ISSN 2039-1676


12 luglio 2016 |

Monitoraggio Corte EDU febbraio 2016

A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, per questo mese, da Marco Mariotti e Paola Concolino. L'introduzione è a firma di Marco Mariotti per quanto riguarda gli artt. 2, 3, 4, 7, 9, 10, 11 e 2 prot. 4 Cedu, mentre si deve a Paola Concolino la parte relativa agli artt. 6 e 8 Cedu.

 

1. Introduzione

 

a) Art. 2 Cedu

b) Art. 3 Cedu

c) Art. 4 Cedu

d) Art. 6 Cedu

e) Art. 7 Cedu

f) Art. 8 Cedu

g) Art. 9 Cedu

h) Art. 10 Cedu

i) Art. 11 Cedu

l) Art. 2 Prot. n. 4 Cedu

 

 

2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

* * *

 

1. Introduzione

 

a) Art. 2 Cedu

Nella sent. 16 febbraio 2016, Dalakov c. Russia (che riguarda l'uccisione di un cittadino russo da parte delle forze di sicurezza) la Corte europea richiama la necessità che gli agenti dello Stato, nelle operazioni di mantenimento dell'ordine pubblico, adottino ogni precauzione per scongiurare eventi letali, e sottolinea l'obbligo di interpretare in senso restrittivo le eccezioni al divieto dell'uso della forza; nella specie, la C. eur. dir. uomo evidenzia come gli agenti delle forze speciali abbiano sparato anche in assenza di un immediato pericolo di aggressione, rifiutandosi - inoltre - di collaborare con la polizia per chiarire la dinamica dell'incidente. Notevoli sono anche le constatate violazioni degli obblighi procedurali di avviare un'indagine efficace ed imparziale in tempi ragionevoli per fare luce sulla vicenda e scongiurare il rischio di impunità: è stata ritenuta del tutto insufficiente una ricognizione investigativa preliminare, a fronte dell'omissione e del rifiuto di aprire un formale procedimento penale.

Nella sent. 23 febbraio 2016, Civek c. Turchia viene ravvisata una violazione degli obblighi positivi sostanziali, in quanto lo Stato, pur essendo a conoscenza del pericolo e potendo mettere in atto concrete misure per prevenire l'omicidio di un privato cittadino, non ha assolto all'obbligo sostanziale di proteggerlo per quanto ragionevolmente possibile. Nella specie, il padre dei ricorrenti, dopo essere stato sottoposto a misure restrittive della libertà personale a causa delle violenze e delle minacce denunciate dalla compagna, era stato condizionalmente rilasciato. Dopo il suo ritorno a casa, la donna aveva denunciato nuovi maltrattamenti e minacce di morte in due separate occasioni, ma le autorità, pur ascoltati i figli come testimoni, avevano sì aperto un nuovo procedimento penale, ma senza porre il soggetto in custodia cautelare. L'uomo aveva infine ucciso la moglie.

Con riguardo agli obblighi procedurali in relazione alla protezione dei singoli dalle azioni lesive commesse colposamente da altri privati, si segnala la sent. 2 febbraio 2016, Cavit TınarlıoÄŸlu c. Turchia, in cui viene esclusa la violazione dell'art. 2. Un nuotatore era stato travolto in mare da un'imbarcazione (al timone era il gestore di un circolo per sport acquatici), ed aveva rischiato di morire, riportando varie lesioni ed una paralisi al 45%. La Corte di Strasburgo ripete che dall'art. 2 non può discendere l'obbligo di garantire una protezione assoluta in ogni attività che comporti un rischio; viceversa, ritiene che le autorità abbiano assolto al dovere di prevenzione (la normativa sull'autorizzazione all'attività sportiva è adeguata, e l'efficace sistema delle autorizzazioni è stato eluso dal gestore del circolo). Inoltre, dall'art. 2 non discende un diritto a vedere persone fisiche o enti collettivi processati o condannati in sede penale, purché gli altri rimedi adottati siano efficaci: nel caso di specie, veniva avviato un procedimento penale contro il soggetto che timonava la barca, ma non contro i gestori del circolo sportivo. Nel complesso, i procedimenti penali ed amministrativi avviati (contro le autorità pubbliche per la mancata sorveglianza) risultano adeguati a far luce sulla situazione e condotti in modo imparziale. Viene esclusa anche la violazione dell'art. 8 Cedu.

Sullo stesso tema, segnaliamo anche la sent. 9 febbraio 2016, Öztünç c. Turchia, in cui una disposizione legislativa ed una decisione giudiziale apparentemente garantiste si traducono in una violazione degli obblighi positivi di cui all'art. 2. A seguito di un omicidio, quattro sospetti erano stati arrestati, erano comparsi davanti ad un giudice, e, dopo la revoca della custodia cautelare, si erano resi irreperibili. Il procedimento si chiudeva con una condanna, annullata dalla corte di cassazione perché emanata in absentia; conseguentemente, trent'anni dopo i fatti, il giudizio è ancora pendente e gli accusati non sono stati assicurati alla giustizia. La Corte europea ritiene che la disciplina nazionale sull'assenza dell'imputato, e l'interpretazione eccessivamente formalistica della suprema corte turca abbiano frustrato i tentativi messi in atto dalle altre istituzioni statali (come la polizia) per identificare e punire i responsabili. Viene infatti ricordato che non è contraria all'art. 6 Cedu la condanna pronunciata in assenza dell'imputato se - come nel caso di specie - questi ha avuto conoscenza del processo, e se può essere rappresentato in un grado successivo per proporre appello.

