ISSN 2039-1676


18 aprile 2013 |

Monitoraggio Corte EDU gennaio 2013

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte EDU rilevanti in materia penale sostanziale e processuale

A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.

Prosegue, rinnovato, il monitoraggio mensile delle più importanti sentenze e decisioni della Corte EDU. A partire dal mese di gennaio 2013 il monitoraggio abbraccia infatti, oltre alle sentenze che interferiscono con il diritto penale sostanziale, anche quelle rilevanti per il diritto penale processuale. All'introduzione - contenente la presentazione ragionata dei casi di maggior interesse decisi dalla Corte nel periodo di riferimento -  segue la sintesi delle pronunce più rilevanti, presentate in ordine cronologico.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Andrea Giliberto, Marika Piazza e Gloria Segala. L'introduzione è a firma di Marta Pelazza per quanto riguarda gli art. 2, 3, 7, 9 e 10 Cedu, mentre si deve a Gloria Segala la parte relativa agli art. 5, 6, 8 Cedu e 4 Prot. n. 7 Cedu.

 

 

SOMMARIO

 

1. Introduzione

a) Art. 2 Cedu

b) Art. 3 Cedu

c) Art. 5 Cedu

d) Art. 6 Cedu

e) Art. 7 Cedu

f) Art. 8 Cedu

g) Art. 9 Cedu

h) Art. 10 Cedu

i) Art. 4 Prot. n. 7 Cedu

2. Sintesi dei provvedimenti più significativi

 

* * *

 

1. Introduzione

a) Art. 2 Cedu

Nel mese di gennaio, in tema di art. 2 Cedu, troviamo solamente tre pronunce. Tra queste, presenta maggiori profili di interesse la sent. 17 gennaio 2013, Mosendz c. Ucraina (per una sintesi, v. infra), riguardante il caso di un ragazzo, sottoposto a maltrattamenti da parte dei suoi superiori gerarchici, suicidatosi durante lo svolgimento del servizio militare obbligatorio. In questa sentenza la Corte riconferma la sussistenza degli obblighi positivi di tutela gravanti sullo Stato ex art. 2 Cedu, in base ai quali esso è tenuto a tutelare la vita degli individui sottoposti alla sua giurisdizione, predisponendo a tal fine idonee misure legislative ed amministrative, e accerta, inoltre, una violazione procedurale dello stesso articolo.

Gli obblighi positivi di tutela vengono in rilievo anche nella sent. 22 gennaio 2013, Mitić c. Serbia (riguardante il caso di un giovane suicidatosi in carcere mentre si trovava in regime di isolamento); in questa pronuncia la Corte esclude la violazione dell'art. 2 Cedu, non ritenendo che le autorità penitenziarie debbano considerarsi responsabili per la mancata prevenzione del suicidio, considerato imprevedibile.

La sent. 17 gennaio 2013, Slyusar c. Ucraina, infine, accerta una violazione solo procedurale dell'art. 2 Cedu, in relazione all'inadeguatezza delle indagini svolte sulla scomparsa e la morte di un cittadino ucraino.

 

b) Art. 3 Cedu

In tema di art. 3 Cedu e sovraffollamento carcerario segnaliamo in primo luogo l'importante sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, già presentata in questa Rivista con una nota di F. Viganò e oggetto di numerosi ulteriori contributi. Come noto, nella sentenza Torreggiani la Corte ha riconosciuto l'inesistenza nel nostro ordinamento di strumenti di tutela effettiva idonei a porre rimedio a situazioni di detenzione "inumane o degradanti" (per approfondimenti sul punto, si v. il già citato contributo di F. Viganò), e ha accertato la sistematica violazione, da parte del nostro Paese, dell'art. 3 Cedu. Preso atto della disastrosa situazione in cui si trovano i detenuti nelle carceri italiane, cronicamente sovraffollate (e spesso mancanti di idonee condizioni di detenzione anche sotto profili ulteriori, quali l'accesso alla luce naturale e all'acqua calda), la Corte ha imposto all'Italia, ex art. 46 Cedu, di porre fine alla violazione attraverso misure di carattere generale. Queste misure dovranno essere elaborate dallo Stato e adottate entro il temine di un anno (in particolare, la Corte ha invitato l'Italia a ridurre il ricorso alla carcerazione preventiva, ad incentivare l'utilizzo di misure alternative alla detenzione in carcere, e ad istituire strumenti di ricorso effettivi). Sull'adempimento vigilerà, ex art. 46 comma 2 Cedu, il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa.

Per quanto riguarda il settore carcerario, nel mese di gennaio l'Italia ha ricevuto un'ulteriore condanna: si tratta della sent. 29 gennaio 2013, Cirillo c. Italia (per una sintesi, v. infra), in cui è stata riconosciuta natura di "trattamento inumano o degradante" alle insufficienti cure mediche fornite ad un detenuto (ristretto nel carcere di Reggio Calabria e, successivamente, di Foggia) bisognoso di particolari terapie.

Si conferma del resto anche nei confronti di altri Paesi la nutrita schiera di sentenze riguardanti le condizioni carcerarie. Mentre le sent. 8 gennaio 2013, Retunscaia c. Romania, Jashi c. Georgia, e Reshetnyak c. Russia, 15 gennaio 2013, Mitrofan c. Moldavia (per una sintesi, v. infra; in questo §, lettera d), sono altresì esposti i profili del provvedimento relativi all'art. 6 Cedu) e Velichko c. Russia, nonchè 29 gennaio 2013, Catană c. Romania, costituiscono casi "classici", in cui la violazione dell'art. 3 Cedu deriva principalmente dalla mancanza di spazio vitale a disposizione di ciascun detenuto e di accesso a fonti di luce naturale, la scarsa areazione e pulizia o l'inadeguatezza delle cure mediche, due pronunce - le sent. 17 gennaio 2013, Sizarev c. Ucraina e Karabet e altri c. Ucraina (per una sintesi, v. infra) - presentano profili di specificità.

