A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.
Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, per questo mese, da Marco Mariotti e Sara Longo. L'introduzione è a firma di Marco Mariotti per quanto riguarda gli artt. 2, 3 e 10 Cedu, mentre si deve a Sara Longo la parte relativa agli artt. 5, 6, 8, 13 e 4 prot. 7 Cedu.
1. Introduzione
a) Art. 2 Cedu
b) Art. 3 Cedu
c) Art. 5 Cedu
d) Art. 6 Cedu
e) Art. 8 Cedu
f) Art. 10 Cedu
g) Art. 13 Cedu
h) Art. 4 Prot. n. 7 Cedu
2. Sintesi delle pronunce più rilevanti
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1. Introduzione
a) Art. 2 Cedu
Particolarmente interessante la sent. 30 marzo 2016, Armani Da Silva c. Regno Unito (per una sintesi, v. infra), in relazione alle indagini sull'omicidio di un soggetto, erroneamente scambiato per un terrorista, da parte della polizia londinese. La Corte di Strasburgo afferma che l'erronea percezione dell'agente deve essere valutata su base essenzialmente soggettiva; inoltre, ammette che il procuratore possa decidere di non accusare formalmente i sospetti se, in base alle prove raccolte, vi siano meno del 50% di probabilità di condanna.
Nella sent. 22 marzo 2016, Elena Cojocaru c Romania viene esaminato il caso di una donna, incinta di otto mesi, che aveva lamentato forti dolori addominali. Al contrario del medico dell'ospedale, il medico di una clinica privata le aveva diagnosticato una gravissima sindrome pre-natale, che rendeva necessario un parto cesareo per salvarle la vita. Forse a causa di un rifiuto del primo sanitario di procedere in tal senso, la donna veniva trasferita in ambulanza (e senza essere accompagnata da un medico) nella clinica dove lavorava il secondo sanitario, distante 150 chilometri. Poco dopo l'intervento con parto cesareo, madre e figlio morivano. Dopo le prime indagini, la procura rifiutava di aprire un formale procedimento penale; la decisione veniva poi annullata da un giudice che ordinava l'imputazione coatta, ma nel frattempo interveniva la prescrizione degli illeciti. La Corte europea sottolinea che lo Stato non può essere considerato responsabile per ogni errore medico che conduca alla morte di un privato; tuttavia, grava sulle autorità l'obbligo di predisporre un sistema efficiente e con personale adeguatamente formato. Nel caso di specie, la mancanza di coordinamento tra le strutture sanitarie e l'inspiegabile rischio del trasferimento in ambulanza senza l'assistenza di un dottore costituiscono una violazione di tali obblighi. Per quanto riguarda la reazione delle autorità, le prime indagini sono state condotte superficialmente, senza un'indagine medico-forense e senza approfondire le ragioni delle decisioni adottate; l'inefficacia della tutela giudiziale complessivamente accordata ai parenti della donna costituisce di per sé un'ulteriore violazione dell'art. 2.
Nella sent. 23 marzo 2016, F.G. c. Svezia (per una sintesi, vedi infra), la Corte di Strasburgo, in un caso di rigetto di una domanda di asilo, ribadisce che l'onere di provare il rischio di morte, tortura o trattamenti inumani e degradanti in caso di espulsione spetta al richiedente. Tuttavia, le autorità devono valutare d'ufficio se un rischio generale comprovato da altre fonti - come quello concernente gruppi religiosi regolarmente discriminati - si applichi a quel richiedente, anche se questi non lo allega a fondamento della propria domanda. Il principio, pur se affermato in relazione a una procedura di asilo, sembra poter essere esteso anche ai casi di espulsione dello straniero conseguenti a una condanna penale dello stesso.
b) Art. 3 Cedu
Nella sent. 31 marzo 2016, Alexey Petrov c. Bulgaria (per una sintesi, vedi infra) viene esclusa la violazione dell'art. 3 in relazione all'intervento di forze speciali anti-terrorismo per arrestare il ricorrente (sospettato di appartenere ad un'organizzazione mafiosa): la valutazione circa la necessità della forza utilizzata nell'operazione deve essere calibrata sulla possibile reazione del soggetto. Questi, infatti, aveva fatto parte dei servizi di sicurezza bulgari, era stato addestrato nelle arti marziali e nell'uso delle armi, circostanze che rendevano del tutto probabile una sua reazione pericolosa per contrastare il tentativo di arresto. L'intervento degli agenti non ha in ogni caso determinato una sofferenza fisica e psicologica tale da integrare un trattamento inumano e degradante.
In materia di obblighi positivi di criminalizzazione e punizione dei responsabili di stupro, si segnala la sent. 15 marzo 2016, M.G.C. c. Romania. La ricorrente, all'epoca dei fatti undicenne, era stata violentata da alcuni vicini di casa e da alcuni loro conoscenti. Nel conseguente processo penale, l'imputazione veniva derubricata al reato di atti sessuali con minorenne, dal momento che - secondo le autorità - mancavano sia la prova dell'assenza del consenso, sia la prova diretta della violenza; inoltre, la ricorrente non aveva riferito l'episodio ai genitori immediatamente dopo i fatti, ma solo alcune settimane più tardi. La Corte europea ricorda che gli Stati membri hanno l'obbligo punire efficacemente coloro che si rendono responsabili di lesioni di diritti fondamentali ed incomprimibili, come la libertà sessuale. Le corti nazionali non hanno adeguatamente considerato tutte le circostanze del caso concreto, in particolar modo l'età della ragazza. A dispetto di una perizia psichiatrica che indicava come la vittima non fosse in grado di prevedere le conseguenze delle proprie azioni, non hanno ritenuto che il suo eventuale consenso potesse essere considerato invalido; non hanno indagato sulle ragioni che la stessa avrebbe avuto nel muovere una falsa accusa; non hanno considerato che il suo silenzio subito dopo i fatti avrebbe potuto essere la conseguenza di una reazione psicologica; infine, hanno preteso una prova diretta della violenza fisica (come segni sul corpo o testimonianze dirette), senza considerare i numerosi indizi complessivamente presenti. Per queste ragioni, viene riconosciuta una violazione degli art. 3 e 8 Cedu.