L'obbligo di cura ed assistenza per proteggere la vita dei detenuti è al centro della sent. 11 febbraio 2016, Karpylenko c. Ucraina, in cui la C. eur. dir. uomo riafferma il dovere delle autorità statali di dispiegare ogni misura ragionevolmente possibile per curare adeguatamente chi è sottoposto al regime carcerario. Nella specie, un parente del ricorrente era morto per una serie di patologie legate all'HIV; le autorità erano a conoscenza della situazione clinica, ma il soggetto non era stato visitato o sottoposto ai necessari esami diagnostici per mesi; anche il trattamento medico infine somministrato contro la tubercolosi si era rivelato del tutto carente. Inoltre, dopo il decesso, non era stata svolta un'appropriata istruttoria, né era stata esaminata la cartella clinica, con palese violazione degli obblighi procedurali derivanti dall'art. 2 Cedu. Lo stesso caso è stato analizzato anche sotto il profilo concernente l'art. 3 per i maltrattamenti subiti in carcere.

 

b) Art. 3 Cedu

La Corte europea ha condannato l'Italia per la nota vicenda dell'imam Abu Omar, rapito sul suolo italiano da agenti della CIA, trasferito in Egitto, detenuto e maltrattato. Le autorità italiane sono state riconosciute colpevoli della violazione degli obblighi sostanziali - in quanto non solo erano a conoscenza del piano delle forze statunitensi, ma avevano collaborato attivamente con queste -, e procedurali, poiché l'opposizione del segreto di Stato alle indagini ed il rifiuto di chiedere l'estradizione degli imputati statunitensi frustravano il pur lodevole sforzo della magistratura, garantendo di fatto l'impunità ai responsabili. (sent. 28 febbraio 2016, Nasr e Ghali c. Italia; per una sintesi, v. infra. Cfr., inoltre, in questa Rivista, le schede di M. Mariotti, La condanna della Corte di Strasburgo contro l'Italia sul caso Abu Omar, 28 febbraio 2016, e E. Selvaggi, Il caso Abu Omar davanti alla Corte Europea: qualche opportuna precisazione, 2 maggio 2016).

In tema di trattamenti inumani e degradanti commessi da rappresentanti delle forze dell'ordine, la sent. 23 febbraio 2016, Aleksandr Andreyev c. Russia concerne il caso di un cittadino russo interrogato presso una stazione di polizia per il suo presunto coinvolgimento in alcuni furti. Dopo essersi rifiutato di firmare una dichiarazione confessoria, il ricorrente era stato sottoposto ad una serie di volenze fisiche (gli era stata legata attorno al collo una corda che veniva tirata dai poliziotti, era stato appeso ad una trave con mani e gambe legate dietro la schiena); di conseguenza, decideva di sottoscrivere la dichiarazione. La Corte ribadisce il consolidato principio per cui laddove il ricorrente sia stato sottoposto alla custodia delle autorità, e si sia procurato delle lesioni, spetta allo Stato, con inversione dell'onere probatorio, dimostrare l'estraneità dei suoi agenti, prova che non è raggiunta nel caso di specie. Viene quindi ravvisata una violazione degli obblighi negativi discendenti dall'art. 3 Cedu. Inoltre, il rifiuto di aprire un'indagine penale ufficiale (in questo caso dopo che i medici ed il padre del ricorrente avevano informato la polizia e la procura), comporta una violazione degli obblighi positivi di matrice procedurale derivanti dall'art. 3. La Corte europea, inoltre, accerta la violazione dell'art. 5 per la detenzione illegittima presso il commissariato.

Principi di diritto del tutto simili in punto di obblighi negativi e di onere della prova vengono affermati nella sent. 4 febbraio 2016, Hilal Mammadv c. Azerbaigian. L'editore capo di un giornale era stato arbitrariamente arrestato da poliziotti in abiti civili, picchiato, insultato per la sua etnia ed ingiustamente accusato di detenzione di stupefacenti (la droga era stata messa sul corpo del ricorrente dagli stessi poliziotti) e di incitamento all'odio razziale. Vengono inoltre ravvisate violazioni degli obblighi procedurali di cui all'art. 3 (con riferimento all'attività investigativa tardiva e volutamente inefficace nell'assicurare la disponibilità delle prove) e all'art. 34 (poiché le autorità non hanno consentito al ricorrente di incontrare il legale che lo avrebbe rappresentato nella causa proposta alla C. eur. dir. uomo).

Un altro caso rilevante è la sent. 11 febbraio 2016, Pomilyayko c. Ucraina, in cui la Corte di Strasburgo qualifica il trattamento subito dalla ricorrente come tortura, data la gravità dei maltrattamenti (la donna si era presentata alla polizia per un interrogatorio ed era stata ammanettata, minacciata, incappucciata, strangolata, picchiata sulla testa e sul volto ed era svenuta diverse volte), lo scopo delle violenze (ottenere la confessione) e la pressione psicologica (la ricorrente era consapevole che, contemporaneamente, una sua amica veniva interrogata e forse maltrattata nel medesimo edificio), nonché l'umiliazione inflitta (la ricorrente aveva urinato involontariamente). Con riguardo alle violazioni degli obblighi procedurali, la Corte europea giudica le indagini avviate parziali, incostanti e mirate ad eludere l'affermazione di responsabilità dei sospetti. Inoltre, la sentenza ricorda che la riluttanza nell'attività investigativa in casi simili è già stata evidenziata come un problema sistemico in Ucraina; a fronte della mancata esecuzione di numerose sentenze che accertavano le violazioni convenzionali, la situazione del Paese era già stata in precedenza segnalata al Comitato dei Ministri ai sensi dell'art. 46 Cedu.

In tema di trattamenti inumani e degradanti subiti dai detenuti, segnaliamo la sent. 11 febbraio 2016, Karpylenko c. Ucraina, di cui abbiamo già trattato sub a): il figlio del ricorrente aveva riportato, durante la prigionia, lesioni che avevano richiesto un intervento chirurgico, salvo poi, una vola dimesso, essere riportato nella medesima struttura detentiva, senza che venisse fatta luce sui fatti. Viene ravvisata la violazione degli obblighi sostanziali e procedurali di cui all'art. 3. La Corte europea riconosce lo status di vittima al parente del defunto, nonostante il ritardo da questi mostrato nell'attivarsi presso le autorità, in quanto la richiesta non era tesa esclusivamente ad ottenere un risarcimento, bensì a stimolare un'adeguata indagine sui fatti).