La prima, infatti, vede la condanna dell'Ucraina per le violenze e le umiliazioni perpetrate direttamente da agenti dello Stato - agenti di polizia penitenziaria - nei confronti di detenuti che avevano posto in essere uno sciopero della fame per denunciare le drammatiche condizioni di detenzione. Tali violenze sono state riconosciute dalla Corte come gravi e "gratuite", poste in essere al solo scopo di "fermare il movimento di protesta, punire i prigionieri per il loro pacifico sciopero della fame e stroncare sul nascere ogni intenzione di sporgere denuncia". Di particolare rilevanza la precisazione effettuata dalla Corte circa la natura delle violenze in questione: richiamando l'art. 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, l'azione delle forze dell'ordine deve inquadrarsi a pieno titolo nel concetto di tortura, del quale la Corte sottolinea l'autonomia concettuale e lo "speciale stigma" ad esso attribuito dalla Convenzione europea (nel caso di specie, inoltre, la Corte ha riscontrato una violazione dell'art. 1 prot. add. Cedu perché i detenuti, trasferiti precipitosamente in altri penitenziari, non avevano potuto portare con sé i propri effetti personali).

In Sizarev c. Ucraina, invece, la condanna riguarda non solo le condizioni di sovraffollamento del carcere ove il ricorrente era detenuto, ma anche la violazione degli obblighi positivi di tutela gravanti sullo Stato ex art. 3 Cedu, da cui discende l'obbligo per lo Stato di tutelare, in particolare, l'incolumità di soggetti "vulnerabili" quali i detenuti (il ricorrente aveva subito un pestaggio da parte dei compagni di cella, dai quali avrebbe dovuto essere tenuto separato a tutela della sua incolumità, data la sua  posizione di ex impiegato presso il Tribunale locale).

Nel mese di gennaio vi sono state, altresì, numerose sentenze riguardanti violazioni di natura diversa dell'art. 3 Cedu. Rimanendo in tema di condizioni carcerarie segnaliamo, in primo luogo, la sent. 10 gennaio 2013, Claes c. Belgio (per una sintesi, v. infra; in questo §, lettera c), sono altresì esposti i profili del provvedimento relativi all'art. 5 Cedu), in cui la Corte ha accolto il ricorso di un soggetto che lamentava l'inadeguatezza della sezione psichiatrica di una struttura penitenziaria - in cui si trovava internato in esecuzione di una misura di sicurezza psichiatrica - per la cura della propria patologia, che avrebbe reso necessario il trattamento presso strutture terapeutiche esterne. L'internamento in oggetto è stato riconosciuto integrare un trattamento degradante ai sensi della Convenzione.

In tema di presunte violenze da parte di agenti statali troviamo, invece, la sent. 22 gennaio, Suleymanov c. Russia. Il caso riguarda un ragazzo, picchiato e sequestrato da soggetti armati - secondo il ricorrente appartenenti alle forze dell'ordine - e detenuto per circa tre mesi in una struttura non identificata. La Corte, tuttavia, non disponendo di prove sufficienti per attribuire il fatto ad agenti delle forze dell'ordine, ha escluso la violazione dell'art. 3 Cedu sotto il profilo sostanziale; come frequentemente accade in casi di questo genere, ne ha però riconosciuto la violazione sotto il profilo procedurale, per l'inadeguatezza delle indagini svolte dalle autorità.

La sent. 29 gennaio 2013, S.H.H. c. Regno Unito riguarda il rimpatrio di stranieri richiedenti asilo, ed in particolare la compatibilità con l'art. 3 Cedu del rimpatrio di un cittadino afghano disabile, richiedente asilo nel Regno Unito. La Corte, con il voto contrario di tre giudici, ha respinto il ricorso, ritenendo non superata la soglia minima di gravità necessaria per integrare la violazione.

Va segnalata, infine, una decisione in tema di art. 3 Cedu: si tratta della dec. 8 gennaio 2013, Willcox e Hurford c. Regno Unito (per una sintesi, v. infra). I ricorrenti, detenuti nel Regno Unito in seguito al loro trasferimento dalla Thailandia - Paese nel quale erano stati condannati per traffico di stupefacenti a pene molto elevate - ritenevano che l'esecuzione "integrale" della pena, notevolmente più elevata di quella cui sarebbero stati condannati se giudicati nel Regno Unito, costituisse violazione dell'art. 3 Cedu. La Corte ha dichiarato i ricorsi manifestamente infondati e, dunque, inammissibili: pur ammettendo che una condanna notevolmente sproporzionata possa, in casi eccezionali, integrare una violazione dell'art. 3, i giudici hanno ritenuto in questo caso non raggiunta la soglia minima di gravità necessaria. La Corte, sottolineando la necessità di interpretare le garanzie convenzionali in maniera da renderle "pratiche ed effettive" e non invece "teoriche ed illusorie", ha evidenziato come l'eventuale accoglimento di simili ricorsi avrebbe un effetto paradossale: quello di "bloccare", per il futuro, il trasferimento verso Stati membri di individui detenuti in condizioni degradanti in Paesi terzi. Questi, ove si affermasse una simile giurisprudenza, con tutta probabilità tenderebbero infatti a negare i trasferimenti, privando così i detenuti della possibilità di scontare la pena in Paesi dotati di un sistema carcerario più rispettoso dei diritti umani.

