ISSN 2039-1676


01 luglio 2016 |

Monitoraggio Corte Edu gennaio 2016

A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, per questo mese, da Marco Mariotti e Fabio Cassibba. L'introduzione è a firma di Marco Mariotti per quanto riguarda gli artt. 2, 3, 4, 7, 10 e 11 Cedu, mentre si deve a Fabio Cassibba la parte relativa agli artt. 5, 6, 8 e 9 Cedu.

 

1. Introduzione

 

a) Art. 2 Cedu

b) Art. 3 Cedu

c) Art. 4 Cedu

d) Art. 5 Cedu

e) Art. 6 Cedu

f) Art. 7 Cedu

g) Art. 8 Cedu

h) Art. 9 Cedu

i) Art. 10 Cedu

l) Art. 11 Cedu

 

 

2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

* * *

 

1. Introduzione

 

a) Art. 2 Cedu

La sent. 21 gennaio 2016, Neškoska c. ex-Republica Jugoslava di Macedonia, riguarda un caso di presunta violazione di obblighi procedurali legati alla tutela del diritto alla vita. La madre di un cittadino ucciso da un poliziotto mentre tentava di sfuggirgli ricorre a Strasburgo per lamentare che le indagini non avrebbero fatto piena luce sul ruolo di altre quattro persone coinvolte (tre delle quali poliziotti). La C. eur. dir. uomo segnala però che l'autore materiale è già stato condannato e che, come emerso dalle risultanze processuali, gli altri soggetti erano intervenuti soltanto dopo il decesso; le eventuali carenze investigative sul ruolo dei quattro non erano quindi andate a detrimento della punizione dell'autore principale del reato e, pertanto, non viene ravvisata una violazione dell'art. 2 Cedu.

Nella sent. 12 gennaio 2016, S.D.M. e altri c. Olanda viene trattato un caso di espulsione di un richiedente asilo condannato a morte in absentia nel suo Paese d'origine, sul quale cfr. sub b).

 

b) Art. 3 Cedu

In tema di sovraffollamento carcerario, scontata la condanna dello Stato che aveva costretto un detenuto ad occupare insieme ad altre 26 persone una cella di meno di 34 m2 di ampiezza; anche i pasti erano stati consumati in condizioni difficili per l'assenza di tavoli e sedie sufficienti (sent. 5 gennaio 2016, Cătălin Eugen Micu c. Romania). Segnaliamo sul punto anche tre sentenze contro la Grecia. In un caso (sent. 21 gennaio 2016, H.A. c. Grecia), la C. eur. dir. uomo opera un mero rinvio alla sua precedente giurisprudenza per affermare che la detenzione "amministrativa" subita dal ricorrente può costituire un trattamento degradante, sottolineando in particolare il notevole sovraffollamento e le deplorevoli condizioni igieniche. Nella sent. 28 gennaio 2016, Patrikis e altri c. Grecia, con motivazione più articolata, la Corte di Strasburgo richiama la regola secondo cui, a fronte di uno spazio personale per detenuto inferiore ai 3 m2, tale dato è di per sé sufficiente per fondare una decisione di condanna, senza che sia necessario prendere in esame altri aspetti. Al fine di accertare la violazione dell'art. 13 è poi irrilevante che i ricorrenti non si siano avvalsi di due procedure di reclamo, una amministrativa ed una giurisdizionale: la violazione dell'art. 3 discende dalle condizioni generali dalla detenzione, quindi le autorità non avrebbero in ogni caso potuto adottare alcun rimedio efficace.

In materia di trattamento sanitario dei detenuti, la Corte europea, nella sent. 5 gennaio 2016, Cătălin Eugen Micu c. Romania, non riconosce la violazione dell'art. 3: da un lato, manca la prova che il ricorrente abbia contratto l'epatite C in prigione, perché non è stato sottoposto ad alcun test specifico al suo ingresso (i giudici non possono far altro che dolersi di questa falla nel protocollo sanitario del penitenziario); dall'altro, il soggetto è stato esaminato e curato adeguatamente da un medico, con il quale si è però rifiutato di collaborare. Sullo stesso argomento, segnaliamo la sent. 12 gennaio 2016, Khayletdinov c. Russia, in cui lo Stato viene condannato per aver determinato un trattamento inumano e degradante ai danni del ricorrente, un detenuto malato di AIDS, al quale era stata prolungata la custodia cautelare nonostante il quadro clinico, e non era stata assicurata un costante ed appropriata assistenza medica, pur a fronte del degenerare delle condizioni di salute. La Corte europea ricorda che tra gli obblighi positivi discendenti dall'art. 3 vi è quello di garantire una diagnosi ed un controllo delle condizioni sanitarie adeguate al tipo di malattia, e di adattare conseguentemente le condizioni di detenzione, pur accettando che questa regola generale venga declinata a seconda del caso concreto ed al netto di un inevitabile bilanciamento con le esigenze legate alla limitazione della libertà personale. Inoltre, conformemente ad altri precedenti decisioni contro la Russia, viene accertata la violazione di cui all'art 13, poiché lo Stato non offre uno strumento efficace per la prevenzione della violazione né un adeguato rimedio risarcitorio: l'amministrazione penitenziaria manca della necessaria terzietà per giudicare i reclami che le vengono proposti, vi sono diversi ostacoli procedurali che impediscono un effettivo controllo giurisdizionale ed il risarcimento civile - ammesso che sia riconosciuta la colpa delle autorità - avrebbe un carattere meramente compensativo.

In un caso piuttosto curioso (sent. 5 gennaio 2016, Süveges c. Ungheria; per una sintesi, v. infra) il ricorrente lamenta di aver sofferto per le avverse condizioni climatiche durante gli undici giorni trascorsi in custodia cautelare domiciliare in una tenda presso un campeggio in pieno inverno. La Corte europea ritiene che non sia raggiunta la minima soglia di gravità necessaria per integrare la violazione dell'art. 3, considerando il periodo relativamente breve di tempo, il fatto che il luogo fosse stato scelto ad esplicita richiesta del ricorrente e che le autorità abbiano provveduto immediatamente a trasferirlo avuta notizia del peggioramento potenziale (ma non ancora accertato) della sua salute.