Sullo stesso tema, segnaliamo la sent. 23 febbraio 2016, Mozer c. Moldavia e Russia (per una sintesi, v. infra), in cui viene accertata la violazione dell'art. 3 in relazione al rifiuto di sottoporre ad adeguate cure il ricorrente - tanto all'interno del carcere, quanto in una struttura ospedaliera - nonché al suo trasferimento in una struttura detentiva dalle condizioni igienico-sanitarie ancora peggiori della precedente, che hanno determinato l'aggravarsi delle patologie.

Non sono contrarie all'art. 3 Cedu le decisioni delle autorità nazionali di iniziare e continuare l'esecuzione della pena detentiva di un condannato anche quando egli abbia allegato di soffrire di varie patologie, senza però mai fornire dati medici a supporto delle sue affermazioni, e se ad ogni nuovo esame ordinato dall'autorità giudiziaria le sue condizioni non siano apparse incompatibili con la detenzione. La Corte di Strasburgo, nel ricordare di non potersi sostituire all'esame compiuto dalle autorità nazionali coadiuvate da esperti medici, sottolinea come il ricorrente sia stato sempre controllato dal personale sanitario del carcere e come le condizioni generali di detenzione fossero buone (sent. 18 febbraio 2016, Rywin c. Polonia; nella stessa sentenza viene esclusa la violazione dell'art. 6 Cedu, poiché nulla suggerisce che lo svolgimento di una parallela indagine parlamentare abbia influenzato il processo penale, né che il documento finale dell'inchiesta sia stato formulato in modo da ledere la presunzione di innocenza del ricorrente).

 

c) Art. 4 Cedu

Per la prima volta nella sua storia, la Corte europea è chiamata a stabilire se ad un detenuto possa essere imposto l'obbligo di lavoro anche oltre l'età pensionabile, alla luce dei caratteri del tutto particolari che l'attività lavorativa assume in carcere. In mancanza di un generale consensus tra gli Stati membri, ed anche alla luce del quadro di diritto internazionale, la sentenza esclude che tale obbligo costituisca una violazione dell'art. 4, comma 2 Cedu (sent. 9 febbraio 2016, Meier c. Svizzera; per una sintesi, v. infra).

 

d) Art. 6 Cedu

In tema di equità processuale, nella dec. 2 febbraio 2016, Arlewin c. Svezia (per una sintesi, v. infra), la Corte europea ha ritenuto conforme ai corollari del giusto processo la proiezione in udienza di un servizio televisivo d'inchiesta che dipingeva il ricorrente come frodatore, andato in onda TV due anni prima del processo ed avente ad oggetto i fatti per i quali il ricorrente sarebbe poi stato condannato. I giudici di Strasburgo sottolineano come la condanna del ricorrente sia stata interamente fondata sulle prove testimoniali assunte in dibattimento e sulle prove documentali prodotte dalla pubblica accusa. La proiezione del servizio TV, ormai di dominio pubblico, ha infine garantito maggiore trasparenza al processo perché ha consentito al ricorrente di esprimere la propria opinione al riguardo.

Sempre in materia di equità processuale, innumerevoli violazioni dell'art. 6 Cedu sono state riscontrate dalla Corte europea nel caso di cui alla sent. 23 febbraio 2016, Navalnyy e Ofitserov c. Russia (per una sintesi, vedi infra): dall'effetto pregiudizievole che la sentenza di patteggiamento emessa nei confronti del coimputato in processo separato ha avuto nel procedimento contro i ricorrenti (coimputati), alla lettura in dibattimento delle dichiarazioni rese dal coimputato prima di essere sentito come teste in contraddittorio; dall'arbitrarietà e imprevedibilità nell'applicazione delle norme di diritto penale sostanziale, essendo i ricorrenti perseguiti per condotte prive di rilievo penale, alla mancata analisi da parte dei giudici nazionali della censura secondo cui i ricorrenti sarebbero stati inquisiti in quanto oppositori politici.

Con riferimento al principio di ragionevole durata del processo, si segnala la sent. 2 febbraio 2016, Tavirlau c. Romania (per una sintesi, vedi infra): la Corte europea ha ritenuto eccessiva e irragionevole la durata - circa otto anni nonostante la scarsa attività istruttoria compiuta - di un processo penale contro due medici che, per negligenza, avevano causato gravissime lesioni al marito della ricorrente costituitasi parte civile. Il procedimento, infatti, dopo anche alcune manovre dilatorie dei ricorrenti, si era concluso con la prescrizione e la conseguente mancata punizione degli imputati.

Con la sent. 2 febbraio 2016, Meggi Cala c. Portogallo (per una sintesi, v. infra), è stata ritenuta illegittima la pronuncia con la quale la corte suprema portoghese ha rigettato il ricorso avverso una sentenza di condanna della corte di appello perché tardivo: l'errore della suprema corte è consistito nell'aver individuato il dies a quo del termine per impugnare la sentenza d'appello nella data di notificazione al difensore e non in quella di notificazione all'imputato (circa due mesi dopo), nonostante questi avesse fatto presente alla suprema corte di essere venuto a conoscenza della sentenza di appello soltanto al momento della notifica a sue mani.

Coerente con il principio di presunzione di innocenza è stata invece ritenuta una pronuncia con la quale i giudici belgi hanno negato al ricorrente l'indennità per l'ingiusta detenzione preventiva: nonostante egli sia stato definitivamente assolto, la condotta reticente e contraddittoria tenuta dal ricorrente durante le indagini ha fatto sorgere esigenze cautelari sufficienti a fondare la detenzione preventiva (sent. 9 febbraio 2016, Cheema c. Belgio).