 

c) Art. 5 Cedu

Tra le pronunce della Corte europea del mese di gennaio, con riferimento all'art. 5 Cedu, si segnala la sent. 10 gennaio 2013, Claes c. Belgio (per una sintesi, v. infra), in cui la Corte europea ha accertato la violazione dell'art. 5 comma 1 lett. e Cedu in ordine al "ricovero" di un cittadino belga - malato di mente e, quindi, giudicato incapace di intendere e di volere in ordine ad alcuni reati a sfondo sessuale - presso il reparto psichiatrico di un penitenziario in quanto socialmente pericoloso. La Corte, ritenendo del tutto inadeguate le strutture carcerarie per l'internamento di malati psichiatrici, ha sollecitato le autorità dello Stato ad intervenire in merito.

Analoghe sono la sent. 10 gennaio 2013, Dufoort c. Belgio e la sent. 10 gennaio 2013, Swennen c. Belgio.

Significativa è, inoltre, la sent. 15 gennaio 2013, Velichko c. Russia, riguardante un caso in cui il ricorrente, sottoposto a custodia cautelare, viene scarcerato dietro pagamento di cauzione. Tuttavia, a seguito di impugnazione da parte del procuratore, egli viene nuovamente sottoposto a detenzione provvisoria. Con riferimento a tale secondo periodo di privazione della libertà, la Corte europea ne accerta l'illegittimità riscontrando la violazione dell'art. 5 comma 1 Cedu. La Corte rileva, inoltre, l'irragionevole durata di tale secondo periodo di detenzione, protrattosi per oltre due anni, ai sensi dell'art. 5 comma 3 Cedu.

Riveste, altresì, profili di interesse la sent. 29 gennaio 2013, Catană c. Romania, in tema di parità delle armi nel procedimento cautelare. Qui, la Corte europea ribadisce l'orientamento costante in ordine all'applicazione dell'equo processo anche in sede cautelare.   

Da ultimo, si rileva la sent. 29 gennaio 2013, SüleymanoÄŸlu c. Turchia; in essa la Corte europea riscontra una violazione del diritto, riconosciuto ad ogni persona arrestata o detenuta, alla tempestiva traduzione davanti all'autorità giudiziaria. Nel caso di specie, la detenzione del ricorrente, senza che il medesimo fosse tradotto davanti all'autorità giudiziaria, era durata per un periodo eccezionalmente lungo di tre mesi. I giudici di Strasburgo accertano, inoltre, la violazione del diritto al controllo giurisdizionale sulla legalità della detenzione, ai sensi dell'art. 5 comma 4 Cedu.

 

d) Art. 6 Cedu

Per quanto concerne l'art. 6 Cedu, si segnala, in primo luogo, la sent. 8 gennaio 2013, Baltiņš c. Lettonia (per una sintesi, v. infra), con riferimento alla legittimità di un'operazione investigativa condotta da un agente sotto copertura. La Corte europea riscontra la violazione dell'equità processuale in quanto il ricorrente, indotto dall'agente infiltrato a commettere il reato di acquisito e spaccio di sostanze stupefacenti, è stato condannato sulla base di prove ottenute mediate provocazione.        

Nel mese di gennaio la Corte europea è stata, inoltre, chiamata ad affrontare la tematica concernente la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali emessi nell'ambito di un processo con giuria. A tal riguardo si segnala, dapprima, la sent. 10 gennaio 2013, Agnelet c. Francia (per una sintesi, v. infra), in cui il ricorrente lamenta l'omessa motivazione della sentenza di colpevolezza emessa dalla giuria, per la prima volta, in sede d'appello. Nella sentenza in parola i giudici europei hanno ribadito che la mancanza di motivazione di una sentenza che dichiara la colpevolezza di un imputato nell'ambito di un processo con giuria non è di per sé contraria all'art. 6 Cedu, purché l'imputato abbia beneficiato, nel corso del procedimento, di garanzie sufficienti tali da permettergli di comprendere il verdetto di colpevolezza. Nel caso di specie, la Corte europea ravvisa la violazione dell'equità processuale, non avendo il ricorrente beneficiato di tali garanzie.    

Di identico tenore sono la sent. 10 gennaio 2013, Fraumens c. Francia e la sent. 10 gennaio 2013 Oulahcene c. Francia.

Diversamente, nella sent. 10 gennaio 2013, Legillon c. Francia (per una sintesi, v. infra) e nella sent. 10 gennaio 2013, Voica c. Francia, i giudici di Strasburgo hanno escluso la violazione dell'equità processuale avendo i ricorrenti beneficiato di garanzie sufficienti a comprendere il verdetto di colpevolezza emesso dalla giuria.

Si precisa che, in tutti i precedenti provvedimenti citati contro lo Stato francese, la Corte prende atto della modifica legislativa del codice di procedura penale per cui, a partire dal 1° gennaio 2012, tutti i provvedimenti emessi nell'ambito di un processo con giuria debbono essere motivati.  

Con riferimento all'art. 6 Cedu, rilevante è la sent. 15 gennaio 2013, Mitrofan c. Moldavia (per una sintesi, v. infra). In essa la Corte europea accerta la violazione dell'equità processuale per omessa motivazione delle sentenze delle corti territoriali. Quest'ultime non avrebbero, infatti, fornito una spiegazione chiara e puntuale in merito al mancato accoglimento dei motivi addotti dal ricorrente in sede di impugnazione.

Da ultimo si segnala la sent. 29 gennaio 2013, Borobar e altri c. Romania, in tema di durata del procedimento. Dopo aver verificato la ragionevolezza o meno del procedimento penale in cui il ricorrente si è costituito parte civile - alla luce dei parametri quali la complessità della causa, il comportamento dell'imputato e dell'autorità procedente - la Corte europea ravvisa la violazione dell'equità processuale. Il lasso temporale preso in considerazione è di otto anni per tre gradi di giudizio, dalla costituzione di parte civile.