Ancora in relazione all'obbligo di condurre rapidamente indagini efficaci per interrompere le condotte illegittime ed assicurare i responsabili alla giustizia, soprattutto a fronte di una seria allegazione di trattamenti inumani e degradanti, si segnala la sent. 17 marzo 2016, Zalyan e altri c. Armenia. I ricorrenti erano stati arrestati durante il servizio militare in quanto sospettati di aver ucciso due commilitoni; denunciavano di essere stati maltrattati dai superiori e dalla polizia militare durante gli interrogatori e la successiva detenzione cautelare. A fronte di tali allegazioni (che avrebbero dovuto sollecitare ad un'azione immediata per verificare le violazioni, potenzialmente ancora in atto) le autorità non intervenivano prontamente per individuare o punire i responsabili, non raccoglievano testimonianze potenzialmente significative o non tenevano in adeguato conto quelle raccolte, né ordinavano esami medici per verificare le condizioni dei ricorrenti. Le uniche indagini, svolte all'interno del procedimento a carico dei ricorrenti, devono essere considerate inadeguate dal momento che la corte di cassazione annullava il giudizio di merito per le molteplici violazioni ed omissioni procedurali. La Corte europea accerta anche la violazione dell'art. 5 Cedu: i ricorrenti avevano sofferto un'illegittima detenzione, pretestuosamente giustificata con una sanzione disciplinare, non erano stati informati delle accuse mosse contro di loro, non erano comparsi prontamente davanti ad un giudice.
Insiste sulla necessità di indagini celeri per fornire una protezione effettiva dei diritti umani la sent. 22 marzo 2016, M.G. c. Turchia, che riporta il caso di una donna che aveva denunciato il marito per maltrattamenti ed era scappata da casa; aveva nel frattempo ottenuto il divorzio. Le autorità ordinavano una perizia per accertare le condizioni psico-fisiche della donna, ma procedevano all'interrogatorio dell'uomo soltanto 5 mesi dopo, ed aprivano un formale procedimento penale a carico di quest'ultimo oltre 5 anni più tardi, procedimento che - peraltro - non sembrava concluso al momento del ricorso alla C. eur. dir. uomo. La sentenza richiama gli obblighi internazionali che la Convenzione di Istanbul pone a carico degli Stati al fine di sviluppare particolari strumenti di tutela contro la violenza sulle donne, stigmatizza la lentezza della risposta delle autorità ed evidenzia una significativa lacuna nella legislazione turca: una legge consentiva infatti di applicare misure per proteggere la donna vittima di violenza famigliare, ma la sua applicazione per le coppie divorziate era controversa e sostanzialmente lasciata alla discrezionalità delle corti civili. Solo dal 2012 una differente previsione legislativa prevedeva misure di protezione anche in questi casi. Conseguentemente, viene affermata la violazione dell'art. 3 Cedu. Inoltre, viene accertata una situazione di oggettiva discriminazione delle donne, in violazione dell'art. 14 Cedu.
In tema di adeguatezza delle condizioni detentive per soggetti disabili, si segnala la sent. 22 marzo 2016, Butrin c. Russia. Il ricorrente, condannato ad una pena detentiva di 19 anni, era diventato completamente cieco. Nonostante il parere favorevole di una commissione medica, due diverse corti rigettavano la richiesta di interrompere l'esecuzione della pena in una colonia di lavoro. Il soggetto aveva enormi difficoltà ad orientarsi all'interno della struttura, trascorreva gran parte della giornata in cella e non riusciva a prendere parte alle attività lavorative. La Corte europea afferma che laddove le autorità statali decidano di non esonerare una persona disabile dalla detenzione, devono tenere in considerazione le speciali necessità di questa, per evitarle inutili sofferenze; l'assistenza necessaria deve essere prestata da personale qualificato e non è sufficiente l'aiuto volontario di altri detenuti. In particolare, costituisce un trattamento contrario all'art. 3 Cedu la detenzione di un soggetto che non può fare a meno di vivere in una cella comune ed è costretto a chiedere aiuto per i più semplici movimenti. L'inefficacia dei rimedi offerti, in relazione alla lesione di un diritto che non tollera restrizioni, integra anche la violazione dell'art. 13 Cedu.
Il ricorrente, cittadino afgano, era stato ricoverato in ospedale dopo essere stato aggredito ed accoltellato. Una volta dimesso, benché diversi certificati medici indicassero che le sue condizioni erano incompatibili con la detenzione, veniva trattenuto per dieci giorni in una stazione di polizia poiché sprovvisto del permesso di soggiorno, e, successivamente, gli veniva notificato un ordine di espulsione dal Paese. La Corte di Strasburgo, poiché il ricorrente non ha corso un serio pericolo di vita, non esamina le doglianze dall'angolo visuale dell'art. 2 Cedu, ma dell'art. 3 Cedu, ed accerta la violazione degli obblighi sostanziali. Afferma che lo Stato non è obbligato a rilasciare un detenuto malato, ma ad assicurargli un adeguato trattamento medico. Le autorità non hanno tenuto conto delle condizioni del ricorrente e lo hanno riportato in ospedale per accertamenti soltanto un giorno prima della liberazione; inoltre, le condizioni igieniche di detenzione erano precarie - un fenomeno segnalato per diverse stazioni di polizia greche da rappresentanti dell'Onu e da altri osservatori. L'inefficacia dei rimedi offerti comporta anche la violazione dell'art. 13 Cedu. È stato inoltre violato l'obbligo di avviare indagini adeguate per punire i responsabili: gli sforzi per identificare gli aggressori sono stati notevolmente lacunosi, non è stata disposta una perizia medico-legale, le testimonianze raccolte non sono state utilizzate per orientare le indagini. L'intera vicenda si inserisce, infine, in una serie di episodi di violenza razzista tollerati dalle autorità greche (sent.24 marzo 2016, Sakir c. Grecia).
Del tutto sovrapponibili i principi di diritto affermati, con riguardo agli obblighi di assistenza medica dei detenuti, nella sent. 22 marzo 2016, Kolesnikovich c. Russia. Il ricorrente aveva sofferto di ulcera, concussioni e contusioni cerebrali e spinali, e le sue condizioni di salute erano notevolmente peggiorate all'interno della colonia correzionale dove stava scontando la pena: molti farmaci necessari erano stati forniti al ricorrente solo dalla madre, mentre i medici della struttura avevano ordinato esclusivamente un trattamento sintomatico e non avevano definito alcun piano terapeutico a lungo termine.
