ISSN 2039-1676


31 marzo 2014 |

Monitoraggio Corte Edu Gennaio 2014

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte EDU rilevanti in materia penale sostanziale e processuale

 

A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Enrico Maria Mancuso e Stefano Zirulia. L'introduzione è a firma di Stefano Zirulia per quanto riguarda gli art. 2, 3 e 10 Cedu, mentre si deve a Enrico Maria Mancuso la parte relativa agli art. 5, 6, 8 e 4 Prot. 7 Cedu.

 

1. Introduzione

 

a) Art. 2 Cedu

b) Art. 3 Cedu

c) Art. 5 Cedu

d) Art. 6 Cedu

e) Art. 8 Cedu

f) Art. 10 Cedu

g) Art. 4 Prot. 7

 

2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

* * *

 

1. Introduzione

 

a) Art. 2 Cedu

Le prime sentenze del 2014 in materia di diritto alla vita riguardano i temi della medical malpratice, della salute in carcere, dell'uso eccessivo della forza da parte della polizia, nonché del divieto di refoulement. A queste pronunce si aggiungono tre casi routinari - anche se non per questo meno tragici - di scomparsa di cittadini russi residenti in Cecenia, con riferimento ai quali, confermando la propria consolidata giurisprudenza in materia di desaparecidos ceceni, la Corte europea ha accolto i ricorsi dei loro famigliari, dichiarando la violazione degli artt. 2, 3, 5 e 13 Cedu (sent. 9 gennaio 2014, Pitsayeva e altri c. Russia; 16 gennaio 2014, Akhmatov e altri c. Russia; 30 gennaio 2014, Mikiyeva e altri c. Russia e Z. e Khatuyeva c. Russia).

Cominciando dal tema della medical malpractice, la sent. 16 gennaio 2014, Valeriy Fuklev c. Ucraina ha riconosciuto la violazione procedurale dell'art. 2 Cedu in relazione all'ineffettività delle indagini condotte sulla morte di una donna, colpita da setticemia e peritonite qualche giorno dopo essere stata sottoposta ad un intervento ginecologico. Identica violazione, benché con riferimento a trattamenti medici prestati in carcere, ha rilevato la sent. 9 gennaio 2014, Gorelov v. Russia, nella quale è stata censura la carenza di istruttoria sulle ragioni per cui un detenuto aveva contratto l'HIV dopo avere subito alcuni trattamenti medici in vinculis. In quest'ultimo caso, l'impossibilità di ricostruire la vicenda in punto di nesso eziologico ha precluso in radice l'accertamento di eventuali violazioni degli obblighi positivi di carattere sostanziale discendenti dall'art. 2 Cedu, ma al contempo ha fondato il rimprovero per la negligenza dimostrata nel condurre le indagini.

Due le sentenze pronunciate in relazione all'uso della forza letale da parte della polizia, entrambe di accoglimento dei ricorsi. La prima - sent. 16 gennaio 2014, Shchiborshch e Kuzmina c. Russia (per una sintesi, v. infra) - riguarda un caso in cui non era stato possibile stabilire se la morte della vittima fosse causalmente imputabile alle condotte delle forze dell'ordine. Ciò nonostante la Corte europea ha rilevato la violazione degli obblighi positivi discendenti dall'art. 2 Cedu tanto - come spesso accade in questi casi - sotto il profilo procedurale (in ragione dell'inefficacia delle indagini condotte), quanto, e soprattutto, sotto quello sostanziale, in considerazione del fatto che l'operazione non era stata organizzata in maniera tale da minimizzare i rischi per la vita. Questo il passaggio chiave della motivazione: «when lethal force is used within a "policing operation" by the authorities it is difficult to separate the State's negative obligations under the Convention from its positive obligations. In such cases the Court will normally examine whether the police operation was planned and controlled by the authorities so as to minimise, to the greatest extent possible, recourse to lethal force and human losses, and whether all feasible precautions in the choice of means and methods of a security operation were taken» (§ 206). Si tratta di un principio che, a quanto risulta, la Corte europea ha in precedenza enunciato negli stessi termini soltanto nella sent. 20 dicembre 2011, Finogenov e altri c. Russia (relativa al blitz contro i separatisti ceceni nel teatro Dubrovka di Mosca), e che risulta di grande momento giacché consente di ascrivere allo Stato una sorta di responsabilità per colpa di organizzazione delle operazioni di polizia, a prescindere dalla ricostruzione della vicenda concreta, spesso impedita da negligenze o occultamenti delle prove da parte dello Stato medesimo.