 

e) Art. 7 Cedu

Si segnala, questo mese, anche una pronuncia in tema di art. 7 Cedu, la sent. 22 gennaio 2013, Camilleri c. Malta (per una sintesi, v. infra). In essa la Corte ha riscontrato una violazione della Convenzione per l'imprevedibilità del quantum di pena applicabile per la commissione di un reato (nel caso di specie, detenzione di stupefacenti). I giudici hanno infatti condannato Malta poiché, per il reato in questione, la normativa lascia alla discrezionalità del pubblico ministero la scelta circa l'organo giudiziario di fronte al quale l'imputato dovrà essere processato: scelta da cui discendono rilevanti conseguenze in merito alla durata della pena applicabile (il limite massimo di pena va da dieci anni di reclusione all'ergastolo a seconda che a giudicare l'imputato sia la "Criminal Court" o la "Court of Magistrates").

 

f) Art. 8 Cedu

Con riferimento all'art. 8 Cedu si segnala la sent. 15 gennaio 2013, Csoma c. Romania (in questa Rivista, con nota di G. Segala, Mancanza di consenso informato in un intervento di interruzione volontaria della gravidanza: violato l'art. 8 Cedu, 12 marzo 2013), in tema di responsabilità medica. Si tratta di un intervento di interruzione volontaria della gravidanza da cui è derivata la perdita della capacità di procreare. La violazione della Convenzione riguarda, essenzialmente, la mancanza di consenso informato circa i rischi connessi a tale intervento, nonché la mancata predisposizione, da parte dello Stato rumeno, di rimedi sanzionatori effettivi.

 

g) Art. 9 Cedu

In gennaio la Corte si è occupata altresì di art. 9 Cedu, nella sent. 8 gennaio 2013, Dimitras e altri c. Grecia, in cui viene fatta applicazione di consolidati principi in tema di libertà religiosa (il caso oggetto di giudizio riguardava l'obbligo di dichiarare la propria fede religiosa imposto ai ricorrenti nel corso di vari procedimenti giudiziari).

 

h) Art. 10 Cedu

In tema di art. 10 Cedu sono state pronunciate le sent. 8 gennaio 2013, Bucur e Toma c. Romania (per una sintesi, v. infra), 22 gennaio 2013, Åžükran Aydin e altri c. Turchia, e 29 gennaio 2013, GüdenoÄŸlu e altri c. Turchia.

Nella prima, la Corte ha accertato l'illegittima ingerenza statale nel diritto dei singoli a "comunicare informazioni", tutelato dall'art. 10 Cedu. Il caso riguarda un agente dei servizi segreti romeni che, nel corso di una conferenza stampa, aveva denunciato irregolarità nell'effettuazione di intercettazioni da parte dei servizi, dichiarando che queste, mentre avrebbero dovuto essere svolte per motivi di sicurezza nazionale, venivano di fatto disposte per controllare giornalisti e uomini politici, a beneficio dei partiti di maggioranza, portando avanti di fatto un'attività di "polizia politica". Condannato a due anni di reclusione (con pena sospesa), ricorre alla Corte la quale, riscontrata la buona fede del ricorrente, l'interesse pubblico alla conoscenza delle informazioni divulgate e la mancanza di un danno rilevante per i servizi segreti, ha dichiarato violato l'art. 10 Cedu.

Nel caso Åžükran Aydin e altri c. Turchia, invece, ricorrenti sono alcuni candidati alle elezioni turche, condannati per aver parlato in lingua curda durante i loro comizi. La Corte, sottolineando che sia i ricorrenti sia le persone cui questi si rivolgevano erano madrelingua curdi, ha rilevato come l'uso di tale lingua fosse necessario per garantire la libera circolazione di opinioni politiche, presupposto a sua volta indefettibile per la sussistenza di libere elezioni,  dichiarando  dunque violato l'art. 10 Cedu.

Da ultimo, la sent. GüdenoÄŸlu e altri c. Turchia vede la condanna della Turchia per aver disposto la sospensione delle pubblicazioni - per periodi da quindici giorni a un mese - nei confronti di alcune testate giornalistiche accusate di aver fatto propaganda a favore di organizzazioni illegali: misura di natura "censoria", non necessaria in una società democratica.

 

i) Art. 4 Prot. n. 7 Cedu

In tema di ne bis in idem, ai sensi dell'art. 4 Prot. n. 7 Cedu, assume rilevanza la dec. 8 gennaio 2013, Acampora c. Italia, in cui la Corte europea dichiara irricevibile, perché manifestamente infondata, la doglianza: nella motivazione i giudici di Strasburgo ritengono che il ricorrente sia stato giudicato e condannato per due episodi di corruzione separati. Alla base dei reati ascritti al ricorrente non vi erano, precisa la Corte, fatti identici o sostanzialmente uguali, bensì illeciti diversi.

 

***

 

2. Sintesi dei provvedimenti più significativi

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 8 gennaio 2013, Bucur e Toma c. Romania

Il primo ricorrente, cittadino romeno, al tempo dei fatti era militare in forze ai servizi segreti romeni (SRI) con compiti di effettuazione e controllo delle intercettazioni telefoniche in materia di sicurezza nazionale; il secondo e la terza ricorrente sono rispettivamente un giornalista romeno intercettato dal SRI e la figlia minore, anch'essa intercettata.