 

c) Art. 4 Cedu

Questo mese, la Corte di Strasburgo torna ad occuparsi delle misure contro la tratta di esseri umani nella sent. 21 gennaio 2016, L.E. c. Grecia. La ricorrente, una cittadina nigeriana, dopo essere stata fatta entrare illegalmente in Grecia, era stata costretta a prostituirsi e a consegnare il denaro guadagnato al suo "protettore". Arrestata più volte, solo in un'occasione aveva spiegato alle autorità la propria situazione e denunciato chi la stava sfruttando. La polizia sospendeva allora l'ordine di espulsione pendente a suo carico e le concedeva un temporaneo permesso di soggiorno. Tuttavia, le autorità giudiziarie riconoscevano formalmente il suo status di vittima soltanto nove mesi dopo, anche a causa della mancata valutazione di una testimonianza a sostegno delle allegazioni della ricorrente. Le indagini preliminari a carico dei soggetti denunciati, inoltre, procedevano lentamente e manifestando diverse carenze in ordine alla raccolta di informazioni ed alla ricerca dei soggetti indagati. La Corte europea, pur riconoscendo l'adeguatezza della legislazione greca per combattere i fenomeni di sfruttamento, evidenzia la mancanza di celerità delle misure messe in atto per proteggere la ricorrente e, pertanto, afferma la violazione del procedural limb dell'art. 4 Cedu.

 

d) Art. 5 Cedu

Sul versante della legalità della detenzione, merita richiamare la sent. 5 gennaio 2016, Kleyn c. Russia (per una sintesi, v. infra). La Corte europea ravvisa la violazione dell'art. 5 comma 1 lett. a Cedu perché la detenzione fondata sulla sentenza di condanna di primo grado, poi annullata dalla Suprema corte, risulta illegittima, essendo stata tale condanna pronunciata da un tribunale "non costituito per legge". Il mantenimento della custodia cautelare dopo l'annullamento della condanna è, invece, reputato legittimo, essendo giustificato ex art. 5 comma 1 lett. c Cedu, dapprima, in forza di un provvedimento emesso dalla Suprema corte, in seguito, da un provvedimento emesso dal giudice dibattimentale in sede di rinvio.

La durata ragionevole della custodia cautelare, protetta dall'art. 5 comma 3 Cedu, viene in gioco nella sent. 5 gennaio 2016, Süveges c. Ungheria (per una sintesi, v. infra): la Corte europea ne accerta la violazione poiché un arco di tempo di più di tre anni di detenzione (considerando tre diversi periodi) non può essere giustificato sulla base della sola gravità delle accuse mosse al ricorrente. 

L'appena rammentata pronuncia affronta pure il profilo del diritto al controllo giurisdizionale sulla legalità della detenzione. La violazione dell'art. 5 comma 4 Cedu viene esclusa, con riguardo ad un'ipotesi peculiare: il giudice investito della decisione sulla proroga degli arresti domiciliari - ricevuta una lettera (anonima e manoscritta) in cui si evidenziano le ragioni contrarie alla scarcerazione - non la esibisce alle parti (per scongiurare il rischio che la grafia comporti il riconoscimento dell'autore), ma ne riferisce precisamente il contenuto in udienza: l'esercizio di un effettivo contraddittorio delle parti sui profili fattuali emergenti dal documento e la sussistenza di ragioni diverse da quelle ivi indicate per giustificare la protrazione degli arresti domiciliari inducono la Corte europea a non ritenere violata la previsione pattizia in parola. 

Ancora sul diritto protetto dall'art. 5 comma 4 Cedu, merita, poi, almeno una segnalazione la sent. 5 gennaio 2016, Manerov c. Russia: collocandosi nel solco di una giurisprudenza consolidata, la Corte europea ravvisa una duplice violazione del canone convenzionale. Per un verso, il giudice dell'appello cautelare ha rigettato l'istanza di scarcerazione senza considerare in alcun modo le prove addotte dal ricorrente; per l'altro, l'appello cautelare è stato deciso dal giudice competente solo trentaquattro giorni dopo la relativa presentazione, senza che vi fossero ragioni per giustificare tale ritardo.

Sempre sul profilo relativo all'effettività del controllo giurisdizionale ex art. 5 comma 4 Cedu interviene pure la sent. 19 gennaio 2016, Albrechtas c. Lituania: per la Corte europea, la mancata comunicazione al ricorrente e al difensore di prove rilevanti per il mantenimento della custodia cautelare in vista di un'udienza nella sede cautelare viola la previsione pattizia.

Infine, sul diritto all'equo compenso per l'illegittima detenzione, protetto dall'art. 5 comma 5 Cedu, la sopra rammentata sent. 5 gennaio 2016, Kleyn c. Russia, ne ravvisa la violazione, sul presupposto che la legge nazionale non riconosce tale diritto a chi sia stato detenuto sulla base di una condanna illegittima perché pronunciata da un giudice non legalmente costituito.        

 

e) Art. 6 Cedu 

Con riguardo alla tutela dell'equità processuale, in rapporto all'imparzialità del giudice, merita una segnalazione la sent. 7 gennaio 2016, Dāvidson e Savins c. Lettonia. La Corte europea, da un lato, esclude la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, poiché la partecipazione al collegio dibattimentale del giudice persona fisica, già componente di un collegio nel procedimento cautelare durante le indagini, non contrasta con la previsione in parola, non avendo quest'ultimo organo compiuto alcuna valutazione sul contenuto dell'accusa elevata a carico dell'imputato; dall'altro, accerta, invece, la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, poiché tutti e tre i giudici del collegio dibattimentale d'appello avevano già fatto parte dell'organo giurisdizionale che, in sede cautelare durante le indagini, aveva confermato la detenzione provvisoria del ricorrente.