La seconda sentenza in materia di uso letale della forza (sent. 14 gennaio 2014, Kasap e altri c. Turchia) ha  invece censurato il fatto che, pur essendo state accertate le responsabilità degli agenti di polizia nel corso di un regolare processo penale, i giudici nazionali avessero applicato una pena particolarmente lieve, disponendone altresì la sospensione. La Corte europea ha rilevato la violazione dell'art. 2 Cedu nella sostanziale impunità di cui avevano beneficiato gli agenti, ed ha sottolineato come tale situazione desse oltretutto l'apparenza di una certa tolleranza o addirittura collusione della magistratura con quanto accaduto: «the national courts should not under any circumstances be prepared to allow life-endangering offences, including those arising from the negligence of agents that leads to a death, to go unpunished. This is essential for maintaining public confidence, ensuring adherence to the rule of law and preventing any appearance of tolerance of or collusion in unlawful acts» (§ 58).

Infine, la sent. 28 gennaio 2014, Camekan c. Turchia, pur condividendo l'esito assolutorio al quale era pervenuto il processo penale nei confronti degli agenti (i quali avevano ucciso la vittima soltanto dopo che quest'ultima aveva aperto il fuoco contro di loro, dunque in presenza dei requisiti della legittima difesa), ha comunque condannato lo Stato per l'eccessiva durata della procedura (undici anni e mezzo per il giudizio di primo grado).

In materia di divieto di refoulement la giurisprudenza della Corte europea si conferma nuovamente - benché anche questa volta con una pronuncia adottata a mera maggioranza - in linea con quella delle corti scandinave (cfr. monitoraggi di giugno 2013 e settembre 2013): nessuna violazione - né del diritto alla vita, né del divieto di tortura di cui all'art. 3 Cedu - è stata infatti ricollegata alla eventuale esecuzione del provvedimento di rimpatrio emesso nei confronti di un cittadino iraniano, il quale, affermando di essere un attivista politico inviso al regime, e valorizzando altresì la propria fede cristiana, sosteneva di temere per la propria vita una volta rientrato nel paese d'origine (sent. 16 gennaio 2014, F.G. c. Svezia).

 

b) Art. 3 Cedu

Come spesso accade, anche questo mese la maggior parte delle pronunce in materia penalistica hanno riguardato l'art. 3 Cedu.

In primo piano vi è senz'altro la sent. 28 gennaio 2014, O'Keeffe c. Irlanda, della Grande Camera, in materia di obblighi positivi di tutela dei soggetti vulnerabili. La vicenda - efficacemente riassunta nel legal summary a cura della stessa cancelleria di Strasburgo - riguarda gli abusi sessuali commessi negli anni '70 da un prete nei confronti dei piccoli alunni di una scuola gestita dalla Chiesa ma finanziata con fondi dello Stato. La Corte europea, ritenendo accertato che all'epoca dei fatti lo Stato irlandese fosse a conoscenza del rischio di abusi sui minori nelle scuole gestite dalla Chiesa, ha osservato: «this risk should have been addressed through the adoption of commensurate measures and safeguards. Those should, at a minimum, have included effective mechanisms for the detection and reporting of any ill-treatment by and to a State-controlled body, such procedures being fundamental to the enforcement of the criminal laws, to the prevention of such ill-treatment and, more generally therefore, to the fulfilment of the positive protective obligation of the State» (§162). Proprio il mancato apprestamento di tali misure preventive da parte dello Stato, in un contesto storico in cui gli abusi sessuali di quel tipo risultavano prevedibili, ha integrato - secondo la maggioranza dei giudici della Corte europea - una violazione degli obblighi positivi discendenti dall'art. 3 Cedu; ciò a prescindere - ha inoltre sottolineato la Corte europea - da ulteriori verifiche di carattere "controfattuale" circa l'evitabilità dei singoli episodi di abuso attraverso la predisposizione delle misure omesse («it is not necessary to show that "but for" the State omission the ill-treatment would not have happened. A failure to take reasonably available measures which could have had a real prospect of altering the outcome or mitigating the harm is sufficient to engage the responsibility of the State», §149). Sono stati viceversa esclusi profili di violazione degli obblighi procedurali di cui all'art. 3 Cedu, dal momento che l'autore materiale degli abusi è stato processato e punito; ma l'Irlanda è stata comunque condannata per violazione dell'art. 13 Cedu, in ragione del mancato apprestamento di vie di ricorso idonee a far valere la responsabilità dello Stato per l'accaduto.

Sempre con riferimento alla materia dei soggetti vulnerabili, merita di essere segnalata la condanna riportata dal nostro paese nella sent. 21 gennaio 2014, Placì c. Italia. La Corte europea ha evidenziato come anche le situazioni di normale e sopportabile disagio - quali, nel caso di specie, lo stress e le sofferenze tipicamente connessi al periodo della leva militare - possano tramutarsi in trattamenti inumani e degradanti per soggetti affetti da disturbi mentali. Coerentemente, la pronuncia ha rilevato la violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti nella omessa tempestiva diagnosi, da parte dei superiori militari del ricorrente, dei disturbi mentali di cui egli era affetto durante il servizio di leva, nonché più in generale nell'omessa predisposizione di un apparato organizzativo interno alla caserma idoneo ad effettuare tale diagnosi.