Il primo ricorrente, dopo aver segnalato ai superiori gerarchici e alla commissione parlamentare di controllo la sussistenza di numerose gravi irregolarità nell'effettuazione delle intercettazioni (assenza di autorizzazioni; assenza di presupposti; non corrispondenza fra utenze intercettate e loro reali titolari), ha convocato apposita conferenza stampa per denunciare, insieme con un parlamentare membro della commissione di controllo, tali irregolarità pubblicando una decina di audiocassette contenenti intercettazioni irregolari, fra cui quelle del secondo e della terza ricorrente. Condannato in via definitiva per tali fatti, lamenta la violazione dell'art. 10 Cedu nonché, con riferimento alle limitazioni probatorie subite nel processo, la violazione degli art. 6 e 13 Cedu. La Corte, diffusamente richiamati i propri precedenti in materia di protezione della libertà di espressione dei pubblici funzionari nonché diverse risoluzioni e rapporti internazionali, accerta la violazione dell'art. 10 Cedu osservando come nel caso di specie il rilevante interesse pubblico alla conoscenza delle violazioni non potesse essere soddisfatto in alcun altro modo, che il ricorrente era in buona fede nel farlo e che non è dato rilevare danni di particolare rilievo in capo al SRI. Quanto alle limitazioni probatorie, la Corte osserva che le giurisdizioni interne non hanno mai esaminato i fascicoli contenenti le autorizzazioni all'intercettazione, mentre avrebbero dovuto farlo per appurare se ne sussistessero i presupposti al fine di accertare la veridicità delle tesi del ricorrente. La Corte accerta pertanto la violazione dell'art. 6 Cedu, nella quale ritiene assorbita la doglianza inerente l'art. 13 Cedu.

Quanto agli altri due ricorrenti, essi lamentano la violazione della loro vita privata per tramite di intercettazioni illegali, nonché l'impossibilità di ottenerne la distruzione in quanto irrilevanti. Rigettate per tardività talune delle istanze, la Corte, richiamandosi a propri precedenti in materia, ribadisce che la legge romena in materia di dati personali non fornisce sufficienti garanzie rispetto alla non conservazione dei dati oltre i termini di legge e che non vi sono idonei rimedi giurisdizionali al riguardo. La Corte dichiara pertanto la violazione, rispettivamente, degli art. 8 e 13 Cedu. (Andrea Giliberto)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 8 gennaio 2013, Baltiņš c. Lettonia 

In data 1° dicembre 2004, a seguito di un'operazione investigativa condotta da un agente sotto copertura, il ricorrente viene arrestato e sottoposto a procedimento penale per acquisto, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti; viene, quindi, condannato in primo grado sulla base delle prove ottenute nell'ambito di detta investigazione. Di qui, il ricorrente presenta appello lamentando di essere stato incitato dall'agente infiltrato a commettere il reato e, quindi, condannato sulla base di prove ottenute a seguito di una provocazione. Secondo il ricorrente, infatti, l'agente non avrebbe tenuto un atteggiamento meramente passivo, avendolo indotto alla commissione del reato per cui è stato condannato: sarebbe stato, infatti, l'agente a contattarlo più volte insistendo nel voler acquistare la droga e, offrendogli un sostanziale incentivo monetario nel caso gli avesse procurato un maggior quantitativo di sostanza stupefacente. Il motivo addotto dal ricorrente viene, tuttavia, rigettato sia in secondo grado che in Cassazione.

Il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu per il fatto di essere stato incitato dall'agente sotto copertura a commettere il reato, e, pertanto, condannato sulla base di prove ottenute mediante provocazione. La Corte europea ricorda che l'intervento di agenti infiltrati può essere tollerato nella misura in cui sia chiaramente circoscritto e circondato da garanzie, e non sia diretto alla provocazione del soggetto alla commissione del reato; si ha provocazione - precisa la Corte - allorché gli agenti non si limitino a osservare in maniera puramente passiva l'attività criminosa, ma esercitino un'influenza determinante sui soggetti con i quali entrano in contatto, tale da tradursi in un'istigazione di questi ultimi alla commissione di un reato che altrimenti non avrebbero commesso: siffatto atteggiamento è suscettibile di privare ab initio l'accusato di un processo equo.

Nel caso di specie, i giudici di Strasburgo sollevano dubbi in ordine all'atteggiamento tenuto dall'agente infiltrato: quest'ultimo, infatti, avrebbe indotto il ricorrente a commettere il reato, offrendogli un sostanziale incentivo monetario nel caso gli avesse procurato più droga. Alla luce di tali considerazioni, nutrendo perplessità sul comportamento squisitamente passivo dell'agente, la Corte europea deve procedere a verificare se i tribunali nazionali, nell'accertare la colpevolezza del ricorrente, hanno tenuto conto di tale, non improbabile, provocazione; l'interesse pubblico non potrebbe infatti giustificare l'utilizzazione di elementi probatori ottenuti a seguito di una provocazione da parte degli agenti. A tal riguardo, la Corte europea - avendo rilevato che i tribunali nazionali si sono limitati a verificare la legittimità di tali operazioni (verificando, quindi, la sussistenza di un provvedimento autorizzativo dell'autorità), senza adeguatamente affrontare la questione della provocazione - ritiene violato l'art. 6 comma 1 Cedu. (Gloria Segala)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, dec. 8 gennaio 2013, Willcox e Hurford c. Regno Unito

I due ricorrenti, cittadini britannici, sono accomunati dall'essere stati condannati per possesso di stupefacenti a fini di cessione in Thailandia alla pena dell'ergastolo, ridotta a rispettivamente 33 anni e 4 mesi e 26 anni e otto mesi per essersi entrambi dichiarati colpevoli. Trasferiti nel Regno Unito tramite convenzione bilaterale tra i due Paesi, hanno impugnato - senza successo - le condanne ritenendole da un lato gravemente sproporzionate rispetto agli standard britannici per quel tipo di reato e dall'altro illegittime per essere state fondate su una presunzione assoluta di uso non personale legata alle quantità possedute.