Ancora in tema di mancata assistenza medica ad un detenuto minorenne, si segnala la sent. 23 marzo 2016, Blokhin c. Russia. Il ricorrente, dodicenne, soffre di incontinenza urinaria e di disturbi psichici e comportamentali, a causa dei quali i medici avevano prescritto farmcai e regolari viste neurologiche e psichiatriche. Sospettato di estorsione, era stato arrestato, ma, a causa della troppo giovane età, nessun procedimento penale veniva formalmente aperto a suo carico. Nondimeno, un tribunale lo condannava alla detenzione di 30 giorni in un centro per minorenni, a scopo preventivo e correzionale. Durante la detenzione non gli era stata garantita l'assistenza medica necessaria e, al termine, aveva dovuto trascorrere almeno un mese in ospedale, oltre ad un'ulteriore periodo di degenza in una clinica psichiatrica. La Corte di Strasburgo riafferma il consolidato principio secondo cui un trattamento medico adeguato a beneficio dei detenuti non si esaurisce nella garanzia di visite diagnostiche o nella prescrizione di farmaci, ma comprende il dovere di monitorare la salute del soggetto, e di fornire una risposta che si adatti effettivamente all'evolversi delle condizioni dello stesso. Deve infatti essere garantito un livello di assistenza comparabile a quello che lo Stato assicura ai cittadini liberi. La mancata prestazione di queste cure è di per sé sufficiente ad integrare la violazione dell'art. 3 Cedu, a prescindere dalle altre condizioni di detenzione. Inoltre, laddove il ricorrente, a causa della sudditanza alle autorità statali, abbia difficoltà a provare i trattamenti inumani e degradanti subiti, grava sullo Stato l'onere della prova contraria. Vengono inoltre accertate le violazioni dell'art. 5 Cedu (la detenzione è illegittima perché non ha quello scopo educativo previsto dalla legge per le misure nei confronti dei minorenni) e dell'art. 6 Cedu (non sono state applicare le necessarie garanzie procedimentali né speciali accorgimenti per salvaguardare l'interesse e il benessere del minore).
La sent. 1° marzo 2016, Andrey Lavrov c. Russia riporta il caso di un detenuto malato di cancro che, a dispetto di due pareri medici che l'avevano dichiarato idoneo alla liberazione anticipata, non era stato rilasciato. In prigione non aveva ricevuto trattamenti chemio- e radioterapici né altre cure necessarie. La Corte europea aveva inoltre ordinato - nella forma di una interim measure - che il ricorrente fosse immediatamente liberato ed esaminato da esperti medici indipendenti; il Governo in un primo momento non vi ottemperava, adducendo la motivazione che l'autorità giudiziaria aveva già ritenuto di non rilasciare il ricorrente. La sentenza ricorda che frapporre ostacoli o non collaborare all'esecuzione di una interim measure, che ha carattere vincolante e viene ordinata solo di eccezionale necessità e gravità, costituisce un'inaccettabile indebolimento dell'effettiva tutela dei diritti, incompatibile con quanto disposto dall'art. 34 Cedu.
La sent. 24 marzo 2016, Korneykova e Korneykov c. Ucraina riguarda il caso di una donna incinta che si trovava in custodia cautelare. Trasferita in ospedale per partorire, la ricorrente era stata ammanettata al letto (tranne che al momento del parto): tale costrizione fisica, ammissibile nel contesto di una detenzione legittima, vene ritenuta ingiustificabile alla luce delle condizioni della donna e del suo comportamento non violento. Madre e figlio erano stati successivamente riportati in prigione; la Corte europea ricorda che la decisione di lasciare il figlio insieme alla madre detenuta o di separare i due deve essere presa nel miglior interesse della prole, ma deve in ogni caso essere assicurato ad entrambi un ambiente salubre ed adatto. Nel caso di specie, la ricorrente era stata malnutrita, non aveva avuto la possibilità di uscire per un tempo sufficiente dalla cella e le condizioni igieniche della struttura erano inadeguate; il neonato non era stato curato o visitato. Infine, la ricorrente era stata posta in una gabbia all'interno dell'aula giudiziaria durante le udienze del suo processo, circostanza che viene considerata di per sé un affronto alla dignità umana. In virtù delle sofferenze fisiche e psicologiche patite, la Corte di Strasburgo qualifica ciascuna delle situazioni sopra descritte come un trattamento inumano e degradante contrario all'art. 3 Cedu.
La sent. 15 marzo 2016, Vidish c. Russia riporta un caso di sovraffollamento carcerario in una struttura detentiva riservata a soggetti tossicodipendenti e malati di tubercolosi (il ricorrente, sieropositivo, soffriva inoltre di epatite). La superficie calpestabile a disposizione del detenuto era inferiore ai 3 m2, dato di per sé sufficiente per integrare una violazione dell'art. 3 Cedu. Inoltre, lo spazio tra due brande - benché tutti gli occupanti fossero soggetti malati - era di 50 centimetri e le inferiate alle finestre ostruivano l'ingresso della luce solare. La Corte europea ravvisa inoltre una violazione dell'art. 8 con riguardo alla limitazione delle visite dei parenti e all'apertura della corrispondenza intercorsa tra il ricorrente e la C. eur. dir. uomo.
Le generali condizioni di detenzione sono anche al centro della sent. 17 marzo 2016, Zakshevskiy c. Ucraina. La Corte europea accerta la violazione dell'art. 3 Cedu a causa del sovraffollamento, del tempo troppo breve che i detenuti trascorrevano fuori dalla cella, del fatto che alcuni detenuti malati di tubercolosi fossero stati assegnati alla stessa cella del ricorrente. Nella pronuncia viene inoltre affermato che, in linea di principio, la prassi di ammanettare i detenuti mentre si trovano fuori dalla cella non costituisce un trattamento inumano o degradante, pur con qualche riserva sull'applicazione indiscriminata di questa misura, senza alcuna considerazione per le diverse situazioni e la pericolosità di ogni singolo detenuto.