Ancora con riguardo alla tutela dell'equità processuale, va, poi, segnalata la sent. 12 dicembre 2016, ButherlevičiÅ«tÄ— c. Lituania (per una sintesi, v. infra), che interviene per un duplice profilo. In primo luogo, la Corte europea esclude che la mancata celebrazione di un'udienza orale nel giudizio di primo grado, conclusosi con la condanna della ricorrente al pagamento della pena pecuniaria e alla sospensione temporanea da un pubblico ufficio, violi l'art. 6 comma 1 Cedu: la mancanza di un'udienza orale può essere rimediata nel giudizio di appello quando quest'ultimo sia volto, come nel caso di specie, a riesaminare tutta la vicenda in fatto e in diritto. In secondo luogo, la Corte europea ravvisa la violazione della medesima previsione proprio con riguardo allo svolgimento del giudizio d'appello, che non ha comportato la partecipazione personale dell'imputata. La mancata notificazione all'imputata dell'avviso di fissazione dell'udienza d'appello, senza che la questione sulla mancanza di una valida notifica fosse stata affrontata dal giudice d'appello, lede l'equità processuale: alla luce degli effetti della condanna, la partecipazione dell'imputata al giudizio d'appello era necessaria.

La tutela dell'equità processuale ex art. 6 comma 1 Cedu viene in esame anche nella sent. 26 gennaio 2016, Iasir c. Belgio (per una sintesi, v. infra), in rapporto al rispetto dell'obbligo di motivazione, in un procedimento svolto dinanzi alla corte d'assise: qui, la presenza un ampio e razionale apparto giustificativo a fondamento della condanna del ricorrente esclude la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu.

La medesima pronuncia, poi, affronta il tema della tutela della presunzione d'innocenza ex art. 6 comma 2 Cedu. La Corte europea ne esclude la violazione: le modalità dello svolgimento dei fatti addebitati al ricorrente sono state ampiamente esaminate e correttamente valutate dalla Corte d'assise, che, per pronunciare la condanna a trent'anni di reclusione per concorso morale in omicidio (materialmente commesso dai coimputati), non ha fatto uso di alcuna presunzione di colpevolezza ed, anzi, ha solidamente giustificato il provvedimento.     

Sul versante della durata ragionevole del procedimento penale, va rammentata la sent. 5 gennaio 2016, Süveges c. Ungheria (per una sintesi, v. infra), con la quale la Corte europea accerta la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu sulla base di più ragioni: due lunghi periodi di tempo (dal dicembre 2009 al settembre 2010 e dal luglio 2011 al gennaio 2012) sono trascorsi, in pendenza del processo, senza che fosse tenuta un'udienza o compiuta altra attività processuale; tale inerzia è dovuta solo alle autorità procedenti; in ogni caso, il processo è ancora pendente in primo grado dopo più di dieci anni.

Quanto alla tutela del diritto all'assistenza difensiva, merita una segnalazione la sent. 12 gennaio 2016, Borg c. Malta, che - muovendosi nel solco d'un consolidato orientamento dei giudici di Strasburgo - ravvisa la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu, poiché la difesa tecnica assicurata nella fase processuale non ha potuto rimediare alla mancata difesa tecnica dell'indagato in stato di arresto, nelle prime, delicate, battute del procedimento.

 

f) Art. 7 Cedu

Nell'importante sent. 12 gennaio 2016, Gouarré Patte c. Andorra (in questa Rivista, con scheda di F. Mazzacuva, La tensione tra principio della lex mitior e limite del giudicato: la Corte europea elude un confronto diretto con il problema, 8 febbraio 2016) viene ravvisata una violazione dell'art. 7 per la mancata applicazione retroattiva di una legge più favorevole entrata in vigore successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Il caso riguarda un medico, condannato per abusi sessuali, a cui era stata inflitta la pena accessoria del divieto di esercitare la professione a vita; la successiva modifica imponeva però per le sanzioni accessorie una durata corrispondente alla più severa tra le pene principali inflitte. La Corte europea, pur avendone l'occasione, non adotta una posizione netta sul delicato tema dei rapporti tra giudicato e lex mitior, dal momento che il riconoscimento della violazione si fonda - ad avviso della Corte - sull'erronea applicazione, da parte dei tribunali nazionali della norma del codice penale andorrano sull'efficacia retroattiva delle modifiche in melius relative alla disciplina della pena.

Da segnalare anche un'altra significativa pronuncia sulla natura penale della misura di sicurezza detentiva per una persona alienata, la cui durata è stata prolungata con applicazione retroattiva di una modifica normativa (sent. 7 gennaio 2016, Bergmann c. Germania; per una sintesi, v. infra).

 

g) Art. 8 Cedu

L'art. 8 Cedu è considerato dalla già rammentata sent. 5 gennaio 2016, Süveges c. Ungheria (per una sintesi, v. infra). Per la Corte europea, il mantenimento degli arresti domiciliari nei confronti del ricorrente, accompagnato dal divieto di contatti con i propri familiari, non viola la disciplina pattizia: la restrizione al diritto alla privatezza è prevista dalla legge nazionale, risponde ad uno scopo legittimo ed è compatibile con i principi di uno stato democratico.

Il diritto alla privatezza è poi oggetto delle sent. 14 gennaio 2016, Duong c. Repubblica ceca e Maslák e Michálková c. Repubblica ceca (per una sintesi di quest'ultima, v. infra), ambedue relative allo svolgimento di perquisizioni locali nei confronti di beni riconducibili alla titolarità dei ricorrenti: la Corte europea accerta, in entrambi i casi, la non violazione dell'art. 8 Cedu, poiché il provvedimento che autorizza la perquisizione trova nell'ordinamento nazionale una base legale, è motivato ed è compatibile con gli scopi previsti dalla legge, avendo, inoltre, il ricorrente potuto contestarne la legittimità.

 

h) Art. 9 Cedu

La sent. 5 gennaio 2016, Süveges c. Ungheria (per una sintesi, v. infra) interviene pure in ordine alla tutela del diritto alla libertà religiosa: nel caso di specie, è esclusa la violazione dell'art. 9 Cedu perché la mancata autorizzazione al detenuto, posto agli arresti domiciliari, di lasciare la propria abitazione, per recarsi in chiesa e seguire, così, la celebrazione di una messa, integra una restrizione prevista dalla legge nazionale, non lesiva del diritto alla libertà religiosa.