La Corte, investita sotto il profilo degli art. 3 e 5 comma 1 Cedu, dichiara entrambi i ricorsi inammissibili. Dal punto di vista dell'art. 3 Cedu, la Corte osserva che la Convenzione non può essere interpretata nel senso di imporre agli Stati l'obbligo di esigerne il rispetto anche da parte di Stati terzi (in questo caso le Thailandia), che la "grave sproporzione" deve essere valutata in senso assoluto e restrittivo e che l'accoglimento della tesi dei ricorrenti implicherebbe l'inadempimento degli accordi di trasferimento prigionieri minando così la garanzia che questi assicurano al rispetto dei diritti umani degli stessi detenuti. Quanto all'art. 5 comma 1 Cedu, la Corte precisa che la detenzione discendente da condanna inflitta da Paese terzo può dirsi illegittima solo qualora contrasti apertamente e gravemente con i principi fondamentali del giusto processo, ciò che non è accaduto in maniera così evidente nel caso di specie. (Andrea Giliberto)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 10 gennaio 2013, Agnelet c. Francia

Nell'ottobre del 1977, una donna di ventinove anni scompare in circostanze del tutto sconosciute. Nonostante il mancato ritrovamento del corpo della ragazza, il ricorrente è accusato di omicidio e sottoposto a custodia cautelare.

A distanza di due anni dall'apertura del procedimento, il cadavere non è ancora ritrovato; il giudice per le indagini preliminari, su richiesta del pubblico ministero, emette così provvedimento di archiviazione. Successivamente, tuttavia, a seguito della sopravvenienza di nuovi elementi probatori - e, in particolare, delle dichiarazioni della moglie del ricorrente che fa cadere l'alibi del marito - il giudice autorizza, con decreto motivato, la riapertura delle indagini nei confronti del ricorrente; il capo d'imputazione diviene omicidio ed occultamento di cadavere.

Mentre il giudizio di primo grado, svoltosi dinanzi alla corte d'assise (processo con giuria), si è concluso con l'assoluzione del ricorrente, in appello quest'ultimo viene condannato a vent'anni di reclusione. Di qui, il ricorrente presenta ricorso per cassazione per omessa motivazione della sentenza della corte d'assise d'appello. Il giudice di legittimità rigetta, tuttavia, il ricorso.

Il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, a causa dell'assenza di motivazione della sentenza di condanna emessa, per la prima volta, in appello nell'ambito di un processo con giuria. Il ricorrente ritiene, infatti, che il verdetto immotivato gli abbia impedito di conoscere le ragioni della condanna. La Corte europea ricorda che il rispetto dell'equità processuale non implica che la giuria debba enunciare le ragioni del proprio convincimento né che il ricorrente non possa essere giudicato da tale organo qualora la legge nazionale preveda il verdetto immotivato. Tuttavia, per evitare rischi di arbitrio e per assicurare all'imputato la necessaria conoscenza delle ragioni che giustificano la condanna, occorre che il giudizio con giuria riposi su alcuni requisiti: ad esempio, il presidente deve illustrare alla giuria i criteri alla luce dei quali questa è chiamata a valutare i vari oggetti specifici della decisione e deve porre alla giuria questioni precise e dettagliate, capaci di costituire una stringente "griglia" decisoria sulla quale essa fondi la decisione. Nel caso di specie, la Corte europea nota che solo due questioni erano state poste alla giuria: la prima in ordine alla volontarietà o meno di commettere l'omicidio, la seconda sull'eventuale premeditazione. Data la complessità del caso di specie, tali questioni sono considerate dalla Corte europea non circostanziate e laconiche, insufficienti a far comprendere al ricorrente le ragioni del verdetto di colpevolezza pronunciato nei suoi confronti. Di qui, la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu. (Gloria Segala)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 10 gennaio 2013, Claes c. Belgio

Il ricorrente, accusato di diversi reati a sfondo sessuale, viene sottoposto a perizia psichiatrica, all'esito della quale gli viene diagnosticato un ritardo mentale. Giudicato incapace di intendere e di volere, viene, tuttavia, "ricoverato" in apposita sezione psichiatrica di un penitenziario in quanto ritenuto socialmente pericoloso.

Il ricorrente lamenta, anzitutto, la violazione dell'art. 3 Cedu in ordine all'assenza, all'interno del penitenziario, di una terapia medica adeguata al suo stato di salute. Sotto questo profilo il ricorso è fondato. Il ricorrente lamenta, inoltre, la violazione dell'art. 5 comma 1 lett. e Cedu, relativamente all'inadeguatezza della struttura carceraria per l'internamento di un malato psichiatrico. La Corte europea accerta la violazione dell'articolo suddetto: ritiene, infatti, insufficienti i mezzi di cura forniti al ricorrente, dovuti proprio all'inidoneità della struttura carceraria. Di qui, sollecita lo Stato a predisporre strutture adeguate al fine di garantire trattamenti individuali consoni allo stato di salute dei soggetti malati di mente. (Gloria Segala)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 10 gennaio 2013, Legillon c. Francia

Il ricorrente, un cittadino francese, viene condannato per maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale su minori: la sentenza è stata emanata nell'ambito di un processo con giuria.

A fronte dell'omessa motivazione della sentenza, il ricorrente impugna il verdetto di colpevolezza. Il ricorso viene, tuttavia, rigettato sia in appello che in Cassazione.