 

e) Art. 7 Cedu

In un'interessante sentenza, la Corte europea afferma che l'art. 7 Cedu non può essere interpretato nel senso che sia proibita ogni interpretazione giurisprudenziale volta a precisare gradualmente il significato della norma e le condizioni per ritenere provato un reato, purché il risultato di tale interpretazione sia coerente con il nucleo essenziale dell'illecito e risulti ragionevolmente prevedibile (sent. 11 febbraio 2016, Dallas c. Regno Unito; per una sintesi, v. infra).

 

f) Art. 8 Cedu

Con una interessante decisione, dec. 23 febbraio 2016, Capriotti c. Italia (per una sintesi, vedi infra), la Corte europea ha ribadito la non arbitrarietà della teoria dell'instradamento, ormai consolidata nella giurisprudenza italiana, con la quale si considerano legittime le intercettazioni disposte anche su utenze estere senza ricorrere alla procedura di rogatoria internazionale quando le chiamate sono canalizzate su centrali site in Italia.

 

g) Art. 9 Cedu

La Corte europea ha avuto occasione di affermare che impedire ad un detenuto di ricevere la visita di un pastore, senza apparente motivo, costituisce un'indebita restrizione della libertà religiosa (sent. 23 febbraio 2016, Mozer c. Moldavia e Russia; per una sintesi, v. infra).

 

h) Art. 10 Cedu

In tema di diffamazione, la Corte di Strasburgo ha occasione di riprendere la distinzione tra fatti e giudizi di valore, ricordando che questi ultimi, per essere accettabili, devono essere legati ad una base fattuale sufficientemente solida. Nella specie, viene ritenuta non necessaria in una società democratica la sanzione civile di 1.200 euro imposta ad un parlamentare che, parlando con un giornalista, aveva espresso la propria opinione sull'insufficiente trattamento medico di cui il primo ministro aveva beneficiato in una clinica, questione fortemente discussa nell'opinione pubblica.  La sentenza affronta due aspetti interessanti: la reputazione di un ente - contrariamente al caso di una persona fisica - non comprende una dimensione morale, ed ha pertanto una portata minore quale contro-interesse rispetto alla libertà di espressione; inoltre, il ricorrente è un parlamentare eletto, qualifica che implica un giudizio più stringente quanto alle limitazioni compatibili con l'art. 10 Cedu (sent. 2 febbraio 2016, Erdener c. Turchia).

In un episodio di diffamazione a mezzo internet, viene affermato (richiamando la sentenza della grande camera del 16 giugno 2015 Delfi AS c. Estonia) che sia il provider, sia l'ente di auto-regolamentazione dei provider di uno Stato possono - in linea di principio - essere ritenuti responsabili per aver pubblicato o per non aver rimosso contenuti ingiuriosi postati sul web dagli utenti privati. Sui siti in questione era comparso un contributo che criticava le pratiche commerciali di un'agenzia immobiliare, al quale diversi utenti avevano commentato con espressioni volgari ed offensive; questi ultimi erano stati rimossi solo dopo l'inizio dell'azione civile. La Corte europea, tuttavia, afferma che i giudici nazionali non hanno correttamente bilanciato i diversi interessi in gioco: da un lato, l'interesse dell'agenzia immobiliare era di natura esclusivamente economica; dall'altro, i commenti esprimevano punti di vista ed il danno apportato non era particolarmente significativo; inoltre, non incitavano all'odio o alla violenza. La corte nazionale non aveva ritenuto sufficiente il meccanismo che consente la segnalazione e l'eliminazione dei singoli contenuti offensivi e la replica degli interessati, e aveva imposto una sanzione civile (250 euro), considerata non proporzionata dalla Corte europea; viene quindi ravvisata la violazione dell'art. 10 Cedu (sent. 2 febbraio 2016, Magyar Tartalomszolgáltatók Egyesülete e Index.Hu Zrt c. Ungheria).

Il margine di apprezzamento lasciato allo Stato è piuttosto ampio (e dunque sono possibili maggiori limitazioni della libertà di espressione) quando, accanto al benessere economico e alla reputazione di un ente, è in gioco anche un interesse economico più generale, come quello alla libera concorrenza, che merita quindi maggior tutela; tale margine, però, si restringe (e dunque sono ammesse meno limitazioni) quando le opinioni sanzionate vanno ad arricchire un dibattito di interesse generale, come in tema di salute pubblica. In ogni caso non viola l'art. 10 il provvedimento che inibiva il presidente dell'ordine dei medici viennesi dal continuare a definire "compagnia locusta" un'impresa che offriva servizi radiologici in concorrenza con l'ordine stesso, poiché l'espressione era eccessivamente negativa e svilente e la sanzione assai mite; le autorità nazionali avevano del resto ritenuto che l'intervento del presidente non integrasse gli estremi della diffamazione (illecito civile secondo la legislazione austriaca), ma costituisse un illecito anticoncorrenziale (sent. 16 febbraio 2016, Ärztekammer Für Wien and Dorner c. Austria).

 

i) Art. 11 Cedu

In materia di arresto e detenzione per la partecipazione ad una manifestazione non autorizzata, si segnala la sent. 11 febbraio 2016, Ibrahimov e altri c. Azerbaigian. La Corte di Strasburgo, innanzitutto, ribadisce il consolidato principio per cui la prescrizione di un'autorizzazione per le manifestazioni pubbliche non costituisce, di per sé, una violazione dell'art. 11, ma - allo stesso tempo - la trasgressione di queste regole non autorizza la dispersione dei manifestanti se questi tengono un atteggiamento assolutamente pacifico. L'arresto dei ricorrenti e la conseguente detenzione "amministrativa" di sette giorni erano stati formalmente motivati con la disobbedienza ad un ordine della pubblica autorità (si noti che una sanzione amministrativa era prevista solo per la disobbedienza, non anche per la semplice partecipazione ad una riunione); tuttavia, le stesse devono essere considerate interferenze ai sensi dell'art. 11 Cedu, poiché il contenuto dell'ordine, cui i ricorrenti avrebbero disobbedito, era cessare di partecipare ad una manifestazione non autorizzata. Tali limitazioni, come anche la dispersione dell'assembramento, non sono necessarie ed hanno carattere deterrente, e come tale determinano una violazione della disposizione convenzionale. La Corte europea afferma anche la violazione degli articoli 5 e 6 con riferimento all'illegittima detenzione, al limitatissimo tempo per preparare la difesa, alla mancata possibilità di contattare un difensore o di conoscere i documenti rilevanti, all'insufficiente motivazione della condanna.