Infine, ancora con riferimento alla medesima materia, è certamente significativa la sent. 28 gennaio 2014, T.M. c. Moldavia, in cui la Corte europea non solo ha condannato lo Stato resistente per violazione degli obblighi positivi di prevenire episodi di violenza domestica contro una donna, censurando, in particolare, «the authorities' knowledge of the risk of further domestic violence by M.M. [ossia l'ex marito della vittima] and their failure to take effective measures against him during several months» (§49); ma ha rilevato altresì una ulteriore violazione dell'art. 3 Cedu congiuntamente con il divieto di discriminazione di cui all'art. 14 Cedu, sul presupposto che «the authorities' actions were not a simple failure or delay in dealing with violence against the first applicant, but amounted to condoning such violence and reflected a discriminatory attitude towards her as a woman» (§62).

I maltrattamenti inferti dalle forze dell'ordine nel corso di arresti e custodie cautelari, nonché le omissioni sul piano degli obblighi procedurali che purtroppo quasi sistematicamente accompagnano questi episodi, sono al centro di una nutrita serie di condanne nei confronti di numerosi Stati membri del Consiglio d'Europa: sent. 7 gennaio 2014, Lakatoš e altri c. Serbia e Kaçak e Ebinç c. Turchia; 14 gennaio 2014, Birgean c. Romania; 28 gennaio 2014, Buhaniuc c. Moldavia; 30 gennaio 2014, Velikanov c. Russia.

Parimenti ricca la casistica in materia di condizioni inumane e degradanti della detenzione nelle carceri o in altri luoghi destinati al trattenimento. Sul punto, accanto a casi ripetitivi dei principi già noti a chi abbia familiarità col diritto di Strasburgo (sent. 7 gennaio 2014, Karabin c. Polonia; 14 gennaio 2014, Carpen c. Romania e Totolici c. Romania; 9 gennaio 2014 Budanov c. Russia), meritano maggiore attenzione le seguenti pronunce: sent. 9 gennaio 2014, Lankester c. Belgio, in cui la Corte europea ha ritenuto inumana e degradante la detenzione del ricorrente in un'ala psichiatrica del carcere  malgrado l'assenza di ragionevoli prospettive di guarigione e senza adeguata assistenza medica; sent. 14 gennaio 2014, Lindström e Mässeli c. Finlandia (per una sintesi, v. infra), che invece ha escluso violazioni rilevanti ai sensi dell'art. 3 Cedu per difetto di prova, ma della quale merita di essere segnalata la dissenting opinion, che è giunta ad opposta conclusione attribuendo rilievo, tra l'altro, all'assenza di base legale per le misure coercitive applicate dalle guardie penitenziarie ai ricorrenti (questi ultimi erano stati costretti, dopo essere stati scoperti a spacciare stupefacenti nel carcere, a vestire per alcuni giorni delle divise sigillate, nelle quali avevano espletato tutte le funzioni organiche) (sulla vicenda, v. anche infra i profili rilevanti ai sensi dell'art. 8 Cedu).

Ulteriori tematiche trattate sotto l'angolo dell'art. 3 Cedu nel mese di gennaio sono state, in ordine cronologico, il divieto di refoulement di attivisti politici verso il Sudan (sent. 7 gennaio 2014, A.A. c. Svizzera), la mancata restituzione alle rispettive famiglie dei corpi di alcuni terroristi uccisi nel Caucaso dai militari russi (sent. 16 gennaio 2014, Arkhestov e altri c. Russia e Zalov e Khakulova c. Russia), l'eccessiva durata di un processo penale in materia di violenza sessuale (sent. 21 gennaio 2014, W. c. Slovenia), nonché le sofferenze morali patite dai famigliari dei "desaparecidos" ceceni nei casi già citati supra, sub art. 2 Cedu.

Per completezza, trattandosi di un caso in cui vengono in rilievo episodi di tortura, deve essere menzionata la sent. 14 gennaio 2014, Jones e altri c. Regno Unito, in cui la Corte europea - decidendo a maggioranza su un ricorso in punto di art. 6 Cedu (e non di art. 3 Cedu) - ha avallato la posizione delle Corti britanniche che avevano riconosciuto l'immunità in capo ad alcuni militari sauditi accusati da tre cittadini britannici di averli torturati a Riyadh tra il 2000 e il 2001 (in merito a tale sentenza, v. C. Meloni, Una importante sentenza della Corte EDU in materia di tortura e immunità dello Stato di fronte a una giurisdizione straniera, in questa Rivista, 28 gennaio 2014).