Sull'onere della prova che spetta al richiedente asilo, si segnala l'importante sent. 23 marzo 2016, F.G. c. Svezia (vedi quanto accennato sub a) e, per una sintesi, vedi infra).
c) Art. 5 Cedu
In tema di libertà personale e delle garanzie ad essa correlate, la sent. 17 marzo 2016, Zakshevskiy c. Ucraina (per una sintesi, v. infra), ha affermato ancora una volta il diritto ad un controllo tempestivo ed effettivo sulla legalità della detenzione. Nello specifico, la Corte europea accerta un duplice profilo di violazione: anzitutto, nel corso delle indagini preliminari, per ben due volte le autorità hanno procrastinato la detenzione provvisoria del ricorrente, senza consentire né a lui né al suo difensore di partecipare alle udienze; in seconda battuta, nonostante nel corso del dibattimento il ricorrente abbia avanzato almeno tre richieste di riesame della misura detentiva e le autorità abbiano provveduto ad esaminare in due distinte occasioni la questione del perdurante mantenimento in vinculis o meno del ricorrente, la legislazione ucraina vigente all'epoca dei fatti non obbligava il tribunale a giustificare la propria decisione. In entrambe le ipotesi, dunque, si è registrata l'integrale assenza di una procedura effettiva per ottenere un controllo giurisdizionale sulla legalità della detenzione, in netto contrasto col disposto dell'art. 5 comma 4 Cedu.
d) Art. 6 Cedu
Sul versante dell'equità processuale, la sent. 1° marzo 2016, Arlewin c. Svezia (per una sintesi, v. infra) accerta la violazione dell'art. 6 Cedu per il denegato accesso alla giustizia: il ricorrente, infatti, diffamato da un programma televisivo svedese, registrato però nel Regno Unito, non ha potuto agire davanti alle autorità svedesi né per diffamazione né per ottenere il risarcimento del danno. La preclusione processuale derivante dall'interpretazione del diritto comunitario e di quello interno di esecuzione, in virtù del quale il ricorrente avrebbe dovuto adire le autorità britanniche, non ha superato il vaglio del giudice di Strasburgo, a mente del quale la realizzazione del programma ad opera di un cast svedese, in lingua svedese, destinato alle tv svedesi, rendeva necessario assicurare al ricorrente l'accesso alla giustizia in Svezia.
Con la sent. 29 marzo 2016, Gómez Olmeda c. Spagna, la Corte europea viene investita del sindacato sull'equità processuale per essere stato il ricorrente condannato per la prima volta nel corso del giudizio d'appello, senza essere sentito personalmente. Nello specifico, il giudice di secondo grado, riesaminando nel merito la vicenda, ha fornito una diversa valutazione delle prove raccolte in primo grado, rivalutando altresì l'elemento soggettivo del reato, sulla base della videoregistrazione dell'esame dell'imputato condotto in primo grado. La Corte europea, tuttavia, ritiene che la visione della videoregistrazione dell'esame di primo grado non possa compensare la mancata audizione del ricorrente da parte del giudice d'appello, perché piuttosto che assicurare il diritto all'equo processo del ricorrente, rappresenta un mero passaggio interno al giudizio di secondo grado.
In tema di diritto di difesa, invece, la sent. 1° marzo 2016, Gorbunov e Gorbachev c. Russia (per una sintesi, v. infra), riconosce la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu, poiché in occasione del giudizio d'appello il primo ricorrente, da un lato, ha potuto comunicare col difensore, assegnatogli d'ufficio, solo poco prima dell'inizio dell'udienza e per di più a mezzo di collegamento audiovisivo; dall'altro, ha partecipato all'udienza stessa solo a mezzo di analogo tramite, per il quale non era stata addotta alcuna giustificazione. Quanto al secondo ricorrente, anch'egli nel corso del giudizio di appello, ha potuto comunicare col difensore d'ufficio esclusivamente a mezzo di un collegamento audiovisivo.
Sotto un diverso profilo, la violazione del diritto all'assistenza del difensore è riconosciuta anche dalla sent. 17 marzo 2016, Zakshevskiy c. Ucraina (per una sintesi, v. infra). Il ricorrente, formalmente accusato di rapina, nel corso dell'interrogatorio di polizia ha espressamente rinunciato all'assistenza di un difensore. Tuttavia, in tale circostanza ha rilasciato dichiarazioni autoaccusatorie in ordine ad un omicidio. L'ulteriore imputazione è stata formulata dalle autorità solo a distanza di giorni, dopo avere più volte interrogato il ricorrente in assenza del suo difensore. A determinare la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu è stata la circostanza dell'impiego di simili dichiarazioni autoaccusatorie ai fini della condanna.
La mancata assistenza del difensore in sede di interrogatorio di garanzia disposto in seno al giudizio cautelare, determina la violazione del diritto di difesa anche nella sent. 29 marzo 2016, Gökbulut c. Turchia. La stessa pronuncia accerta pure la violazione del diritto al contradditorio nella formazione della prova, per essersi la condanna del ricorrente fondata in modo determinante sulle dichiarazioni rese da quattro testimoni mai esaminati in udienza ed in assenza di qualsiasi meccanismo procedurale che potesse controbilanciare la mancata audizione.
La stessa violazione è accertata con la sent. 29 marzo 2016, Paić c. Croazia (per una sintesi, v. infra). Il ricorrente è stato condannato esclusivamente sulla base delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, che però non è mai stata esaminata in dibattimento. I giudici di Strasburgo ritengono che la mancata citazione ed il mancato tentativo di ascoltare il testimone, così come la circostanza dell'audizione delegata alle autorità ceche, senza possibilità alcuna per la difesa di indicare eventuali domande da sottoporre al teste, in assenza di qualsiasi meccanismo procedurale che potesse controbilanciare la mancata audizione, abbiano determinato una lesione del dettato convenzionale.
Con riguardo alla presunzione d'innocenza ex art. 6 comma 2 Cedu, con le sent. 31 marzo 2016, Stoyanov e altri c. Bulgaria e Alexey Petrov c. Bulgaria (per una sintesi, v. infra), il giudice europeo ha accolto la doglianza dei ricorrenti. Diverse autorità pubbliche, infatti, subito dopo l'arresto dei ricorrenti, all'inizio del procedimento penale a loro carico, hanno rilasciato delle dichiarazioni alla stampa in cui li indicavano chiaramente come colpevoli dei reati loro ascritti.
e) Art. 8 Cedu
In ordine al diritto alla privatezza, la sent. 31 marzo 2016, Alexey Petrov c. Bulgaria (per una sintesi, v. infra), accerta la violazione per esser stato l'arresto del ricorrente videoripreso dagli agenti di polizia e le immagine diffuse in rete a cura delle stesse autorità bulgare, al di fuori di qualsiasi previsione normativa.