Più radicale il giudizio della Corte di Strasburgo nella sent. 11 febbraio 2016, Huseynli c. Azerbaigian, che affronta il caso di tre membri del principale partito di opposizione arrestati e condannati a sette giorni di detenzione amministrativa dopo aver espresso la loro intenzione di partecipare ad una manifestazione di protesta. I provvedimenti sono stati formalmente giustificati con normative che sanzionano condotte non gravi contrarie all'ordine pubblico. Tuttavia, la Corte europea, sulla base di alcuni indici (l'impegno politico dei ricorrenti, la conoscenza della data della manifestazione, l'inconsistenza della ricostruzione compiuta nel procedimento amministrativo), li qualifica come misure tese a prevenire l'esercizio del diritto di riunione, dal carattere assolutamente arbitrario. Anche in questo caso, viene inoltre ravvisata la violazione degli art. 5 e 6 per l'illegittima limitazione della libertà personale, per gli ostacoli al diritto di assistenza legale e di motivazione, nonché per l'inadeguatezza della motivazione della decisione.

 

l) Art. 2 Prot. n. 4 Cedu

Una legge olandese finalizzata a combattere l'impoverimento e la disoccupazione nell'area metropolitana di Rotterdam aveva subordinato ad un'autorizzazione la fissazione di nuove residenze nel distretto. Il permesso era stato rifiutato alla ricorrente, che non possedeva un reddito da lavoro (ma viveva solo con il sussidio di disoccupazione); la donna aveva quindi dovuto traferirsi in un'altra area del distretto urbano, per la quale non era richiesta alcuna autorizzazione. La Corte europea giudica la restrizione del diritto a fissare la residenza rispondente ai requisiti di cui all'art. 2, Prot. n. 4 Cedu, tenuto conto dei limiti della stessa e della complessiva policy adottata dalle autorità: la misura, infatti, riguarda solo alcune zone della città, è soggetta ad una periodica revisione da parte delle istituzioni, e non si applica in alcune situazioni di particolare necessità del richiedente; inoltre, erano state previste una serie di accorgimenti per garantire che restassero disponibili sufficienti abitazioni per coloro ai quali il permesso veniva rifiutato. Nel caso di specie, la ricorrente non era riuscita a dimostrare che la propria situazione rientrasse in una delle eccezioni all'operatività della misura, ed aveva in ogni caso potuto stabilirsi a Rotterdam (sent. 23 febbraio 2016, Garib c. Olanda).

 

 

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2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, dec. 2 febbraio 2016, Arlewin c. Svezia

Nel 2004 una rete televisiva nazionale trasmetteva in tre occasioni un programma d'inchiesta nel quale il ricorrente era rappresentato come autore di diversi reati di frode e di altri crimini economici.

Nel 2006 la pubblica accusa instaurava un procedimento penale nei confronti del ricorrente avente ad oggetto i fatti denunciati dall'inchiesta giornalistica.

Il pubblico ministero allegava una vasta produzione documentale, chiedeva l'escussione di oltre 20 testimoni ed, infine, la proiezione in udienza del programma TV all'origine delle indagini.

Il ricorrente eccepiva fin dal primo grado di giudizio che la proiezione del programma TV avrebbe integrato una violazione del principio di equità processuale data l'impossibilità di confrontarsi con gli anonimi intervistati nel servizio ed inoltre ritenendolo idoneo ad influenzare l'organo giudicante.

Il collegio giudicante respingeva l'eccezione e condannava il ricorrente con sentenza poi confermata nei successivi due gradi di giudizio.

Egli deduce quindi la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu e dell'art. 6 comma 3, lettera d Cedu.

I giudici di Strasburgo dichiarano la censura manifestamente infondata.

In nessun caso la pubblica accusa ha fatto riferimento durante il processo al contenuto delle dichiarazioni anonime rese nel servizio televisivo. Inoltre, la motivazione di tutte le sentenze di condanna era ancorata esclusivamente alle prove documentali e alle testimonianze assunte in dibattimento in pieno contraddittorio.

Infine, la Corte europea rileva che il programma TV era andato in onda in tre diverse occasioni ed era di dominio pubblico (quindi: già conosciuto dai giudici), pertanto l'assunzione dello stesso come prova (comunque non utilizzata nella motivazione della sentenza) ha garantito al ricorrente maggiore trasparenza, avendo questi avuto la possibilità di esprimere in giudizio tutte le proprie osservazioni al riguardo. (Paola Concolino)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 2 febbraio 2016, Meggi Cala c. Portogallo

Il ricorrente subisce una condanna alla pena reclusiva di 15 anni. La sanzione è ridotta in appello ad anni 14 con una sentenza del 21 settembre 2010, notificata al difensore del ricorrente il 24 settembre 2010. Al ricorrente, tuttavia, il difensore nulla comunica tanto che egli ha conoscenza della pronuncia del 21 settembre 2010 soltanto il 9 novembre 2010, quando a seguito di sua istanza, la sentenza gli viene personalmente notificata. Il ricorrente revoca quindi il mandato difensivo e nomina un nuovo difensore il quale ricorre avverso la pronuncia, nonostante il termine d'impugnazione fosse scaduto, rilevando la tardività della notificazione. Tuttavia, la Corte suprema, rileva che né l'ordinamento portoghese né la giurisprudenza costituzionale impongono la notificazione personale del provvedimento all'imputato essendo sufficiente, per individuare il dies a quo del termine d'impugnazione, la data di notificazione al difensore e che, comunque, il precedente difensore aveva affermato di avere portato la sentenza d'appello a conoscenza del ricorrente e dei suoi familiari. Pertanto dichiara il ricorso irricevibile perché presentato oltre i termini di legge.

