2013 e 48 del 2015, che nel pronunciarsi in merito alla presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per gli indagati nei reati di criminalità organizzata, e quindi in merito al giudizio di pericolosità presunta nei confronti di costoro ad essa sotteso, hanno distinto le diverse situazioni soggettive riscontrabili nell’ambito di un’indagine per delitti di criminalità organizzata, ritenendo che per alcune di esse non possano valere meccanismi di presunzioni assolute di pericolosità. Tra le situazioni che meritano un trattamento differenziato, nelle citate sentenze, compaiono proprio quelle dei soggetti indagati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, che non possono essere equiparati, quanto a pericolosità e quindi nei presupposti di applicazione delle misure cautelari, a coloro che invece sono sospettati di aver commesso un delitto – come quelli di cui agli artt. 416 bis e 416 ter c.p. – che implica necessariamente un vincolo effettivo di appartenenza ad una consorteria mafiosa. Alla luce di ciò, si espone allora a dubbi di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., l’art. 4 bis, co. 1 ord. pen. che, in senso contrario, equipara tutti i soggetti coinvolti in un’indagine di criminalità organizzata nella preclusione dal godimento delle misure alternative penitenziarie, se non nei casi di collaborazione di cui all’art. 58 ter ord. pen.

 

10. Il secondo profilo di incostituzionalità è argomentato invece a partire dalle peculiarità della misura del permesso premio di cui all’art. 30 ter ord. pen. Secondo i giudici di legittimità i permessi premio possiedono una connotazione di contingenza che non ne consente l’assimilazione integrale alle altre misure alternative alla detenzione. Si tratta, infatti, di un beneficio che trova «fondamento nella realizzazione di una finalità immediata, costituita dalla cura di interessi affettivi, culturali e di lavoro, che lo caratterizza come strumento di soddisfazione di esigenze anche molto limitate». Pertanto, anche secondo la giurisprudenza costante della Cassazione, la concessione di un permesso premio è legata a valutazioni diverse rispetto a quelle necessarie per il conferimento dell’affidamento in prova al servizio sociale e delle altre misure alternative[6].

Alla luce di ciò, l’ordinanza in esame sostiene che l’innalzamento della scelta collaborativa ex art. 58 ter ord. pen. a prova legale del ravvedimento e dell’assenza di pericolosità del detenuto, come avviene per le altre misure alternative, senza alcuna possibilità di apprezzamento in concreto della situazione dello stesso, non tiene conto della menzionata diversità strutturale del permesso premio e della sua natura contingente rispetto alle altre misure alternative alla detenzione, condizionando così negativamente il trattamento del detenuto in violazione del principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27 Cost.

Tale conclusione viene argomentata anche alla luce della recente sentenza n. 149/2018 della Corte costituzionale[7], resa in relazione alla diversa ipotesi di ergastolo prevista, dall’art. 58 quater, co. 4 ord. pen., nei confronti di condannati per i delitti di cui agli artt. 630 (Sequestro di persona a scopo di estorsione) e 289 bis c.p. (Sequestro di persona a scopo di terrorismo ed eversione), che abbiano cagionato la morte del sequestrato. In tale pronuncia la Consulta ha sancito che «per il condannato all'ergastolo che abbia raggiunto nell'espiazione della pena le soglie temporali stabilite dal legislatore e abbia dato prova di una partecipazione attiva al percorso rieducativo, eventuali, indiscriminate, preclusioni all'accesso ai benefici penitenziari possono legittimarsi sul piano costituzionale solo sulla base di una valutazione individualizzata del trattamento penitenziario, fondata su esigenze di prevenzione speciale concretamente riscontrate, non essendo possibile sacrificare la funzione rieducativa riconosciuta dall'art. 27, terzo comma, Costituzione sull'altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena».

Nel bilanciamento di interessi proposto dalla sentenza n. 149/2018, il sacrificio del fine rieducativo della pena può allora giustificarsi solo a fronte di esigenze di prevenzione speciale che siano, tuttavia, concretamente verificate sulla base di una valutazione individualizzata del percorso del detenuto. Ad oggi, invece, il combinato disposto degli artt. 4 bis co. 1 e 30 ter ord. pen. attraverso il meccanismo di preclusione previsto nella prima delle due disposizioni nei confronti dei condannati per i delitti ivi menzionati, impedisce la verifica in concreto della pericolosità di tali soggetti, sacrificando la funzione rieducativa della pena, ritenuta dalla Consulta preminente. E ciò avviene, nondimeno, anche ai fini della concessione del permesso premio ex art. 30 ter ord. pen.; una misura quest’ultima che, a parere della giurisprudenza sopra richiamata, si caratterizza per una struttura e per finalità differenti rispetto a quelle degli altri benefici penitenziari.

Con l’ordinanza di rimessione in esame allora la Cassazione sembra chiedere alla Corte costituzionale di valorizzare questa diversità: nell’ottica di disinnescare almeno parzialmente il meccanismo di preclusione all’accesso dei benefici di cui all’art. 4 bis, co. 1 ord. pen. Parzialmente perché – lo abbiamo precisato sin dall’inizio – il quesito rimesso alla Consulta riguarda solo i condannati all’ergastolo ostativo per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che richiedono la concessione di un permesso premio nonostante la mancanza di una condotta di collaborazione con la giustizia di cui all’art. 58 ter ord. pen.

 


[1] Cfr. la giurisprudenza richiamata dall’ordinanza qui annotata: Cass. pen., Sez. I, 13 giugno 2016, n. 44168, ric. De Lucia e Cass. pen., Sez. I, 21 febbraio 2017, n. 6065, ric. Ventura.

[2] Corte cost., sent. 25 marzo 2013, n. 57.

[3] Corte cost., sent. 25 febbraio 2015, n. 48.

[4] Corte cost., sent. 22 ottobre 2014, n. 239.

[5] Corte cost., sent. 8 marzo 2017, n. 76.

[6] Cfr. le sentenze richiamata nell’ordinanza in commento: Cass. pen., Sez. I, 25 novembre 1993, n. 5126, Rizzi; Cass. pen., Sez. I, 4 giugno 1991, n. 2609, Musu.

[7] Cfr. per un primo commento E. Dolcini, Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e rieducazione del condannato), in questa Rivista, fasc. 7-8/2018, p. 145 ss.