 

i) Art. 10 Cedu

Nella sent. 19 gennaio 2016, GörmüÅŸ e altri c. Turchia la C. eur. dir. uomo torna ad occuparsi del diritto alla libera manifestazione del pensiero, esaminando il caso di un giornalista che aveva rivelato un progetto segreto delle autorità militari per classificare editori e giornalisti a seconda che fossero o meno favorevoli alle forze armate. La Corte europea ritiene la reazione delle autorità (sequestro e confisca di tutti i dati contenuti negli archivi della testata giornalistica, anche se non direttamente riferibili all'articolo in questione) sproporzionata rispetto allo scopo di proteggere la sicurezza dello Stato. Sottolinea, inoltre, che le informazioni diffuse dal giornalista avevano contribuito ad un dibattito già vivo nell'opinione pubblica, e che l'interesse a diffondere simili notizie deve in questo caso prevalere sulla riservatezza dell'operazione; la segretezza non è infatti giustificabile con il fine di mantenere la fiducia nell'operato delle forze armate o con la prospettazione di un danno che sarebbe derivato dal rendere pubblica l'operazione. Da tutto ciò discende la violazione dell'art. 10. Circa la protezione dei militari che avevano fornito le informazioni alla testata, viene ribadita la necessità per il giornalista di astenersi dalla pubblicazione finché i whistle-blowers non abbiano esperito i possibili rimedi a loro disposizione, segnalando ai superiori i possibili profili di illegittimità; poiché, tuttavia, una simile possibilità di reclamo non esiste nell'ordinamento militare turco, al giornalista non può essere rimproverato l'utilizzo delle informazioni per la pubblicazione dell'articolo.

Un esito simile ha la vicenda di cui alla sent. 21 gennaio 2016, De Carolis e France Televisions c. Francia. In un documentario televisivo alcuni parenti delle vittime degli attentati dell'11 settembre avevano accusato il principe Turki Al Faisal bin Abdul Aziz Al Saud dell'Arabia Saudita di aver assistito e finanziato i Talebani, suggerendo che non era stato chiamato a rispondere delle sue azioni in alcun procedimento per mere ragioni di immunità diplomatica. Il giornalista veniva condannato per diffamazione per non aver rispettato il dovere di prudenza ed obiettività (non aveva infatti fornito prova della veridicità delle informazioni, appellandosi alla buona fede). La Corte di Strasburgo, riconosciuto l'interesse generale della vicenda (e, conseguentemente, una più ampia facoltà di critica), ritiene che la notizia avesse sufficienti basi fattuali, che il giornalista sia stato obiettivo nel riportare l'opinione dei parenti delle vittime e che abbia offerto adeguata possibilità di replica all'interessato, rispettando quindi i canoni dell'informazione responsabile. Infine, la sanzione pecuniaria (1.000 euro di ammenda oltre al risarcimento dei danni) ed il risarcimento civilistico a carico dell'azienda televisiva vengono giudicate ingerenze sproporzionate e non necessarie in una società democratica. Per tutti questi motivi, viene ravvisata la violazione dell'art. 10 Cedu.

Nella sent. 12 gennaio 2016, Rodriguez Ravelo c. Spagna la Corte europea esamina un caso curioso di diffamazione ai danni di un magistrato: un avvocato aveva affermato in un atto giudiziario che un giudice, nel decidere una causa sfavorevolmente al proprio cliente, aveva volontariamente distorto la realtà dei fatti ed affermato il falso senza ritegno. Il ricorrente veniva condannato per diffamazione ad una pena pecuniaria giornaliera di 30 euro per nove mesi, con la minaccia di una pena detentiva in caso di inadempimento, dal momento che le sue affermazioni ledevano l'onore del magistrato ed eccedevano significativamente i limiti del diritto di difesa. La Corte europea accoglie il ricorso presentato ex art. 10 Cedu, perché la limitazione della libertà di espressione è sproporzionata rispetto allo scopo legittimo (la tutela dell'onore e dell'autorità della magistratura). Le affermazioni del ricorrente, infatti, non erano state pronunciate durante l'udienza, ma erano contenute in un atto scritto; inoltre, riguardavano principalmente le modalità con cui il magistrato ha deciso il caso e, nonostante il tono aggressivo, devono essere lette nel più ampio contesto del diritto di difesa. Ancora, la misura è suscettibile di avere un forte effetto deterrente sugli avvocati chiamati a patrocinare in difesa degli interessi dei loro clienti.

Sempre in tema di diffamazione - ai danni, questa volta, di un ministro -, segnaliamo la sent. 12 gennaio 2016, Genner c. Austria. Il ricorrente, membro di un'associazione in difesa dei diritti dei rifugiati, aveva pubblicato sul sito della stessa un articolo che si rallegrava del decesso del Ministro degli Interni, che veniva accusato di aver realizzato una politica criminale e razzista nei confronti dei richiedenti asilo. Veniva condannato alla multa di 1.200 euro per diffamazione. La Corte europea non ritiene violato l'art. 10 della Convenzione: in punto di necessità della restrizione della libertà di espressione, osserva che la condanna è stata ben motivata dalla corte nazionale, la quale ha preso in considerazione il momento della pubblicazione dell'articolo (il giorno successivo alla morte) ed il tono dello scritto, che conteneva attacchi personali ed eccedeva il limite del diritto di critica; in particolare, la sentenza rammenta che la Corte costituzionale austriaca aveva ritenuto compatibili con la Carta fondamentale gran parte delle più recenti riforme in materia di diritto di asilo, nel quadro delle quali aveva operato il Ministro. Si osserva, infine, che la pena è lieve e non sproporzionata rispetto allo scopo.

Nella sent. 19 gennaio 2016, Kalda c. Estonia (per una sintesi v. infra), la Corte europea, per la prima volta nella sua storia, ha affrontato il problema del diritto dei detenuti di accedere ad internet, per raccogliere informazioni che potrebbero essere loro utili nell'esercizio del diritto di difesa.