Il ricorrente deduce una violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu ritenendo leso il suo diritto di accesso alla giurisdizione. La Corte europea accoglie la doglianza del ricorrente: in primo luogo, il giudice nazionale ha considerato prevalente la dichiarazione del primo difensore su quella del ricorrente, nonostante non vi fosse alcuna prova della concreta conoscenza della sentenza da parte dell'imputato; in secondo luogo, i giudici di Strasburgo evidenziano come sia proprio la giurisprudenza nazionale ad imporre una deroga alla regola generale quando l'imputato sostiene di non avere avuto conoscenza del provvedimento. È pertanto evidente che un'interpretazione troppo restrittiva delle norme interne ed un'errata interpretazione della giurisprudenza nazionale ha prodotto l'effetto di privare il ricorrente del suo diritto di accesso alla giurisdizione. (Paola Concolino)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 2 febbraio 2016, Tavirlau c. Romania

Il marito della ricorrente dopo una frattura alla gamba destra è accompagnato dalla moglie in ospedale. Il medico annota erroneamente sulla cartella clinica che la gamba fratturata è la sinistra. Pertanto, nel corso dell'intervento, egli subisce l'inserimento di una placca metallica prima per errore nella gamba sinistra e poi anche nella gamba destra. La ricorrente denuncia quindi i medici per avere leso l'integrità fisica del marito (successivamente deceduto), reso permanentemente disabile.

I medici che avevano visitato e operato il marito della ricorrente sono quindi sottoposti ad un procedimento penale per lesioni colpose, negligenza nella professione e falso, all'interno del quale la ricorrente si costituisce parte civile.

La Corte europea ritiene che il procedimento nei confronti degli imputati abbia avuto una durata irragionevole, essendosi protratto - anche a causa di eccezioni di incostituzionalità sollevate dagli imputati a fini meramente dilatori - per circa otto anni, nonostante la scarsa attività istruttoria compiuta, ed essendosi concluso con la prescrizione dei reati e quindi la mancata punizione dei responsabili, oltre che con la ritardata soddisfazione della pretesa risarcitoria invocata dalla ricorrente. (Paola Concolino)

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 9 febbraio 2016, Meier c. Svizzera

Il sessantacinquenne ricorrente, condannato a quattro anni e quattro mesi di reclusione, aveva chiesto di essere esonerato dall'obbligo del lavoro durante la detenzione; la richiesta era stata rigettata, e, in conseguenza del rifiuto di lavorare, gli era stato imposto un regime detentivo più rigido, anche se revocato dopo breve tempo. Il tribunale federale svizzero, nel decidere definitivamente la questione, affermava che l'obbligo di lavoro non è contrario ai diritti umani protetti dalla Convenzione, che è finalizzato a favorire la risocializzazione e la rieducazione del detenuto, e viene declinato tenendo contro dell'età, delle capacità e degli interessi dei singoli. Inoltre, le normative sul pensionamento per ragioni di età non si applicano ai detenuti, poiché il contesto in cui si svolge il lavoro non è comparabile con quello del lavoro delle persone libere, non svolgendosi - per esempio - in una situazione di concorrenza regolata dalle leggi del mercato.

Il ricorrente lamenta la violazione dei suoi diritti protetti dall'art. 4 Cedu, dal momento che l'attività lavorativa viene pretesa contro la volontà del soggetto, sotto minaccia di una sanzione (l'irrigidimento del trattamento penitenziario) e, pertanto, in violazione del divieto espresso non solo dalla Cedu, ma anche dalla Convenzione n. 29 dell'Organizzazione internazionale del lavoro. L'obbligo del lavoro in età avanzata esorbiterebbe da quanto lo Stato può pretendere nel quadro di una detenzione legittima. Infine, pur riconoscendo lo scopo di risocializzazione, il ricorrente afferma di non aver bisogno - data l'età - di essere reinserito nella società come lavoratore attivo.

La Corte di Strasburgo affronta la questione del lavoro per i detenuti senza limiti di età per la prima volta nella sua storia. In assenza di una specifica previsione convenzionale, analizza lo scopo, la natura, la durata e le modalità di esecuzione dell'obbligo, aderendo alla ricostruzione del Governo, secondo cui si tratta di attività dalle finalità rieducative, molto diverse dal lavoro comunemente inteso e parametrate sulle esigenze e sulle condizioni psico-fisiche dei detenuti. In assenza di un generale consensus tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa, la sentenza afferma che le autorità svizzere godono di un considerevole margine di apprezzamento. Anche alla luce della citata convenzione dell'OIL - che ha un contenuto sovrapponibile alla Cedu e può agevolarne l'interpretazione - la Corte europea ritiene che l'attività lavorativa anche oltre l'età pensionabile possa essere ricompresa nella nozione di "lavoro normalmente richiesto" ad un detenuto (ai sensi dell'art. 4, comma 3, lett. a) Cedu), e pertanto non violi il divieto di lavori forzati o obbligatori di cui all'art. 4, comma 2 Cedu. (Marco Mariotti)

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 11 febbraio 2016, Dallas c. Regno Unito

La ricorrente era stata chiamata a far parte della giuria in un processo penale. Prima di assumere l'incarico, era stata avvertita oralmente da un impiegato della corte e dal giudice sull'importanza di non utilizzare internet per fare ricerche in relazione all'imputato o al caso che era chiamata a decidere. Un avviso scritto nella stanza riservata alla giuria chiariva che una simile condotta era qualificabile come oltraggio alla corte, illecito punito anche con la pena detentiva. Ciò nonostante, la ricorrente aveva effettuato alcune ricerche online a proposito dei precedenti dell'imputato e aveva poi condiviso alcune riflessioni con gli altri giurati. Conseguentemente, era stata sollevata dall'incarico. Nel procedimento penale per oltraggio aperto nei suoi confronti era stata condannata alla pena di sei mesi di reclusione.