Allo stesso modo le perquisizioni domiciliari disposte in assenza di un provvedimento giurisdizionale di autorizzazione, sebbene ratificate a posteriori, sono state ritenute dalla sent. 31 marzo 2016, Stoyanov e altri c. Bulgaria, lesive dell'art. 8 Cedu, poiché non sono stati rispettati i requisiti richiesti dalla legge.
f) Art. 10 Cedu
La Corte europea, in materia di diritto di cronaca, ricorda che non può essere considerato eccessivo o irragionevole l'obbligo di rettificare una notizia che era stata pubblicata in buona fede, qualora emerga successivamente la sua falsità. Nella specie, un giornalista aveva affermato che un soggetto - in realtà innocente - era ricercato per furto; l'informazione proveniva dalle autorità giudiziarie, ed era corretta al momento in cui il giornalista l'aveva appresa; tuttavia, in seguito, gli inquirenti stabilivano che il soggetto in questione era estraneo ai fatti. La testata aveva pubblicato la lettera del padre del calunniato che illustrava l'alibi del figlio, ma il giornalista non aveva pubblicamente ritrattato e - assolto dal reato di diffamazione per mancanza del dolo - era stato condannato al pagamento di 270 € a titolo di risarcimento del danno alla reputazione (sent. 8 marzo 2016, Rusu c. Romania).
Un'emittente televisiva aveva mandato in onda un servizio di un notiziario che sosteneva che la condanna di un diciottenne fosse frutto di un errore giudiziario; nel servizio veniva fatto ascoltare uno stralcio della registrazione di un'udienza, senza che la giornalista avesse ottenuto il permesso del giudice; per questo la reporter veniva condannata alla pena di 1.500 €. La Corte europea ricorda l'essenziale funzione della stampa nella diffusione di notizie di interesse per l'opinione pubblica, e considera la restrizione della libertà di espressione non accettabile in una società democratica. Infatti, la registrazione, pur non autorizzata, non era stata ottenuta con mezzi illeciti; la diffusione del servizio non avrebbe potuto minacciare l'indipendenza della magistratura (poiché il giudizio si era già concluso), né era stata messa a rischio la reputazione di alcuno (in quanto le voci erano state distorte). Infine, l'imposizione di una sanzione, pur non elevatissima, viene considerata a carattere deterrente e quindi, in ogni caso, sproporzionata (sent. 22 marzo 2016, Pinto Coelho c. Portogallo (n. 2)).
Sullo stesso tema, con riguardo alla sanzione imposta ad un giornalista che aveva infranto il segreto istruttorio, la Corte europea esclude la violazione dell'art. 10 perché l'articolo era volto ad alimentare una curiosità morbosa, più che ad informare l'opinione pubblica, ed il tono sensazionalista rischiava di influenzare i giudici (sent. 29 marzo 2016, Bédat c. Svizzera, per una sintesi v. infra).
g) Art. 13 Cedu
Quanto al diritto a un ricorso interno effettivo, la violazione dell'art. 13 in combinato disposto con l'art. 8 Cedu è accertata dalla sent. 31 marzo 2016, Stoyanov e altri c. Bulgaria, non essendo previsto dall'ordinamento bulgaro alcun rimedio con cui far valere un'eventuale violazione dell'art. 8 Cedu.
h) Art. 4 Prot. n. 7 Cedu
Riguardo al divieto di bis in idem, così come assicurato ex art. 4 Prot. n. 7 Cedu, la sent. 1° marzo 2016, Milenković c. Serbia, ne accerta la violazione: il ricorrente, infatti, è stato condannato sia in sede amministrativa che in sede penale per il medesimo episodio di aggressione e sebbene il primo procedimento fosse qualificato come amministrativo dalla legge nazionale, a mente della Corte europea lo stesso aveva i caratteri di un giudizio penale. In tali circostanze, l'aver dato corso al procedimento penale dopo che il giudizio amministrativo era già divenuto irrevocabile ha dato luogo alla violazione.
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2. Sintesi delle pronunce più rilevanti
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 1° marzo 2016, Arlewin c. Svezia
Nell'aprile 2004 la TV svedese trasmetteva, in tre distinte occasioni, un servizio nel quale si occupava di frodi e crimini economici e mostrava alcune immagini del ricorrente, fornendone altresì le generalità, ed indicandolo come uno dei responsabili dei pretesi reati.
Il ricorrente, a cui carico non pendeva nessun procedimento penale, sporgeva allora querela nei confronti del presentatore televisivo e contestualmente chiedeva il risarcimento del danno subito.
Nel maggio 2005, le autorità di primo grado rigettavano la domanda del ricorrente, ritenendo che in forza della normativa comunitaria e del diritto interno di esecuzione, posto che il segnale satellitare proveniva dal Regno Unito, il ricorrente avrebbe dovuto adire le autorità britanniche. La tesi veniva riaffermata anche dalla corte d'appello e della Suprema corte svedese, a nulla valendo le impugnazioni presentate dal ricorrente.
La Corte europea, davanti alla quale il ricorrente fa valere la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, sub specie di diritto di accesso al giudice, accoglie la doglianza.
Sebbene il segnale satellitare sia stato trasmesso da un'emittente inglese, la realizzazione del programma ad opera di un cast svedese, in lingua svedese, destinato alle tv svedesi, oltre al verificarsi di un pregiudizio alla reputazione del ricorrente in Svezia, avrebbe reso necessario assicurare al ricorrente l'accesso alla giustizia nel Paese. La preclusione processuale derivante dall'interpretazione del diritto comunitario e di quello interno di esecuzione, dunque, non ha superato il vaglio del giudice di Strasburgo. (Sara Longo)
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 1° marzo 2016, Gorbunov e Gorbachev c. Russia
Il primo ricorrente, condannato in primo grado con l'accusa di omicidio colposo, propone appello e richiede di potersi avvalere dell'assistenza di un difensore d'ufficio. Della sua difesa per il giudizio d'appello, fissato per il 7 dicembre 2006, in data 6 dicembre 2006 viene incaricato l'avvocato Ye. Il ricorrente ed il suo difensore hanno modo di comunicare solo il giorno dell'udienza, pochi minuti prima dell'inizio della stessa e peraltro nemmeno personalmente, trovandosi il ricorrente in collegamento audiovisivo con l'aula d'udienza ed il difensore in tribunale.
Quanto al secondo ricorrente, dopo la condanna in primo grado viene celebrato un primo giudizio d'appello, ma la decisione del giudice di secondo grado viene annullata con rinvio per violazione del diritto all'assistenza difensiva. Nel corso del secondo giudizio d'appello, al ricorrente viene assegnato un difensore d'ufficio, l'avvocato M., col quale però può comunicare solo a mezzo del collegamento audiovisivo predisposto in occasione della celebrazione dell'udienza.