 

l) Art. 11 Cedu

In tema di libertà di riunione ed associazione, segnaliamo la sent. 5 gennaio 2016, Frumkin c. Russia (per una sintesi, v. infra), che tratta degli obblighi positivi imposti alle autorità nella gestione dell'ordine pubblico e della legittimità dell'arresto di un partecipante ad una marcia di protesta. Sempre con riferimento alle misure adottate nei confronti dei manifestanti, nella sent. sent. 19 gennaio 2016, Gülcü c. Turchia, la Corte europea riscontra una violazione dell'art.11 in relazione alla condanna alla pena di sette anni e sei mesi inflitta al ricorrente, all'epoca dei fatti quindicenne, arrestato e posto in custodia cautelare in carcere per aver partecipato ad una manifestazione in favore del leader curdo Öcalan, e per aver lanciato sassi contro la polizia dopo l'intervento contro i manifestanti. Successivamente, il ricorrente veniva anche accusato di far parte del partito curdo dei lavoratori (PKK), e di svolgere propaganda in favore di tale gruppo, ritenuto dalle autorità statali di matrice terroristica. La Corte europea, da un lato, stigmatizza la carenza di prove circa l'appartenenza al gruppo terroristico e all'attività di propaganda; dall'altro, evidenzia la complessiva sproporzione della sanzione (nonostante la sospensione condizionale concessa in un successivo grado di giudizio), in particolare tenuto conto della giovane età del soggetto e del fatto che da nessun elemento si poteva evincere un suo intento violento quando si era unito alla manifestazione, peraltro iniziata pacificamente.

Per quanto attiene ai partiti politici, la C.eur. dir. uomo prende in esame lo scioglimento di un partito turco, decisa all'unanimità dalla Corte costituzionale di quel Paese, insieme alla decadenza dei due leder dal seggio parlamentare ed al divieto di svolgere attività politica imposto a 37 suoi membri (sent. 12 gennaio 2016, Partito per una società democratica (DTP) ed altri c. Turchia). Il progetto politico del partito proponeva sì una soluzione della "questione curda" non compatibile con l'attuale assetto ordinamentale dello Stato turco, ma esclusivamente attraverso mezzi pacifici, e, pertanto, non può essere considerato in contraddizione con i principi democratici o lo spirito della Convenzione. È vero che alcuni membri e leaders locali non avevano condannato apertamente alcuni episodi terroristici compiuti da terzi, lasciando così intendere una tacita approvazione di mezzi violenti, e che il partito non si era distanziato dalle loro posizioni; tuttavia, il limitato effetto di una simile politica non giustifica le misure adottate, che restano notevolmente sproporzionate.

 

 

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2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 5 gennaio 2016, Frumkin c. Russia

Nella città di Mosca era stata organizzata una marcia di protesta contro presunti abusi nelle elezioni del Parlamento e del Presidente della Federazione. Il giorno della manifestazione, a differenza di quanto (almeno tacitamente) concordato con gli organizzatori, la polizia aveva notevolmente ridotto lo spazio a disposizione della folla, vietando l'accesso ad un parco all'interno della grande piazza dove il corteo terminava. Dopo aver infruttuosamente tentato di dialogare con le autorità, alcuni manifestanti avevano organizzato sul posto un sit-in di protesta ed invitato i presenti alla resistenza ad oltranza. In conseguenza di questo ed altri momenti di tensione, che però non erano degenerati in situazioni particolarmente pericolose, la polizia aveva disperso la folla ed arrestato numerose persone. Il ricorrente, uno dei partecipanti, veniva arrestato con l'accusa di aver ostacolato il traffico e disobbedito agli ordini della polizia di cessare dalla sua attività. Dopo essere rimasto per circa trentasei ore in custodia preventiva amministrativa, era processato e condannato a quindici giorni di detenzione amministrativa. Durante il processo, il ricorrente chiedeva un rinvio perché non era in grado di affrontare l'udienza (dopo essere stato tenuto per buona parte della giornata precedente in un veicolo della polizia senza cibo né acqua), ma la richiesta veniva respinta. Le prove testimoniali e documentali da lui richieste venivano ammesse solo in parte e in alcuni casi giudicate irrilevanti.

Il ricorrente lamenta in primo luogo la lesione della propria libertà di riunione, protetta dall'art. 11 Cedu. Con riferimento alla complessiva gestione dell'ordine pubblico, la Corte europea ritiene che le autorità non abbiano correttamente assolto l'obbligo positivo di protezione dei manifestanti da possibili episodi di violenza: indipendentemente dalla limitazione dell'accesso al parco, la polizia non ha comunicato chiaramente ai partecipanti le proprie decisioni o gli ordini, né reagito adeguatamente all'evolversi della protesta, consentendo così l'escalation violenta in alcune aree. Circa l'arresto e la sanzione subiti dal ricorrente, la limitazione appare del tutto ingiustificata: si trovava tra i manifestanti che avevano mantenuto un atteggiamento pacifico, lontano dalle zone dove avvenivano gli scontri (aveva quindi diritto ad essere protetto da atti violenti perpetrati da altri); i motivi del suo arresto non sono legati alla violazione della normativa sull'ordine pubblico e, in ogni caso, i provvedimenti presi contro di lui sono gravemente sproporzionati, e costituiscono un forte deterrente ad esercitare attività politica.

Viene ravvisata, inoltre, una violazione dell'art. 5 Cedu. Se, infatti, l'arresto del ricorrente potrebbe trovare giustificazione nella volontà di disperdere velocemente la folla dopo la chiusura forzata della manifestazione per evitare ulteriori episodi di violenza, non è giustificabile, ed è del tutto arbitraria, la sua custodia preventiva ammnistrativa per circa trentasei ore (ben oltre il normale limite di tre ore indicato dalla normativa russa sui procedimenti amministrativi).