 

c) Art. 5 Cedu

Tra le pronunce della Corte europea del mese di gennaio, con riferimento all'art. 5 Cedu, devono - anzitutto - essere segnalate le sentenze del 9 gennaio 2014 rese nei casi Plaisier c. Belgio, Saadouni c. Belgio, Moreels c. Belgio, Oukili c. Belgio, Caryn c. Belgio, Gelaude c. Belgio e Lankester c. Belgio, espressive del medesimo principio, concernenti la violazione dell'art. 5 comma 1 lett. e e art. 5 comma 4 Cedu. Tutte le pronunce indicate riguardano la privazione della libertà personale quale conseguenza del ricovero nel reparto psichiatrico dell'istituto di pena al fine di condurre un esame clinico sullo stato di sanità mentale del ricorrente. In tutti i casi sottoposti allo scrutinio, la Corte ha affermato la violazione dei parametri convenzionali evocati dai ricorrenti sotto il duplice profilo dell'inadeguatezza del luogo di detenzione rispetto alla finalità della verifica e della mancanza di un effettivo rimedio idoneo a controllare tempestivamente le condizioni di legalità della restrizione subite.

L'irragionevole durata della detenzione provvisoria è oggetto della sent. 7 gennaio 2014, Lakatoš e altri c. Serbia, che ha accertato la violazione dell'art. 5 comma 3 Cedu in un caso in cui il protrarsi della restrizione della libertà personale per più di un anno e otto mesi non era giustificato dalla complessità delle indagini e dagli incombenti richiesti in fase preliminare.

Con le sent. 9 gennaio 2014, Pitsayeva e altri c. Russia, 30 gennaio 2014, Mikiyeva e altri c. Russia, e 30 gennaio 2014, Z. e Khatuyeva c. Russia, la Corte - giudicando numerosi ricorsi relativi a rapimenti di civili ad opera di militari nel corso di operazioni antiterrorismo - ha riconosciuto la violazione del parametro espresso nell'art. 5 comma 1 Cedu, ribadendo il costante orientamento secondo cui può integrare violazione del parametro convenzionale anche la restrizione della libertà personale di soggetti di cui non si abbia in seguito alcuna notizia, pur in mancanza di elementi concreti circa lo stato detentivo, anche in virtù della mancata attivazione di una indagine effettiva sull'accaduto.

Una menzione merita la sent. 28 gennaio 2014, Akhadov c. Slovacchia. La Corte europea riscontra una violazione del diritto, riconosciuto a ogni persona arrestata o detenuta dall'art. 5 comma 4 Cedu, di ottenere entro un termine ragionevole una rapida revisione del provvedimento restrittivo della libertà personale o di essere messo in libertà, pur in presenza di complesse vicende processuali e dell'esperimento dei rimedi impugnatori per la verifica della legittimità del provvedimento restrittivo. Analogo principio è espresso dalla sent. 14 gennaio 2014, Schvarc c. Slovacchia e dalla sent. 14 gennaio 2014, Sâncrăian c. Romania, quest'ultima resa in un complesso caso di giudizio contumaciale in seguito oggetto di nuova celebrazione per il mancato rispetto di garanzie difensive essenziali dell'accusato, ingiustamente detenuto (in forza della prima condanna in absentia) per un periodo di circa quattro mesi a seguito della riapertura del processo.

 

d) Art. 6 Cedu

Per quanto concerne l'art. 6 Cedu, si segnala, in primo luogo, la sent. 9 gennaio 2014, Viard c. Francia (per una sintesi, v. infra), che ha accertato la violazione del parametro d'equità contemplato nel comma 1 in relazione a un caso riguardante il rifiuto opposto dalla corte d'appello di esaminare il ricorso avverso una misura cautelare, per il mancato rispetto del termine di gravame, giudicato dalla Corte eccessivamente breve.

Nel mese di maggio, inoltre, la Corte europea è stata chiamata ad affrontare il tema della compressione del diritto di difesa, ai sensi dei commi 1 e 3 lett. d dell'art. 6 Cedu: con la sent. 7 gennaio 2014, Prăjină c. Romania, è stata riconosciuta la violazione dei parametri menzionati in ordine a un caso in cui il giudice non aveva consentito l'esame di un testimone le cui dichiarazioni erano state considerate decisive nell'adozione della pronuncia di condanna.

Con la sent. 14 gennaio 2014, Cipleu c. Romania (per una sintesi, v. infra), la Corte ha accertato la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu sotto il profilo della mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale ai fini della pronuncia di condanna da parte della corte suprema, in riforma della pronuncia assolutoria del giudice di seconde cure. Con la pronuncia si ribadisce il principio - già espresso dalla consolidata giurisprudenza dei diritti umani - secondo cui il giudice chiamato a rivalutare un caso in sede di impugnazione, per poter compiere una completa verifica del sindacato di colpevolezza non può prescindere, in particolare, dall'audizione dell'accusato e da una diretta valutazione delle prove fornite a discarico dall'accusato sui fatti costituenti oggetto della prova a carico.