Nel procedimento avanti la C. eur. dir. uomo, la ricorrente lamenta che la norma sull'oltraggio alla corte sarebbe stata interpretata in senso estensivo ed in malam partem, assimilando la disobbedienza ad un ordine alla trasgressione di una semplice indicazione del giudice; ancora, l'indicazione del magistrato non sarebbe stata formulata in modo univoco; infine, le corti nazionali non avrebbero adeguatamente distinto il dolo generico dal dolo specifico (il fine di arrecare un pregiudizio all'amministrazione della giustizia). Conseguentemente, un'interpretazione estensiva avrebbe prodotto una conseguenza penale pregiudizievole e non prevedibile, con violazione dell'art. 7 Cedu.

La Corte di Strasburgo si richiama al consolidato principio in base al quale l'imputato deve poter sapere - se necessario usufruendo dell'interpretazione giurisprudenziale e dell'assistenza di un legale - quali condotte comporteranno una conseguenza penale. Tuttavia, l'art. 7 non proibisce le interpretazioni giurisprudenziali della norma che ne chiariscano gradualmente il significato, purché il risultato resti coerente con il nucleo essenziale dell'illecito e sia ragionevolmente prevedibile dall'imputato. Nel caso di specie, la corte nazionale riteneva che il dolo specifico potesse essere derivato dalla violazione dolosa di un'indicazione del giudice che proibiva di acquisire informazioni fuori dal processo, ma tale considerazione non si traduceva nel dare per presupposto il dolo specifico. Inoltre, è evidente come nel contesto in cui era stata formulata, la direttiva del giudice fosse assimilabile ad un ordine e risultasse chiara. Pertanto, l'interpretazione giudiziale ha contributo - in modo prevedibile - a chiarire le regole per la responsabilità in caso di oltraggio. Viene quindi esclusa la violazione dell'art. 7 Cedu. (Marco Mariotti)

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, dec. 23 febbraio 2016, Capriotti c. Italia

Il ricorrente, sospettato di essere coinvolto in un traffico internazionale di stupefacenti, è stato sottoposto ad intercettazioni all'interno di un'indagine complessa nel corso della quale venivano intercettate anche utenze estere. Pur avendo eccepito l'illegittimità delle intercettazioni anche ai giudici delle impugnazioni, egli è stato condannato in tre gradi di giudizio.

Il ricorrente deduce una violazione degli artt. 8 e 6 Cedu, sostenendo l'illegalità delle intercettazioni perché disposte anche nei confronti di utenze estere senza rogatoria internazionale e, dunque, l'iniquità del processo nei suoi confronti essendo stato condannato sulla base di tali intercettazioni, alcune delle quali interamente estere.

La Corte europea ha dichiarato tali censure manifestamente infondate.

I giudici di Strasburgo ritengono innanzitutto che le intercettazioni nei confronti del ricorrente rappresentino un'ingerenza prevista dalla legge ai sensi dell'art. 8 comma 2 Cedu in quanto disposte conformemente agli art. 266 e ss. c.p.p. ed inoltre evidenziano come non si pongano in questo caso questioni di accessibilità alla legge: l'applicazione della teoria dell'instradamento, secondo la quale non è richiesto il ricorso alla procedura di rogatoria internazionale quando le chiamate provenienti da utenze estere siano canalizzate su centrali site in Italia, è ormai legittimata da giurisprudenza consolidata e non appare alla Corte europea irragionevole o arbitraria.

In secondo luogo, sempre ai sensi dell'art. 8 comma 2 Cedu, tale ingerenza è considerata dalla Corte europea come necessaria in una società democratica, in quanto è stata il principale strumento per accertare l'esistenza di un importante traffico di stupefacenti nel quale era coinvolto anche il ricorrente.

Anche la censura relativa all'art. 6 Cedu non coglie nel segno: le intercettazioni relative all'instradamento risultano legittime e necessarie e pertanto non vi sono i presupposti per ritenere violata l'equità processuale. Quanto invece all'impiego di quelle interamente svolte all'estero, i giudici di Strasburgo ritengono di non avere sufficienti elementi per revocare in dubbio le conclusioni dei giudici nazionali ad avviso dei quali le intercettazioni in questione non hanno avuto un ruolo determinante ai fini della condanna del ricorrente. (Paola Concolino)

 

C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 23 febbraio 2016, Mozer c. Moldavia e Russia

Il ricorrente è un cittadino moldavo che era stato accusato di truffa dalle autorità della "Repubblica di Transnistria" (entità separatista non riconosciuta all'interno del territorio della Moldavia); affermava di essere stato minacciato e maltrattato durante la custodia cautelare; lamentava inoltre le pietose condizioni igienico-sanitarie della prigione che avrebbero aggravato le sue patologie respiratorie ed il rifiuto di un trattamento medico e del trasferimento in ospedale. Gli era stata inoltre negata la visita di un pastore e, per un certo periodo, dei parenti. A fronte delle numerose richieste di intervento dei famigliari e dei legali, le autorità moldave rispondevano di non poter intervenire, e di non essere in grado di assicurare l'osservanza della Cedu in quella regione a causa delle condizioni politiche. Interpellata sulla questione, l'ambasciata russa in Moldavia inviava una lettera di protesta alle autorità della Transnistria, che rispondevano affermando la loro esclusiva giurisdizione. Dopo la condanna a pena sospesa, il ricorrente era fuggito in altra parte della Moldavia e poi in Svizzera. Un tribunale della Transnistria, in conseguenza della fuga, decideva l'esecuzione della pena sospesa, ma la sentenza veniva cassata dalla corte suprema moldava perché emessa da un ente illegittimo. Il vice primo ministro moldavo prendeva inoltre contatti con le autorità russe, ucraine e statunitensi, nonché con alcuni organismi internazionali, ed il procuratore generale moldavo informava il legale del ricorrente di aver aperto un'indagine sull'illegittima detenzione subita dal sig. Mozer.