Da ultimo, il ricorrete lamenta la lesione del suo diritto ad un equo processo, garantito dall'art. 6 Cedu. Nel corso del procedimento, le autorità giudiziarie amministrative non hanno tenuto conto delle testimonianze favorevoli al ricorrente, e non hanno ammesso l'esame degli unici testimoni a supporto dell'accusa, basando la loro decisione esclusivamente sui documenti forniti dalla polizia i quali, peraltro, sembravano costruiti su modelli altamente standardizzati e non fornivano informazioni personali sul ricorrente. Inoltre, i giudici nazionali non hanno esaminato la legittimità dell'ordine della polizia a cui il ricorrente avrebbe disobbedito. Pertanto, viene accertata altresì la violazione dell'art. 6 Cedu. (Marco Mariotti)

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 5 gennaio 2016, Kleyn c. Russia

All'esito di un giudizio per duplice omicidio, conseguente all'annullamento con rinvio dell'originaria sentenza di primo grado (emessa da un collegio composto in violazione del diritto nazionale), il ricorrente è condannato ad una lunga pena detentiva. Dinanzi alla Corte europea egli lamenta la lesione dell'art. 5 Cedu da diversi punti di vista. Anzitutto, per i giudici di Strasburgo è fondata la doglianza relativa alla violazione dell'art. 5 comma 1 lett. c Cedu: la detenzione, protrattasi per quasi due anni, fondata sulla sentenza di condanna di primo grado, poi annullata dalla Suprema corte, risulta illegittima, essendo stata pronunciata da un tribunale "non costituito per legge". Da qui, anche la fondatezza della doglianza relativa alla violazione dell'art. 5 comma 5 Cedu: la legge nazionale non riconosce il diritto all'equo indennizzo in favore di chi sia stato detenuto sulla base d'una condanna illegittima, perché pronunciata da un giudice non legalmente costituito. Infondata è, invece, la doglianza relativa ad un'ulteriore, pretesa violazione dell'art. 5 comma 1 lett. c Cedu: il mantenimento della custodia cautelare dopo l'annullamento della condanna di primo grado da parte della Suprema corte è, per i giudici europei, legittimo, essendo giustificato, dapprima, in forza di un provvedimento emesso dalla Suprema corte, in seguito, da un provvedimento emesso dal competente (e, questa volta, legalmente costituito) giudice dibattimentale in sede di rinvio. (Fabio Cassibba)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 5 gennaio 2016, Süveges c. Ungheria

Il ricorrente, indagato per una pluralità di gravi delitti contro la persona, è posto in custodia cautelare (per più di tre anni), poi agli arresti domiciliari. Disposta la scarcerazione ed emesso il rinvio a giudizio per tali delitti, il processo è ancora pendente dopo più dieci anni. Anzitutto, il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 5 comma 3 Cedu, per l'irragionevole durata della custodia cautelare. La doglianza è fondata: un arco di tempo di più di tre anni di detenzione (considerando tre diversi periodi) non può essere giustificato sulla base della sola gravità delle accuse. Inoltre, il ricorrente lamenta una lesione del diritto ad un effettivo controllo giurisdizionale sulla legalità della detenzione ex art. 5 comma 4 Cedu, non essendo state esibite al ricorrente prove reputate rilevanti in vista del mantenimento della misura cautelare: il giudice investito della decisione sulla proroga degli arresti domiciliari - ricevuta una lettera (anonima e manoscritta) che evidenzia le ragioni contrarie alla scarcerazione - non l'aveva esibita alle parti (per scongiurare il rischio che la grafia comportasse il riconoscimento dell'autore) ma ne aveva solo riferito, precisamente, il contenuto in udienza. Al riguardo, la Corte europea esclude la violazione del canone pattizio: l'esercizio di un effettivo contraddittorio delle parti sui profili fattuali emergenti dal documento, nonché la sussistenza di ragioni diverse da quelle ivi indicate per giustificare la protrazione degli arresti domiciliari, inducono la Corte europea a non ritenere violato l'art. 5 comma 4 Cedu. Il ricorrente lamenta, poi, la violazione della durata ragionevole del procedimento penale ex art. 6 comma 1 Cedu. Il motivo di ricorso è fondato, per più ragioni: due lunghi periodi di tempo (dal dicembre 2009 al settembre 2010 e dal luglio 2011 al gennaio 2012) sono trascorsi, in pendenza del processo, senza che si fosse tenuta un'udienza o fosse stata compiuta altra attività processuale; la prolungata stasi è dipesa solo dall'inerzia delle autorità procedenti; in ogni caso, il processo è ancora pendente in primo grado dopo più di dieci anni. Il ricorrente lamenta, ancora, che il mantenimento degli arresti domiciliari, accompagnato dal divieto di contatti con i propri familiari, abbia violato l'art. 8 Cedu. La doglianza non è fondata: la restrizione al diritto alla privatezza subita dal ricorrente è prevista dalla legge nazionale, risponde ad uno scopo legittimo ed è compatibile con i principi di uno stato democratico. Infine, il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 9 Cedu: egli, mentre si trovava agli arresti domiciliari, aveva chiesto l'autorizzazione a recarsi in chiesa per seguire la messa, ma questa gli era stata negata. Per la Corte europea, tale mancata autorizzazione non lede la previsione convenzionale, perché integra una restrizione del diritto alla libertà religiosa prevista dalla legge nazionale e non lesiva del diritto in parola. (Fabio Cassibba)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 7 gennaio 2016, Bergmann c. Germania

Il sig. Karl-Heinz Bergmann, cittadino tedesco pluripregiudicato, era stato condannato a 15 anni di reclusione per tentato omicidio e tentata violenza sessuale. Le perizie avevano accertato che soffriva di una devianza sessuale e di disordini della personalità; a fronte del grave rischio che tornasse a delinquere, veniva ordinata l'applicazione di una misura di sicurezza detentiva, che iniziava nel 2001, dopo la conclusione del periodo di reclusione. Nel 2013 il giudice dell'esecuzione osservava che, mentre al momento della condanna il limite massimo della misura di sicurezza era di 10 anni, dal 1998 una nuova legge sulla prevenzione dei reati sessuali consentiva di prolungarla sine die. Pertanto ordinava, conformemente alla disciplina di diritto transitorio, la prosecuzione della misura, poiché giudicava la patologia permanente e l'internato ancora pericoloso. La Corte costituzionale federale nel 2011 aveva in linea di principio censurato l'estensione retroattiva delle misure di sicurezza; tuttavia, in applicazione di un regime transitorio, aveva consentito alle autorità competenti di prolungare la misura se le condizioni dell'internato lo richiedessero. La corte federale aveva adottato tale soluzione ritenendo, contrariamente alla giurisprudenza della C. eur. dir. uomo, che il divieto assoluto di applicazione retroattiva non si estendesse anche alle misure di sicurezza. Inoltre, il giudice dell'esecuzione ordinava il trasferimento del ricorrente in un'apposita struttura detentiva, così che potesse ricevere cure specifiche.