 

e) Art. 8 Cedu

Con riferimento all'art. 8 Cedu si segnala, anzitutto, la sent. 14 gennaio 2014, Lavric c. Romania (per una sintesi, v. infra), in tema di tutela della reputazione e diritto alla libertà di stampa. Il ricorrente, un pubblico ministero accusato giornalisticamente di aver falsificato alcuni capi di accusa, ricorre per vedere accertata la violazione del diritto al rispetto alla vita privata, scaturito dalla pubblicazione di notizie di stampa a suo dire diffamatorie nelle more del procedimento disciplinare a suo carico. La Corte, pur consapevole del mancato riconoscimento della colpevolezza in capo al giornalista accusato di diffamazione, reputa fondata la doglianza per il superamento del limite del diritto di critica, considerato l'interesse generale coinvolto nella notizia oggetto di pubblicazione.

Di particolare rilievo, poi, la sent. 14 gennaio 2014, Lindström e Mässeli c. Finlandia (per una sintesi, v. infra), che accerta la violazione dell'art. 8 comma 1 Cedu in relazione alle modalità di espiazione della pena nella cella di isolamento di un carcere di massima sicurezza - a seguito dello spaccio di sostanze stupefacenti in carcere - e, particolarmente, con riferimento alla imposizione di una divisa sigillata da fermagli di plastica apposti dal personale dell'amministrazione penitenziaria, pur in mancanza di una specifica previsione di legge che imponesse l'uso di una tenuta con tali caratteristiche.

Particolare risonanza mediatica ha, poi, avuto la sent. 16 gennaio 2014, Kushtova e altri c. Russia, che ha affermato la violazione del parametro di cui all'art. 8 comma 1 Cedu in occasione di un ricorso presentato dai parenti di un cittadino russo rimasto ucciso nel corso delle operazioni antiterrorismo che provocarono la morte di Shamil Basayev, leader indipendentista ceceno. I ricorrenti eccepivano la violazione del diritto al rispetto alla vita privata in occasione del rifiuto alla consegna delle spoglie e della mancata partecipazione alle esequie del parente, che veniva tumulato in località militare mantenuta segreta. La Corte riconosce, in definitiva, un vero e proprio diritto alla celebrazione delle pratiche funebri e un non meno rilevante diritto alla conoscenza del luogo della sepoltura dei propri cari estinti.

 

f) Art. 10 Cedu

Benché scaturiti da procedimenti di natura civile, meritano di essere segnalati i casi decisi dalle sent. 7 gennaio 2014, Ringier Axel Springer Slovakia a.s. c. Slovakia (n. 2) e Ringier Axel Springer Slovakia a.s. c. Slovakia (n. 3): la Corte europea ha censurato la condanna al risarcimento del danno per diffamazione a mezzo stampa inflitta ad una testata giornalistica, osservando come i giudici interni avessero completamente omesso di indicare e valutare quelle circostanze di fatto che sole avrebbero consentito di stabilire se la libertà di espressione era stata esercitata in conformità ai "doveri e responsabilità" di cui all'art. 10 comma 2 Cedu (le circostanze di fatto esemplificativamente elencate dalla Corte europea sono la buona fede del ricorrente, lo scopo perseguito attraverso la pubblicazione dell'articolo, l'interesse pubblico sottostante alla notizia).

Ad opposte conclusioni - ossia la conformità all'art. 10 Cedu delle limitazioni imposte alla libertà di espressione dei ricorrenti - la Corte europea è giunta nelle sent. 14 gennaio 2014, Ojala e Etukeno Oy c. Finlandia e Ruusunen c. Finlandia (per una sintesi di entrambe, v. infra). Le giurisdizioni interne avevano condannato (qui sì, in sede penale) gli autori di un libro che narrava le avventure sentimentali del Primo Ministro finlandese. I giudici di Strasburgo hanno considerato tali condanne immuni da profili di illegittimità ai sensi dell'art. 10 Cedu,  in quanto rese  all'esito di uno scrupolosissimo scrutinio che aveva consentito di individuare sette precisi passaggi del libro nei quali i confini della libertà di espressione erano stati travalicati ed il diritto alla vita privata dell'uomo politico era risultato effettivamente leso.

Si segnala, infine la sent. 30 gennaio 2014, De Lesquen du Plessis-Casso (n. 2) c. Francia, che affronta il complesso tema del diritto di critica nei confronti di un avversario politico. Al centro del caso vi è l'accusa di "diserzione" rivolta da un consigliere comunale al proprio sindaco, e costata al primo una condanna penale per diffamazione. La Corte europea - decidendo a maggioranza - ha ritenuto tale limitazione al diritto di critica conforme all'art. 10 Cedu, valorizzando in particolare la circostanza che il consigliere comunale avesse millantato autorevoli ma non meglio precisati informatori (così confondendo il piano dei fatti con quello della propria opinione) e che per giunta il tutto fosse avvenuto attraverso una lettera aperta pubblicata su internet (dunque in un contesto nient'affatto concitato, che lascia pensare ad una programmata ed intenzionale manovra diffamatoria).