Il giudice europeo accerta che nei riguardi di ambedue i ricorrenti si è verificata una violazione del diritto all'assistenza difensiva, così come garantito ex art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu. Rispetto al primo ricorrente, indipendentemente dall'adeguatezza del tempo assegnatogli per conferire col proprio difensore, la Corte europea evidenzia come la comunicazione fra un imputato ed il suo difensore a mezzo di un collegamento audiovisivo, non sia in grado di assicurare la riservatezza e l'adeguatezza della comunicazione medesima. Non solo, le autorità non hanno nemmeno spiegato il motivo per cui non sarebbe stato possibile assicurare un incontro di persona fra il ricorrete ed il difensore d'ufficio assegnato. Né la Corte europea ravvisa una giustificazione alla scelta delle autorità di far partecipare il ricorrente al processo d'appello solo con un sistema di videoconferenza, piuttosto che assicurandone la presenza in aula.
Analogamente, esaminando la vicenda del secondo ricorrente, il giudice europeo ravvisa la medesima inadeguatezza della privacy assicurata da un collegamento video alla comunicazione tra il ricorrente e il suo difensore. Né, pure in tal caso, le autorità russe hanno fornito alcuna giustificazione circa l'impossibilità di garantire una diversa modalità comunicativa. Da qui la violazione dell'equità processuale sotto il profilo del diritto di difesa. (Sara Longo)
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 17 marzo 2016, Zakshevskiy c. Ucraina
Il ricorrente, ricercato dalla polizia perché sospettato di aver preso parte a diverse rapine, si consegna alle autorità e viene da subito sottoposto a detenzione provvisoria. Nel corso dei primi interrogatori di polizia, informato circa i propri diritti, il ricorrente rinuncia all'assistenza di un difensore e oltre a confessare la propria colpevolezza in ordine alle rapine, rende dichiarazioni autoaccusatorie circa un omicidio commesso in occasione di una delle rapine. Tuttavia, l'accusa di omicidio viene formalizzata solo a distanza di oltre dieci giorni, dopo numerosi altri interrogatori del ricorrente, tutti svolti in assenza del difensore. Vista la gravità delle accuse a carico del ricorrente, la misura custodiale viene prorogata più volte e le richieste del ricorrente di sostituirla con una meno afflittiva sono rigettate.
Le autorità ucraine, basandosi sulle dichiarazioni del ricorrente e dei suoi coimputati, pronunciano sentenza di condanna sia per il capo d'imputazione relativo alla rapina sia per l'omicidio. La sentenza viene confermata in appello.
Il ricorrente si duole anzitutto delle condizioni della detenzione cui è stato sottoposto in pendenza del procedimento penale. La Corte europea accerta la violazione dell'art. 3 Cedu per esser stato il ricorrente sottoposto a un periodo di detenzione, di almeno tre mesi, presso una struttura con celle sovraffollate, in cui lo spazio a disposizione di ciascun detenuto era inferiore a tre metri quadrati. Una situazione ulteriormente esacerbata dalla mancata possibilità, per il ricorrente, di accedere ad attività all'aria aperta o comunque al di fuori dalla propria cella.
Le proroghe della misura custodiale disposte, nel corso delle indagini preliminari, sulla base della sola richiesta del pubblico ministero e giustificate semplicemente facendo riferimento alla gravità delle accuse e alla necessità di proseguire le indagini, per di più in assenza di un'occasione per la difesa di far valere le proprie ragioni, senza alcuna possibilità di impugnativa, hanno determinato una violazione dell'art. 5 comma 4 Cedu. Il medesimo parametro è stato ulteriormente violato laddove, a fronte delle richieste di revoca della misura presentate dal ricorrente nel corso del dibattimento, il tribunale ha mantenuto la custodia provvisoria, senza che la legislazione nazionale obbligasse a motivare la decisione ovvero a fissare il termine della misura. La legge ucraina, così come vigente all'epoca dei fatti, dunque non ha soddisfatto i requisiti convenzionali.
Da ultimo, il giudice di Strasburgo accoglie la doglianza circa la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu. Se, infatti, la rinuncia all'assistenza di un difensore è risultata legittima nell'ambito degli interrogatori riguardanti le accuse di rapina, a fronte del rilascio di dichiarazioni autoaccusatorie circa il commesso omicidio, le autorità non hanno tempestivamente formulato l'ulteriore imputazione, continuando invece a raccogliere le dichiarazioni del ricorrente. Il secondo capo d'imputazione è stato poi contestato, in presenza del difensore del ricorrente, solo con dieci giorni di ritardo.
Nonostante nel corso del dibattimento il ricorrente abbia ritrattato, le dichiarazioni predibattimentali relative all'imputazione di omicidio, rese in assenza del difensore, sono state parimenti impiegate ai fini della condanna, contravvenendo al dettato pattizio. (Sara Longo)
C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 23 marzo 2016, F.G. c. Svezia
Il ricorrente, cittadino iraniano, aveva presentato domanda di asilo all'arrivo in Svezia, giustificandola con la propria attività politica: aveva infatti operato per il movimento studentesco, creando e diffondendo pagine web che criticavano il governo; dopo essere stato arrestato tre volte, era fuggito per non comparire davanti ad un'autorità giudiziaria. Menzionava, inoltre, la sua conversione al cristianesimo avvenuta in Svezia, ma in un primo tempo non l'allegava formalmente quale motivazione della domanda. Le autorità svedesi rigettavano la domanda di asilo, considerando l'attività politica del ricorrente di basso profilo, ed evidenziando che non era stato ulteriormente ricercato dal governo iraniano dal 2009, né la sua famiglia aveva subito ritorsioni. Il ricorrente chiedeva allora la sospensione dell'ordine di espulsione, motivandola - questa volta - con la sua conversione alla religione cristiana; le autorità però rigettavano la richiesta, poiché l'elemento addotto non era una circostanza nuova e, pertanto, non giustificava un riesame del caso.