In primo luogo, la Corte europea, rifacendosi a precedenti che riguardano la medesima situazione territoriale, afferma la giurisdizione di entrambi gli Stati: da un lato, i fatti sono avvenuti in territorio moldavo, e la presenza di un'entità statale non riconosciuta non esime le autorità legittime dall'obbligo di assicurare il rispetto dei diritti umani. Dall'altro, la Russia ha giurisdizione extraterritoriale in virtù dell'appoggio politico, militare ed economico che continua a fornire ai separatisti (come accertato da numerose fonti internazionali).

Il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 5 Cedu, in quanto il suo arresto e la sua condanna sono stati decisi da un organo illegittimo e non riconosciuto secondo il diritto internazionale. La Corte europea ricorda che anche gli atti di tali autorità possono essere considerati validi, purché esse operino in un quadro di legalità che rifletta una tradizione giuridica compatibile con la Convenzione. Nel caso di specie, al contrario, sono evidenti la parzialità ed arbitrarietà delle decisioni.

La Corte di Strasburgo prende poi in considerazione la violazione dell'art. 3 Cedu (in tale esame resta assorbita la questione della lesione del diritto alla vita, protetto dall'art. 2, poiché il ricorrente è ancora vivo e non ha corso un imminente pericolo di vita). La sentenza ricorda che dall'art. 3 non deriva il diritto di un detenuto malato ad essere rilasciato, ma quest'ultimo deve ricevere assistenza medica adeguata. L'amministrazione penitenziaria non solo ha rifiutato al ricorrente il ricovero in ospedale, ma l'ha trasferito in altra struttura detentiva, le cui condizioni igienico-sanitarie erano ancora peggiori della precedente, situazione che ha contribuito ad aggravare il decorso della patologia asmatica.

La sentenza ricorda poi che la possibilità per un detenuto di mantenere contatti con la sua famiglia è una dimensione essenziale del diritto alla vita famigliare. Per l'incerto quadro normativo, la Corte europea non può valutare se il diniego della visita dei parenti e, successivamente, l'obbligo di parlare russo durante i colloqui abbiano un fondamento legislativo; tuttavia, le restrizioni non sono state in alcun modo giustificate ed appaiono assolutamente sproporzionate; tanto basta per integrare una violazione dell'art. 8 Cedu. Le stesse argomentazioni si applicano al rifiuto della visita del pastore, che costituisce violazione dell'art. 9.

In relazione ad ognuno dei diritti lesi, la sentenza stabilisce che le autorità moldave non sono venute meno agli obblighi positivi di cui erano titolari: da un lato, hanno compiuto ogni sforzo per ristabilire il controllo sulla regione, e, dall'altro, si sono attivate per garantire, nei limiti del possibile, i diritti del ricorrente, anche ricercando la cooperazione con altri stati ed organismi internazionali. Tali comportamenti portano la Corte europea ad escludere anche la violazione dell'art. 13 Cedu. Al contrario, anche se non è provato il loro coinvolgimento diretto negli eventi che hanno determinato una lesione dei diritti del ricorrente, le autorità russe sono incorse in una violazione degli obblighi convenzionali a causa del controllo effettivo sulla regione e del loro supporto alle autorità della Transnistria; per gli stessi morivi, hanno violato anche l'art. 13 Cedu. (Marco Mariotti)

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 23 febbraio 2016, Navalnyy e Ofitserov c. Russia

I ricorrenti, accusati di avere dissipato le risorse finanziarie di un'impresa di stato mediante operazioni finanziarie, sono condannati per il reato di appropriazione indebita.

Coinvolto nell'inchiesta era un altro soggetto al quale le autorità inquirenti avevano consentito di essere giudicato in un procedimento separato che si sarebbe concluso rapidamente con un accordo di patteggiamento a condizioni vantaggiose purché fornisse informazioni sull'operato dei ricorrenti e prestasse la propria testimonianza nel processo separatamente instaurato nei loro confronti.

I ricorrenti deducono più violazioni dell'art. 6 comma 1 Cedu e la Corte europea ritiene fondata ciascuna censura.

In primo luogo, la sentenza di patteggiamento emessa nei confronti del coimputato in un procedimento separato al quale i ricorrenti non avevano partecipato ha avuto un effetto pregiudizievole nel procedimento contro i ricorrenti: la necessità di non discordarsi da una pronuncia precedente che accertava i medesimi fatti ha indotto le autorità nazionali ad attribuirvi implicitamente forza di cosa giudicata anche nei confronti degli estranei al relativo processo. Inoltre, è stata data lettura alle dichiarazioni del coimputato prima che questi venisse sentito come teste contro i ricorrenti. Una tale operazione, ad avviso dei giudici di Strasburgo, ha avuto l'effetto di condizionare il teste in modo che questi si attenesse a confermare quella versione dei fatti (conforme alla tesi d'accusa) anche perché, in caso contrario, avrebbe perduto i benefici conseguiti al patteggiamento.

Peraltro, ad avviso della Corte europea, vi è stata pure un'applicazione arbitraria ed imprevedibile della legge penale sostanziale: i fatti ritenuti integranti il delitto di appropriazione indebita sono in realtà, ad avviso della Corte edu, normali attività di intermediazione commerciale prive di rilievo penale alcuno.

Indicativa, infine, è l'elusione operata dalle autorità nazionali quanto all'eccezione sollevata dai ricorrenti i quali ritenevano di essere stati sottoposti a procedimento penale perché dissidenti politici. Invero, plausibile è tale conclusione dal momento che, soprattutto il primo dei ricorrenti, militava attivamente nel partito opposto a quello di maggioranza. (Paola Concolino)