Il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, a causa dell'omessa violazione del verdetto di colpevolezza emesso dalla giuria. Dopo aver ricordato i propri principi in materia, la Corte europea conclude ritenendo non violata l'equità processuale, in quanto il ricorrente ha beneficiato di garanzie sufficienti al fine di comprendere il verdetto di colpevolezza. Il riferimento è, in particolare, alla precisione delle questioni poste alla giuria e alle relative risposte. (Gloria Segala)

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 15 gennaio 2013, Mitrofan c. Moldavia

Il ricorrente, direttore di una scuola privata, viene arrestato e sottoposto a custodia cautelare per aver indebitamente ricevuto denaro da due studenti come corrispettivo della loro ammissione al corso di studi. Condannato in primo grado per negligenza nello svolgere i compiti di pubblico ufficiale, il ricorrente presenta appello e, successivamente, ricorso per cassazione lamentando l'inapplicabilità della previsione normativa al caso di specie per mancanza degli elementi costitutivi del reato: in primo luogo, infatti, secondo il ricorrente non risultavano integrate le soglie di punibilità richieste dalla fattispecie e, in secondo luogo, egli non poteva essere equiparato a un pubblico ufficiale, essendo direttore di un istituto privato.

L'appello e il ricorso per cassazione sono stati, tuttavia, rigettati senza che sia stata fornita una risposta specifica in merito al mancato accoglimento della doglianza.   

Il ricorrente lamenta, anzitutto, la violazione dell'art. 3 Cedu, con riferimento alle condizioni della detenzione, nonché dell'art. 13 Cedu in combinato disposto con l'art. 3 Cedu. Il ricorso è fondato. La Corte europea ritiene, infatti, che il trattamento patito dal ricorrente raggiunga una soglia tale da ritenere integrata la violazione della previsione in parola. Ritiene inoltre violato l'art. 13 Cedu per la mancanza di un rimedio interno effettivo in ordine alle condizioni della detenzione.  

Da ultimo, il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu per l'omessa motivazione delle sentenze delle corti nazionali; nessun tribunale, infatti, avrebbe fornito una chiara e puntuale spiegazione in merito al mancato accoglimento della doglianza sollevata dal ricorrente.

La Corte europea, dopo aver ricordato i propri principi in materia, sottolinea come non sia suo compito interpretare la legge interna di uno Stato e, quindi, decidere in merito all'innocenza o alla colpevolezza di un soggetto. Tuttavia, la Corte deve esaminare se il procedimento è stato condotto nel rispetto delle regole di cui all'art. 6 comma 1 Cedu, tra cui il dovere per gli organi giurisdizionali di motivare i loro provvedimenti. Nel caso di specie, la Corte europea nota come nessuna spiegazione sia stata fornita dai giudici nazionali in merito al mancato accoglimento dei motivi addotti dal ricorrente. Di qui la violazione dell'equità processuale. (Gloria Segala)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V , sent. 17 gennaio 2013, Mosendz c. Ucraina

La Corte EDU affronta un caso di maltrattamenti e "nonnismo" avvenuto nell'esercito ucraino che ha condotto un giovane militare al suicidio. La ricorrente, madre del ragazzo, lamenta la violazione degli art. 2 e 3 Cedu in relazione al mancato rispetto dell'obbligo positivo, gravante sullo Stato, di proteggere la vita dei suoi cittadini nonché in relazione all'aspetto procedurale, per le inadeguate e lacunose indagini svolte dalle autorità nazionali sulla morte del figlio.

La Corte, alla luce delle numerose contraddizioni emerse dall'esame delle circostanze in cui è avvenuta la morte, ritiene violato l'art. 2 Cedu sia sotto il profilo procedurale che sostanziale. I giudici colgono, altresì, l'occasione per evidenziare che, alla luce di numerose relazioni - tra cui quella elaborata dal Committee on Legal Affairs and Human Rights of the Parliamentary Assembly of the Council of Europe  il 24 marzo 2006 - che denunciano il mancato rispetto dei diritti umani nelle Forze Armate ucraine, l'inesistenza di misure legislative e amministrative idonee a prevenire e a "stigmatizzare" il noto fenomeno del bullismo e dei maltrattamenti all'interno delle istituzioni militari nonché la risposta tardiva e incompleta dello stato ucraino di fronte alle richieste della ricorrente di indagare in modo adeguato per individuare gli effettivi responsabili della morte del giovane, abbiano sortito un effetto negativo sulla politica di prevenzione dei reati all'interno degli organi militari, contribuendo ad alimentare l'attuale situazione di impunità e "permissivismo".La doglianza relativa alla violazione dell'art. 3 Cedu è stata, invece, ritenuta assorbita da quella dell'art. 2 Cedu in quanto fondata sui medesimi fatti. (Marika Piazza)

 

C. eur. Dir. uomo, sez. V, sent. 17 gennaio 2013, Karabet e altri c. Ucraina

Diciotto cittadini ucraini, tra cui la madre di uno deceduto nelle more del ricorso, denunciano i maltrattamenti nonché le umiliazioni subite durante il periodo di detenzione e nel corso del trasferimento nei carceri di Khmelnytskyy e Rivne Sizos e, in particolare, durante le operazioni condotte da un'unità speciale all'interno dell'istituto penitenziario di Izyaslav in data 22 gennaio 2007, il giorno successivo ad uno sciopero della fame dei detenuti. I soggetti erano stati violentemente percossi e umiliati verbalmente dagli agenti della polizia penitenziaria, privati di acqua e cibo per un lungo periodo di tempo e costretti a lasciare le proprie celle senza avere il tempo né di recuperare i propri beni personali né di vestirsi in modo adeguato dato il freddo. Essi lamentano, altresì, la violazione dell'art. 13 Cedu stante il mancato effettivo accertamento di tali soprusi da parte delle giurisdizioni nazionali.