Il ricorrente, ottenuta dalla C. eur. dir. uomo la sospensione dell'ordine di espulsione quale interim measure, lamenta che le autorità svedesi non avrebbero considerato adeguatamente le sue passate vicende giudiziarie. Il fatto poi che egli non abbia inizialmente addotto la conversione a fondamento della domanda di asilo non potrebbe essere interpretato come una rinuncia alla protezione dovuta e, in ogni caso, egli non era pienamente consapevole delle conseguenze legali della scelta di non menzionarla; ancora, spiega di non aver voluto banalizzare la sua fede allegandola a sostegno della domanda di asilo.
Circa l'attività politica del ricorrente, la maggioranza della Corte europea non rinviene alcun elemento per distaccarsi da quanto affermato dalle autorità nazionali dopo un'indagine che viene considerata scrupolosa e soddisfacente. Circa la conversione religiosa, ribadisce che l'onere di provare il rischio a cui è sottoposto spetta in primo luogo al richiedente e deve essere assolto senza ingiustificato ritardo. Tuttavia, in presenza di un rischio conosciuto e a carattere generale (come quello riguardante gruppi religiosi regolarmente discriminati), le autorità statali devono stabilire d'ufficio se il rischio è presente anche nel caso concreto. A tale obbligo non hanno assolto le autorità svedesi: nel primo procedimento hanno esaminato la questione della religione superficialmente, poiché il ricorrente non avrebbe formalmente richiesto asilo su questa base; inoltre non hanno riesaminato il caso, benché egli avanzasse la seconda richiesta proprio in virtù della conversione. Anche alla luce delle nuove evidenze probatorie presentate durante il procedimento europeo, la Corte di Strasburgo stabilisce che le autorità svedesi incorreranno in una violazione degli obblighi positivi discendenti dagli art. 2 e 3 Cedu se non procederanno ad un riesame completo della domanda di asilo sulla base della conversione religiosa del ricorrente. (Marco Mariotti)
C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 29 marzo 2016, Bédat c. Svizzera
Il ricorrente, un giornalista, aveva pubblicato un articolo circa un procedimento penale che si stava celebrando a carico di un automobilista che aveva investito un gruppo di pedoni, uccidendone alcuni e ferendone altri. L'articolo riportava una sintesi delle domande poste all'indagato dalla polizia e dal giudice delle indagini, e diverse fotografie di lettere inviate all'autorità giudiziaria dall'automobilista, dalla moglie e da un medico circa le condizioni della detenzione preventiva e lo stato di salute dell'indagato. A carico del giornalista veniva aperto un procedimento penale per aver pubblicato documenti coperti dal segreto investigativo; la condanna alla pena sospesa di un mese di detenzione veniva commutata in appello in una multa di circa 2.667 €.
Il ricorrente lamenta che la restrizione del diritto alla libertà di espressione non sarebbe compatibile con l'art. 10 Cedu perché non necessaria in una società democratica. Infatti, l'articolo rispondeva all'interesse pubblico di informare la popolazione su un evento che l'aveva molto colpita; le informazioni non erano particolarmente rilevanti; la pubblicazione non avrebbe potuto influenzare la corte, composta esclusivamente di giudici professionisti e vincolati al rispetto della presunzione di innocenza.
La grande camera, aderendo per il resto alla pronuncia della seconda sezione, si concentra sulla necessità della restrizione in una società democratica. Ripete che la stampa gode di una particolare libertà, anche qualora si occupi di procedimenti penali pendenti. Tuttavia, il diritto di cronaca non può essere esercitato in forme che rischino di pregiudicare, anche non intenzionalmente, l'imparzialità e la correttezza del processo. Nel caso di specie, il giornalista ha utilizzato un tono sensazionalista, dipingendo un affresco assai negativo e quasi canzonatorio dell'indagato e, pur senza affermarne esplicitamente la colpevolezza, ha suggerito che egli stesse facendo di tutto per rendere impossibile la sua assoluzione. Inoltre, l'articolo concerneva aspetti della vita privata, ed era quindi teso, più che ad informare l'opinione pubblica sugli sviluppi processuali, ad alimentare una malsana curiosità sulla persona e sulle sue condizioni di salute. La Corte di Strasburgo ricorda che per giustificare una contromisura non è necessaria la prova dell'effettivo sviamento dell'opinione dei giudici, ma è sufficiente il semplice rischio di un'influenza. Infine, grava sullo Stato l'obbligo di proteggere la reputazione dell'accusato anche se questi non ha fatto ricorso agli strumenti civilistici in prima persona, soprattutto considerata la sua condizione di vulnerabilità ed instabilità mentale che avrebbero reso difficile un'azione giudiziaria. Quanto alla proporzionalità, la sanzione - pagata dall'editore - viene ritenuta non sproporzionata e non a carattere dissuasivo.
Due dissenting opinions ritengono invece la restrizione ingiustificata (poiché, nonostante il tono spiacevole, il giornalista non avrebbe suggerito alcun verdetto né influenzato la corte) ed ispirata ad un eccessivo paternalismo (in quanto l'automobilista non ha neppure lamentato la violazione della propria reputazione). Secondo gli autori, sarebbe stata appropriata un'indagine sula fuga di notizie, ma non una sanzione che tende a limitare il ruolo della stampa, così prezioso per il funzionamento della democrazia e dell'amministrazione giudiziaria. (Marco Mariotti)
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 29 marzo 2016, Paić c. Croazia
Il 26 agosto 2005 a carico del ricorrente è avviato un procedimento penale per il furto del telefono cellulare di E.R., un turista ceco recatosi in vacanza in Croazia.
Il 9 giugno 2006, a seguito di una richiesta di assistenza giudiziaria internazionale della procura croata, le autorità ceche raccolgono la testimonianza di E.R.
I giudici croati decidono di ammettere la trascrizione delle dichiarazioni rilasciate dalla persona offesa, senza esaminarla direttamente - nonostante l'espressa richiesta della difesa - ed impiegano la testimonianza di E.R. come unica prova posta a fondamento della condanna del ricorrente.