La Corte di Strasburgo, in primo luogo, esclude che sia stato violato l'art. 5 Cedu. Da un lato, la detenzione non è legittima ai sensi dell'art. 5, §1, lettera a), poiché manca un sufficiente collegamento causale tra la misura e la condanna, e non sono stati rispettati i limiti temporali prescritti dalla legge del tempo. Tuttavia, la misura può essere giustificata alla luce dell'art. 5, § 1, lettera e) come detenzione di un alienato (person of unsound mind). Le autorità nazionali hanno infatti accertato la sussistenza di tutti i requisiti necessari: era realmente presente una patologia (la nozione di disordine mentale secondo il diritto tedesco è stata interpretata in modo sufficientemente rigido così da coincidere con il concetto di alienazione previsto dalla Convenzione); vi era il rischio della commissione di nuovi delitti; la misura detentiva risultava necessaria per poter sottoporre il soggetto ad un trattamento medico e per poterlo controllare; la persistenza della patologia giustificava il prolungamento della misura; infine, la decisione veniva assunta a norma di legge ed in modo non arbitrario.

La seconda doglianza del ricorrente si incentra sull'applicazione retroattiva del prolungamento della misura, a suo dire in violazione del divieto stabilito dall'art. 7 Cedu per la matière pénale. La Corte europea, dopo aver richiamato le proprie decisioni in cui aveva stabilito che la previgente misura di sicurezza detentiva nell'ordinamento tedesco doveva essere considerata una pena (sent. 17 dicembre 2009, M. c. Germania, § 122 ss.; sent. 28 novembre 2013, Gllien c. Germania, § 120 ss.), analizza il caso concreto, alla luce della riforma legislativa del 2012. Da un lato, la detenzione del sig. Bergmann continua a dipendere da una condanna penale, essendo un prolungamento di quella ordinata nel 1986, e le decisioni di iniziare e continuare l'esecuzione sono state assunte da giudici penali, anche se regolarmente investiti di tali problematiche e quindi esperti del problema. Anche alla luce del nuovo quadro legislativo, la misura subita dal ricorrente dovrebbe pertanto essere considerata una pena ai sensi dell'art. 7, § 1 Cedu. Tuttavia, la misura presenta differenza sostanziali rispetto al regime della reclusione, poiché viene eseguita in un'apposita struttura, più simile ad un appartamento che ad una prigione, dove sono garantiti interventi mirati svolti anche in gruppo; pur non del tutto scevra da una finalità punitiva, l'esecuzione è improntata alle finalità di rieducazione e di risocializzazione dell'internato; infine, è vero che non è previsto un limite massimo di durata per la misura, ma neppure è fissato un limite minimo, e quindi la durata è strettamente legata alla pericolosità sociale dell'internato ed ai suoi progressi nel percorso di risocializzazione. Pertanto, la Corte europea afferma che tanto la natura, quanto lo scopo preventivo mutano sostanzialmente il carattere punitivo della misura ed eclissano il legame con la precedente condanna; conseguentemente, essa non può più essere considerata una pena, e l'applicazione retroattiva di una modifica normativa in peius non determina una violazione dell'art. 7 Cedu. (Marco Mariotti)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 12 gennaio 2016, Buterlevičiūtė c. Lituania

La ricorrente, all'esito di un giudizio per numerosi reati contro la pubblica amministrazione, svoltosi in primo e in secondo grado senza la sua partecipazione personale, viene condannata al pagamento di una pena pecuniaria e alla temporanea sospensione da un pubblico ufficio. La ricorrente si duole, così, della lesione all'equità processuale, rilevante ex art. 6 comma 1 Cedu: eccepisce, per un verso, la mancata celebrazione di una udienza orale nel giudizio di primo grado, conclusosi con la condanna per tutte le imputazioni; per l'altro, l'impossibilità di partecipare personalmente all'udienza d'appello, che, pur conclusosi con l'assoluzione da numerose imputazioni, ha confermato per le restanti la condanna di primo grado, riducendo solo la pena già inflitta. Per la Corte europea, la doglianza è fondata, limitatamente al secondo profilo. Anzitutto, la mancata celebrazione di un'udienza orale nel giudizio di primo grado, regolato da un procedimento semplificato, non viola l'art. 6 comma 1 Cedu: la mancanza di un'udienza orale può ben essere rimediata nel giudizio d'appello, purché quest'ultimo sia volto, come nel caso di specie, a riesaminare tutta la vicenda, in fatto e in diritto. Viceversa, le modalità di svolgimento del giudizio d'appello, che non ha comportato la partecipazione personale dell'imputata, violano la previsione convenzionale. La mancata notificazione all'imputata dell'avviso di fissazione dell'udienza d'appello, senza che la questione sulla mancanza di una valida notifica fosse stata affrontata dal giudice d'appello, lede l'equità processuale: alla luce degli effetti della condanna, la partecipazione dell'imputata al giudizio d'appello era necessaria. (Fabio Cassibba)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 14 gennaio 2016, Maslák e Michálková c. Repubblica ceca