 

g) Art. 4 Prot. 7

Con la sent. 14 gennaio 2014, Muslija c. Bosnia Erzegovina, la Corte ha riconosciuto la violazione del divieto di bis in idem sancito dall'art. 4 Prot. n. 7 in un caso di duplice sindacato del medesimo episodio di violenza privata perpetrata dal marito ai danni della moglie. Il ricorrente era stato, difatti, condannato in sede amministrativa per una fattispecie avente il medesimo oggetto dell'accusa penale in seguito elevata per i reati di violenza privata e lesioni personali. Nel riconoscere la violazione del divieto, la Corte non ha ritenuto di dover condannare lo stato convenuto al pagamento di alcuna riparazione pecuniaria.

 

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2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 9 gennaio 2014, Viard c. Francia

Il ricorrente, uno psicoterapeuta accusato di aggressioni sessuali su quattro pazienti, veniva sottoposto alla misura cautelare personale del controllo giudiziario e alla misura cautelare interdittiva dell'esercizio della professione di psicoterapeuta. La decisione veniva in prima istanza confermata dal giudice istruttore, che rigettava una richiesta di modifica in melius della misura interdittiva. In data 12 febbraio 2010, la camera d'istruzione della corte d'appello ribadiva la posizione del primo giudice e disponeva la notifica del provvedimento. In data 16 febbraio 2010, la notifica della decisione di rigetto veniva eseguita mediante deposito di raccomandata nella casella postale. Solo tre giorni dopo, il 19 febbraio 2010, avverso il provvedimento di rigetto veniva presentato ricorso, che la corte di cassazione dichiarava inammissibile per l'intervenuto decorso di cinque giorni liberi dal momento della pronuncia del provvedimento. Il ricorrente si lamenta della violazione del diritto di accedere alla giurisdizione, rilevando in particolare come il dies a quo del termine per proporre impugnazione avverso un provvedimento cautelare sia erroneamente fissato dalla legge nella data della decisione e non nel giorno di effettiva ricezione della comunicazione postale. La Corte accoglie le argomentazioni del ricorrente in ordine alla carenza di equità del processo, rilevante ex art. 6 comma 1 Cedu, sottolineando come il diritto di accesso alla giurisdizione debba essere effettivamente riconosciuto e come tale non possa considerarsi la situazione di chi abbia a disposizione uno o due giorni per predisporre il mezzo di gravame avverso il provvedimento tardivamente conosciuto. (Enrico Maria Mancuso)

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, 14 gennaio 2014, Lavric c. Romania

La ricorrente è un pubblico ministero accusata giornalisticamente di essere corrotta e di aver falsificato due capi d'imputazione nei confronti di un imputato, in seguito prosciolto da ogni accusa. A seguito di una fuga di notizie, nelle more del procedimento disciplinare causato dall'esposto presentato dal destinatario delle accuse, la ricorrente subiva una violenta campagna di stampa. Subito dopo la pubblicazione degli articoli giornalistici, la ricorrente proponeva denuncia per diffamazione nei confronti del giornalista autore dei pezzi ritenuti lesivi della sua reputazione. Il giudice di prima istanza condannava il giornalista per non aver adoperato la necessaria cautela nel controllare le notizie da pubblicare. La corte distrettuale, accogliendo l'appello proposto dall'autore degli articoli, mandava assolto il giornalista, reputando che le notizie - così come pubblicate - potessero considerarsi espressione della libertà di manifestazione del pensiero, pur avendo utilizzato toni esagerati e provocatori. Il ricorrente lamenta la violazione del diritto a tutelare la propria reputazione. La Corte reputa fondato il ricorso avente a oggetto la violazione dell'art. 8 Cedu, ponendo particolare riguardo sull'esistenza di un obbligo positivo a garantire il rispetto della vita privata in capo agli stati aderenti. Viene in gioco un bilanciamento d'interessi contrapposti: da un lato la protezione della vita privata e dell'onore; dall'altro la libertà di manifestazione del pensiero. Tale contrapposizione è, viepiù, delicata quando siano coinvolti soggetti che esercitino una pubblica funzione. Nondimeno, osserva la Corte, il diritto di critica dei comportamenti altrui non può superare certi limiti. L'aver mosso l'accusa di una falsificazione dei capi d'accusa è condotta grave, idonea a incidere in maniera seria e non rimediabile sulla reputazione di qualsiasi pubblico ministero nell'esercizio delle sue funzioni. La Corte osserva che gli articoli giornalistici hanno superato ogni limite del diritto di critica su temi di pubblico interesse: il giornalista avrebbe dovuto controllare con maggior cautela i fatti narrati, non potendosi eccepire, a discolpa, alcuna deroga consistente nella voluta esagerazione descrittiva o nella provocazione. (Enrico Maria Mancuso)