L'impiego esclusivo ai fini della condanna di una prova dichiarativa raccolta fuori dal dibattimento, senza che la difesa abbia mai potuto esaminare direttamente o mediatamente il teste e senza l'adozione di alcuna misura che possa controbilanciare il pregiudizio al diritto alla formazione della prova in contraddittorio, dà luogo a una violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu. Né possono ritenersi condivisibili le argomentazioni addotte dal governo croato circa le difficoltà di escutere un testimone residente all'estero, poiché nel caso di specie la persona offesa non è stata nemmeno citata dal giudice nazionale, né quando è stata sentita dalle autorità ceche è stato predisposto un sistema di collegamento audiovisivo per assicurare la partecipazione della difesa, la quale non ha potuto neppure indicare delle eventuali domande da sottoporre al teste. (Sara Longo)
C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 30 marzo 2016, Armani da Silva c. Regno Unito
Alcuni giorni dopo gli attentati terroristici nella metropolitana di Londra del 7 luglio 2005, le autorità avevano ritrovato degli ordigni inesplosi nella metropolitana e su un autobus. Due dei sospetti individuati abitavano nella stessa casa del sig. de Menezes, cugino della ricorrente. Una mattina questi era uscito per recarsi al lavoro e il poliziotto di guardia aveva dato l'allarme credendo che si trattasse di uno dei sospetti. Le forze speciali erano accorse sul posto per impedire che egli lasciasse l'edificio, ma vi erano giunte in ritardo, quando egli era già entrato in una stazione della metropolitana; l'avevano inseguito su un treno ed infine abbattuto sparando diversi colpi alla testa. Una prima inchiesta della commissione indipendente interna alle forze di polizia si concludeva affermando che gli errori che avevano portato alla morte del soggetto avrebbero potuto e dovuto essere evitati; tuttavia, la pubblica accusa decideva di non accusare formalmente alcuno dei poliziotti coinvolti, in quanto la condanna appariva improbabile: sarebbe stato difficile provate che gli agenti non fossero convinti di affrontare un terrorista. Neppure veniva iniziato un procedimento disciplinare a carico dei poliziotti. Al contrario, il procedimento penale a carico dell'autorità di polizia in merito all'inefficace organizzazione dell'operazione si concludeva con la condanna al pagamento di una multa. Una parallela azione civile si concludeva con una mediazione.
La ricorrente, cugina dell'ucciso, lamenta la violazione dell'art. 2 esclusivamente in merito agli obblighi positivi procedurali. Sostiene che gli inquirenti avrebbero definito "honest and genuine" l'errata percezione che il sig. de Menezes stesse per compiere un attentato, senza tener conto di una serie di indici oggettivi che la facevano apparire irragionevole. Inoltre, critica la decisione della procura di non formulare l'accusa - basata sul fatto che vi fossero meno del 50% di probabilità di condanna - per non aver considerato che le prove raccolte avrebbero potuto essere in ogni caso sufficienti per un'affermazione di colpevolezza.
La Corte europea, esaminando l'adeguatezza delle indagini, afferma che la percezione degli agenti deve essere valutata soggettivamente dal punto di vista dell'agente al momento del fatto; l'esistenza di fondate ragioni a sostegno del loro convincimento non è un requisito oggettivo separato, ma un fattore rilevante per stabilire se la convinzione sia o meno genuina. Il test applicato dalle corti inglesi - al di là di tralasciabili differenze letterali nella formulazione - non si discosta sostanzialmente da quello richiesto dalla precedente giurisprudenza della C. eur. dir. uomo.
Inoltre, la Corte di Strasburgo esclude che il sistema giudiziario britannico mostri carenze istituzionali che avrebbero impedito l'affermazione di responsabilità dei colpevoli: la soglia del 50% di probabilità di condanna non è arbitraria e non eccede il margine di apprezzamento lasciato ad ogni Paese; né la gravità dei fatti, né il coinvolgimento di agenti statali giustificano un suo abbassamento. Infine, non è contrario agli obblighi convenzionali che la decisione di accusare formalmente gli indagati sia lasciata ad un procuratore, e che una revisione giudiziale sia prevista solo per violazioni di diritto.
Alcuni giudici hanno formulato dissenting opinions, affermando che la decisione della grande camera eliderebbe di fatto il requisito oggettivo delle fondate ragioni per ritenere scusabile l'errata convinzione dell'agente, e che la soglia per stabilire se aprire un procedimento penale è molto più alta in Inghilterra che in altri Stati del Consiglio d'Europa. Ritengono inoltre che non sia stata fatta chiarezza sulla responsabilità degli altri soggetti coinvolti nell'operazione. (Marco Mariotti)
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 31 marzo 2016, Alexey Petrov c. Bulgaria
Il ricorrente è arrestato nel corso di un'operazione condotta dalle forze speciali del Ministero dell'interno bulgaro, volta ad arrestare i componenti di un'organizzazione criminale. L'operazione ha ricevuto una vasta eco mediatica, tanto che alcuni dei gruppi di intervento del Ministero sono stati accompagnati da cameraman e fotografi durante gli arresti dei sospettati, e le fotografie ed i filmati sono stati pubblicati da diversi giornali e siti internet. Fra i tanti, anche l'arresto del ricorrente è stato filmato e trasmesso sia in televisione che online.
Subito dopo l'arresto del ricorrente, in pendenza del procedimento penale a suo carico, numerose autorità, fra cui lo stesso Ministro dell'interno, il suo segretario, noti esponenti politici e magistrati, intervistati circa l'operazione de qua, hanno rilasciato dichiarazioni ai media nelle quali hanno dipinto il ricorrente come colpevole dei reati ascrittigli.
La Corte europea, dunque, ravvisa una duplice violazione del dettato convenzionale così come garantito dagli art. 6 comma 2 e 8 Cedu, mentre rigetta la doglianza proposta dal ricorrente ai sensi dell'art. 3 Cedu. Nel caso di specie, infatti, data la gravità dei crimini per i quali si procedeva, tenuto altresì conto del fatto che il ricorrente avesse lavorato per molti anni nei servizi di intelligence e anti terrorismo bulgari, e fosse perciò esperto sia di armi che di arti marziali, l'impiego delle forze speciali nel condurre l'arresto non appare sproporzionato e non integra alcun trattamento inumano o degradante. Tuttavia, la circostanza che l'arresto del ricorrente sia stato ripreso e che il filmato sia stato trasmesso, integra una violazione del diritto al rispetto della privatezza. La legge processuale penale bulgara permette di videoriprendere le operazioni di polizia solo al fine di raccogliere eventuali prove e non certo per scopi propagandistici o pubblicitari: da qui deriva che l'ingerenza non risulta prevista dalla legge, così come richiesto invece dall'art. 8 comma 2 Cedu.
Quanto poi alle dichiarazioni rese dalle autorità bulgare circa la pretesa colpevolezza del ricorrente, esse hanno oltrepassato il confine dell'informazione mediatica sulle indagini: per la Corte europea si deve ravvisare una violazione della presunzione d'innocenza. (Sara Longo)