Nell'ambito di una complessa indagine nei confronti di una pluralità di accusati per numerose ipotesi di estorsione (tentate o consumate), l'autorità giudiziaria procedente dispone la perquisizione degli appartamenti e dei garage dei ricorrenti, nonché delle autovetture a loro disposizione, al cui esito viene sequestrato materiale probatorio, poi posto alla base di una misura cautelare custodiale. Dinanzi alla Corte europea, i ricorrenti lamentano che tale attività d'indagine abbia violato il loro diritto alla privatezza, protetto dall'art. 8 Cedu: da un lato, la perquisizione, nelle prospettazioni difensive, avrebbe dovuto essere preceduta dall'interrogatorio degli accusati; dall'altro, la perquisizione sarebbe stata arbitraria, perché basata su un provvedimento autorizzativo ritenuto non adeguatamente motivato. Per i giudici di Strasburgo, la doglianza non è fondata. Dal primo punto di vista, i ricorrenti non possono lamentare, dinanzi alla Corte europea, il mancato espletamento dell'interrogatorio prima del compimento della perquisizione, poiché tale atto non è previsto dalla legge nazionale e, ipotizzando che tale mancata previsione sia lesiva della Costituzione ceca (come eccepito dai ricorrenti), costoro avrebbero dovuto sollevare la relativa questione di costituzionalità: non averlo fatto integra il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Dal secondo punto di vista, la perquisizione non risulta arbitraria perché era prevista dalla legge, compatibile con gli scopi dell'atto d'indagine e giustificata sulla base di un decreto autorizzativo motivato sui profili fattuali e giuridici. (Fabio Cassibba)

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 19 gennaio 2016, Kalda c. Estonia

Il ricorrente, cittadino estone condannato all'ergastolo, aveva presentato domanda alle autorità penitenziarie per poter consultare alcuni siti internet (il sito dell'ufficio nazionale estone per le informazioni sul Consiglio d'Europa, quello del Ministero della Giustizia e quello del Parlamento nazionale); aveva giustificato la richiesta con la necessità di acquisire informazioni utili a difendersi adeguatamente nel corso di numerosi procedimenti in cui è parte contro l'amministrazione penitenziaria. I tribunali amministrativi di primo e secondo grado concedevano l'accesso alla prima delle tre pagine web, ma la Corte suprema, con un revirement della propria recente giurisprudenza, ribaltava il verdetto, negando l'accesso ai tre siti. I giudici estoni di ultima istanza, infatti, ritenevano che nessuno di questi potesse essere considerato un database ufficiale di legislazione o di giurisprudenza (categorie per le quali l'ordinamento penitenziario prevede un'esplicita eccezione all'altrimenti generale divieto di utilizzo di internet per i detenuti); la restrizione appariva giustificata al fine di evitare l'uso della rete per comunicazioni o per altri scopi non consentiti, e proporzionata alla luce delle esigenze di sicurezza, considerata la possibilità di procurarsi le informazioni con altri mezzi, quali la posta ordinaria o la richiesta alla competenti autorità.

Il ricorrente adiva la C. eur. dir. uomo lamentando la violazione del suo diritto a ricevere informazioni senza ingerenze da parte delle autorità pubbliche. La Corte europea, in primo luogo, stabilisce che l'art. 10 non può essere interpretato nel senso che gravi sugli stati un generale obbligo di garantire ai detenuti l'accesso ad Internet, o ad alcuni siti; tuttavia, nel caso di specie, il divieto di navigare su alcune pagine si traduce in una limitazione del diritto a ricevere informazioni. Il fondamento normativo della restrizione non è contestato, e lo scopo è certamente quello della prevenzione del crimine, nonché della protezione dei diritti altrui; la sentenza si incentra quindi sul requisito della necessità della limitazione. Determinante, in tal senso, la circostanza che i siti web in oggetto ospitino sintesi e spiegazioni della giurisprudenza della C. eur. dir. uomo, ed altro materiale concernente i diritti fondamentali, materiale a cui si riferiscono spesso le corti nazionali nelle loro decisioni; pertanto, la loro consultazione potrebbe essere determinante perché il ricorrente eserciti appieno il suo diritto di difesa. Inoltre, viene osservato che né la Corte suprema, né il Governo estoni hanno illustrato compiutamente quali potrebbero essere i rischi derivanti dal garantire l'accesso ai siti (posto che per altre pagine autorizzate la navigazione è in ogni caso controllata e limitata), né i costi che ciò comporterebbe. La Corte europea, pertanto, ritiene la limitazione del diritto non necessaria in una società democratica e ravvisa la violazione dell'art. 10 Cedu.

Nella sua dissenting opinion, il giudice Kjølbro lamenta che la maggioranza non avrebbe considerato la particolare condizione del ricorrente (condannato all'ergastolo), che giustifica un maggior rigore. Inoltre, segnala come la Corte europea sia chiamata ad esaminare la questione dell'accesso ad internet per i detenuti per la prima volta nella sua storia, sottolineando la mancanza di un'indagine comparatistica delle legislazioni nazionali ed una certa disinvoltura nel giudizio. (Marco Mariotti)

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 26 gennaio 2016, Iasir c. Belgio

All'esito del giudizio di fronte alla corte d'assise, il ricorrente è condannato a trent'anni di reclusione per omicidio, commesso materialmente da altri, sulla premessa del suo concorso morale nell'agguato omicidiario, essendo egli pienamente consapevole del rischio che i coimputati avrebbero ucciso la vittima dell'aggressione. La sentenza, ampiamente motivata, è impugnata dinanzi alla Corte di cassazione per vizi relativi al procedimento logico della decisione ed alla relativa motivazione, ma il giudice di legittimità conferma la condanna. Dinanzi alla Corte europea, il ricorrente si duole per la violazione dell'art. 6 commi 1 e 2 Cedu: a suo dire, la Corte d'assise non avrebbe rispettato l'obbligo di motivazione e si sarebbe basata su presunzioni di colpevolezza per giustificare la condanna. Secondo i giudici europei, i motivi di ricorso sono ambedue infondati. In rapporto al rispetto dell'obbligo di motivazione, la presenza di un ampio e razionale apparato giustificativo a fondamento della condanna esclude la lesione all'art. 6 comma 1 Cedu. In rapporto alla tutela della presunzione d'innocenza, le modalità dello svolgimento dei fatti addebitati al ricorrente sono state ampiamente esaminate e correttamente valutate dalla Corte d'assise, che, per pronunciare la condanna per omicidio a titolo di concorso morale, non ha fatto uso di alcuna presunzione di colpevolezza e, anzi, ha solidamente giustificato il provvedimento alla luce della condotta addebitata al ricorrente ed emergente dall'istruzione probatoria. Non sussiste, dunque, la violazione dell'art. 6 comma 2 Cedu. (Fabio Cassibba)