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, 14 gennaio 2014, Cipleu c. Romania

A seguito di un incidente stradale, nel quale era coinvolto un pedone cui non veniva prestato soccorso, la polizia si recava presso l'abitazione del ricorrente, che nell'immediatezza dei fatti dichiarava di essere alla guida del veicolo. Costui veniva, poi, condotto presso la stazione di polizia, dove - in presenza di un avvocato - rendeva ampia dichiarazione confessoria. Circa un mese dopo l'incidente, il ricorrente decideva di mutare la versione dei fatti, dichiarando che la notte dell'incidente non era lui a condurre il veicolo, bensì la moglie, la quale confermava la chiamata in causa. Ciononostante, il ricorrente veniva citato in giudizio per l'omissione di soccorso a seguito di sinistro stradale. Il ricorrente si affermava estraneo ai fatti innanzi al giudice di prima istanza, che nondimeno dichiarava l'imputato colpevole del reato ascritto. La corte d'appello, di contro, assolveva il ricorrente, sulla base dell'assunto secondo cui le dichiarazioni rese dall'accusato la sera stessa dell'incidente non potessero essere considerate utilizzabili secondo la disciplina dettata dal codice di rito. A seguito di ricorso in cassazione, la corte suprema annullava la decisione d'appello, procedendo al riesame del caso: dichiarava, quindi, l'imputato colpevole del reato contestato sulla base delle prove già acquisite agli atti, ritenendo che le dichiarazioni già rese in sede investigativa potessero essere valutate. Il ricorrente lamenta la violazione del parametro d'equità processuale di cui all'art. 6 Cedu, per esser stato condannato senza essere stato ascoltato dal giudice di ultima istanza. La Corte valuta fondato il ricorso, sotto il profilo dell'esigenza di una diretta valutazione della prova fornita dall'accusato tutte le volte in cui si verta intorno alla verifica di colpevolezza. Si rileva come, in casi analoghi, l'audizione dell'accusato dovrebbe costituire la regola, non potendo essere sostituito dal semplice appello alla corte di valutare la propria innocenza. Proprio nel ruolo della corte di cassazione si rinvengono le ragioni d'accoglimento del ricorso: si tratta di giudizi del tutto assimilabili a quelli svolti dai giudici di primo e secondo grado, governati dalle medesime regole. La Corte era chiamata, in particolare, a prendere posizione sulla valutazione delle dichiarazioni rese in sede di indagini dall'accusato, dal momento che la medesima prova era stata utilizzata a sfavore e a vantaggio dell'accusato. In quest'ottica, la semplice rivisitazione della prova non può essere considerata rispettosa del parametro convenzionale, non dovendosi prescindere dal contributo offerto dall'imputato e dai possibili testimoni che avrebbero potuto avvalorare o smentire la versione dei fatti fornita nel corso del procedimento. (Enrico Maria Mancuso)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, 14 gennaio 2014, Lindström e Mässeli c. Finlandia

Il ricorso presentato da due detenuti finlandesi, in origine riguardante la possibile violazione dell'art. 3 Cedu ed, in seguito, esteso ex officio al parametro di cui all'art. 8, ha ad oggetto la situazione di grave disagio subita dai ricorrenti nel corso della restrizione della libertà, allorché - dovendo espiare una pena in cella di isolamento, per la possibile detenzione di sostanza stupefacente in carcere - venivano costretti a indossare una tuta in unico pezzo, dalle caviglie al collo, sigillata dal personale dell'amministrazione penitenziaria con fermagli di plastica, così da evitare il possibile nascondimento sul corpo della sostanza psicotropa. I ricorrenti lamentano l'impossibilità di rimuovere da sé tali fermagli di plastica, anche solo per poter espletare i propri bisogni, dovendo attendere l'aiuto del personale dell'amministrazione. Inoltre, affermano ancora i ricorrenti, non era loro concesso di potersi lavare o cambiare di tuta, anche quando avessero dovuto lordare quella indossata per il mancato aiuto a rimuoverla. L'indagine iniziata dalla magistratura portava al giudizio nei confronti del direttore del carcere e di due agenti della polizia penitenziaria. Il giudice di primo grado e la corte distrettuale assolvevano gli accusati dalle imputazioni concernenti il mancato rispetto dei diritti fondamentali per l'assoluta mancanza di prove. Analogamente, anche la Corte reputa infondata la doglianza relativa al trattamento disumano e degradante ex art. 3 Cedu, per la mancanza di prove a sostegno delle violazioni allegate dalle parti: non è in dubbio la compatibilità dell'uso di divise carcerarie con il parametro evocato, quanto il concreto verificarsi di gravi episodi inosservanti dei diritti fondamentali della persona. Di contro, è affermata la violazione del diritto al rispetto della vita privata: ogni possibile interferenza della pubblica autorità sulla vita privata, per il disposto del comma 2 dell'art. 8 Cedu, deve essere prevista dalla legge. Nulla, al riguardo, è previsto dalle fonti interne circa l'uso di uniformi sigillate in istituti di pena. Per queste ragioni, la Corte afferma la violazione del diritto al rispetto della dignità, non essendo le modalità descritte previste da alcuna disposizione normativa chiara, accessibile e astrattamente applicabile al caso di specie. (Enrico Maria Mancuso)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 14 gennaio 2014, Ojala e Etukeno Oy c. Finlandia e Ruusunen c. Finlandia