La Corte, in via preliminare, oltre a respingere il ricorso del diciassettesimo ricorrente in quanto unico soggetto a non essere stato trasferito e, pertanto, non ritenuto vittima ai sensi dell'art. 35 Cedu, ritiene di esaminare le denunce ai sensi del solo art. 3 Cedu sia sotto il profilo procedurale che sostanziale.

Per quanto riguarda il primo aspetto dichiara la violazione della norma convenzionale a fronte del fatto che l'indagine condotta non era stata né approfondita, né indipendente, né celere.

Per l'aspetto sostanziale ribadisce il concetto secondo il quale le persone in custodia sono vulnerabili e che le autorità hanno il dovere di proteggerle e, pertanto, il ricorso alla forza fisica è ammesso solo se strettamente necessario. Nel caso in esame i maltrattamenti, la privazione di cibo e acqua per un lungo periodo di tempo e l'improvviso trasferimento, nonché la mancanza di adeguata assistenza medica subiti dai ricorrenti a seguito dell'operazione definita di sicurezza, svoltasi all'indomani del pacifico sciopero della fame avvenuto nel carcere di Izyaslav, sono stati ritenute dalla Corte come misure per punire i detenuti e stroncare sul nascere qualsiasi intenzione di reclamo. A fronte, quindi, del grado di dolore e sofferenza al quale sono stati sottoposti i detenuti e dello scopo dei maltrattamenti, la Corte ha precisato che le condotte degli agenti sono qualificabili in termini di "tortura" ai sensi dell'art. 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e i trattamenti inumani o degradanti e  rilevanti ex art. 3 Cedu.

È stata, altresì, affermata la violazione dell'art. 1 comma 1  Prot. n. 1 Cedu, in quanto i prigionieri, trasferiti in modo caotico e sottoposti a continui maltrattamenti, non hanno avuto la possibilità di raccogliere i loro effetti personali. (Marika Piazza)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 22 gennaio 2013, Camilleri c. Malta

Il ricorrente, cittadino maltese, dopo essere stato condannato alla pena di anni 15 di reclusione oltre ad un'elevata pena pecuniaria per il possesso ingiustificato di droga (nella specie 953 pillole di ecstasy), lamenta la violazione degli art. 6 e 7 Cedu per imparzialità e contrasto con il principio nullum crimen nulla pone sine lege della norma (Sezione 120 A del Medical and Kindred Professions Ordinance, Capitolo 31 della Legge di Malta) che attribuisce la facoltà al procuratore generale di decidere di fronte a quale organo giudiziario  - tra la "Criminal Court" o la "Court of Magistrates" - un imputato di reati in materia di sostanze stupefacenti, possa essere chiamato in giudizio. A tale scelta consegue, infatti, una variazione del regime punitivo da applicare al condannato dal momento che la Criminal Court  può applicare una pena detentiva che varia da un minimo di 4 anni di reclusione fino all'ergastolo, mentre la cornice edittale della sanzione applicabile dalla la Court of Magistrates è compresa tra  sei mesi e dieci anni di reclusione.

Tale norma non indica i criteri di scelta da adottare e, nel caso di specie, non era stato neanche reso pubblico l'iter motivazionale del procuratore. Alla luce di tali circostanze, la Corte  ritiene integrata la violazione dell'art. 7 Cedu. Secondo la pronuncia, la norma in esame non ha reso possibile al ricorrente conoscere quale pena gli si sarebbe inflitta, se non dopo la scelta del tutto discrezionale e, pertanto, imprevedibile e non accessibile, effettuata dal procuratore.

Sul punto il giudice Quintano ha espresso parere dissenziente facendo leva sulla quantità di droga detenuta dal ricorrente e sulla circostanza che i reati in materia di stupefacenti, le relative sanzioni e le decisioni giurisdizionali sono ampiamente riportati dai mass media e conosciuti dall'opinione pubblica con la conseguenza che il ricorrente avrebbe potuto ragionevolmente prevedere di essere giudicato dalla Criminal Court con conseguente condanna ad una pena detentiva elevata..

La Corte non ha, invece, ritenuto necessario esaminare la doglianza relativa all'art. 6 Cedu. Tale decisione ha condotto il giudice Kalaydjieva ad esprimere un'opinione in parte dissenziente al fine di evidenziare che la facoltà concessa al procuratore dalla norma maltese costituisce, altresì, una violazione del principio di parità delle parti nel giudizio. (Marika Piazza)

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 29 gennaio 2013, Cirillo c. Italia

Il caso ha ad oggetto la condanna dell'Italia per la violazione dell'art. 3 Cedu in relazione al mancato rispetto dell'obbligo, gravante sullo Stato, di garantire ai detenuti malati cure specializzate, regolari e adeguate anche a fronte della attuale situazione di sovraffollamento che caratterizza gli istituti di pena.

Il ricorrente, cittadino italiano, affetto da paralisi del plesso brachiale sinistro con grave limitazione funzionale nonché da disturbi d'ansia e depressione, viene arrestato e, successivamente, condannato alla pena di anni ventuno di reclusione presso il carcere di Reggio Calabria. Pacifica è risultata la necessità che il ricorrente fosse sottoposto a dei cicli di terapia ed elettrostimolazione.

A seguito del suo trasferimento presso l'istituto detentivo di Foggia e a fronte del rigetto delle numerose richieste di sospensione della pena, il ricorrente denunciava la perdita della funzione del braccio sinistro a causa delle troppo sporadiche sedute di fisioterapia. Dall'analisi delle circostanze del caso concreto e dalla mancata prova fornita dal Governo di aver garantito cure mediche adeguate alla condizione del ricorrente, la Corte ritiene che il soggetto abbia subito un livello di sofferenza tale da rientrare nella definizione di "trattamento inumano o degradante" rilevante ex art. 3 Cedu. (Marika Piazza)