Le due pronunce scaturiscono dalla medesima vicenda. Uno scrittore finlandese, la sua casa editrice  e una donna che era stata l'amante del primo ministro finlandese, vengono condannati per il reato di diffamazione a seguito della pubblicazione di un libro che racconta le avventure amorose della donna insieme al politico. Invocando l'art. 10 Cedu, tutti e tre lamentano a Strasburgo la violazione del proprio diritto di espressione, presentando due ricorsi separati (lo scrittore e la casa editrice da un lato, la ex amante dall'altro lato). Con due pronunce autonome ma di contenuto sostanzialmente identico la Corte europea respinge entrambi i ricorsi. I giudici di Strasburgo ritengono infatti che le condanne penali siano state pronunciate all'esito di un corretto bilanciamento tra la libertà di cui all'art. 10 Cedu e il diritto alla vita privata di cui all'art. 8 Cedu. Particolare rilievo, a tal proposito, viene attribuito alla circostanza che le sentenze interne non abbiano censurato il libro tout court, bensì soltanto alcuni selezionati passaggi dello stesso, ed in particolare quelli in cui la narrazione approfondiva gli intercorsi sessuali o comunque di carattere intimo tra i due protagonisti della storia, così oltrepassando la soglia dell'interesse pubblico e sconfinando in quella della vita (esclusivamente) privata (§ 56). La Corte si sofferma, infine, sulle sanzioni inflitte ai ricorrenti (pene pecuniarie dell'ordine di qualche centinaio di euro, e non menzione della condanna sul criminal record), reputandole non sproporzionate la fatto commesso. (Stefano Zirulia)

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 16 gennaio 2014, Shchiborshch e Kuzmina c. Russia

Il ricorrente, cittadino russo, chiede ed ottiene la somministrazione di trattamenti sanitari obbligatori per il figlio, affetto da disturbi mentali. Il giorno del ricovero le autorità si recano a prelevare il giovane, il quale tuttavia oppone resistenza impugnando un coltello e poi barricandosi in una stanza. I militari, sfondata la porta, cercano di immobilizzarlo, ma nel corso della colluttazione il giovane muore. Le successive perizie non riescono a ricollegare il decesso né alle condotte degli agenti né alle ferite autoprocuratesi dalla vittima, sicché le indagini sull'accaduto vengono archiviate. Il padre del giovane ricorre allora a Strasburgo lamentando la violazione dell'art. 2 Cedu, nonché dell'art. 3 Cedu rispetto al patema d'animo sofferto a causa della vicenda. La Corte europea prende atto dell'impossibilità di ricostruire il decorso causale degli eventi e dunque anche di accertare eventuali responsabilità degli agenti per uso eccessivo della forza. Ciò nondimeno, la violazione dell'art. 2 Cedu viene comunque affermata in relazione all'organizzazione dell'operazione di polizia nel suo complesso, per la mancata adozione di misure idonee a ridurre il più possibile il rischio di eventi mortali. A tale proposito, l'attenzione dei giudici di Strasburgo si sofferma in particolare sulla fase in cui il giovane si era barricato in una stanza, giacché in quel momento gli agenti, anziché intervenire, avrebbero dovuto attendere l'arrivo di personale psichiatrico. L'errore di valutazione, ad avviso della Corte europea, è imputabile ad un difetto di pianificazione e coordinamento dell'intera operazione,  che a sua volta costituisce una violazione degli obblighi positivi di tutela discendenti dall'art. 2 Cedu. Vengono invece esclusi profili di responsabilità dello Stato nei confronti del ricorrente ai sensi dell'art. 3 Cedu, ritenendosi quel tipo di sofferenza psicologica ricollegabile non già al dolore per la morte tout court di un proprio caro, bensì all'ansia che si prova quando se ne perdono le tracce, come accade nei casi dei desaparecidos. (Stefano Zirulia)