ISSN 2039-1676


13 ottobre 2016 |

Monitoraggio Corte Edu aprile 2016

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte Edu rilevanti in materia penale sostanziale e processuale

A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, per questo mese, da Alberto Aimi e Luca Pressacco. L’introduzione è a firma di Alberto Aimi per quanto riguarda gli artt. 2, 3 e 10 Cedu, mentre si deve a Luca Pressacco la parte relativa agli artt. 5, 6, 8, 13 e 4 prot. 7 Cedu.

 

1. Introduzione

a) Art. 2 Cedu

b) Art. 3 Cedu

c) Art. 5 Cedu

d) Art. 6 Cedu

e) Art. 8 Cedu

f) Art. 10 Cedu

g) Art. 13 Cedu

h) Art. 4 Prot. n. 7 Cedu

2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

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1. Introduzione

a) Art. 2 Cedu

Anche questo mese la Corte di Strasburgo ha avuto modo di ribadire – nella sentenza 26 aprile 2016, Cangöz e altri c. Turchia – la propria costante giurisprudenza in tema di uso della forza letale da parte di agenti dello Stato nel corso di operazioni di sicurezza, ricordando come la privazione della vita di uno o più soggetti integri una violazione dell’obbligo negativo discendente dall’art. 2 Cedu ogni qual volta l’impiego della forza non sia stato strettamente necessario per il raggiungimento di uno degli scopi espressamente indicati dalla Convenzione. La Corte europea ha inoltre rammentato come spetti allo Stato chiamato in giudizio l’onere della prova della legittimità convenzionale delle proprie azioni. Del tutto pianamente, pertanto, viene affermata la responsabilità dello Stato turco nel caso di specie, in cui membri delle forze armate avevano ucciso con esplosivi diciassette membri disarmati del partito maoista, riunitisi nel paese di Ovacık al solo scopo di partecipare ad una riunione interna al movimento. La Corte europea, infine, ravvisa nei fatti imputati allo Stato turco anche una violazione degli obblighi procedurali discendenti dall’art. 2 Cedu, posto che, a seguito dell’accaduto, era stata aperta un’indagine segreta alla quale i ricorrenti non avevano potuto in alcun modo partecipare.

Sempre la violazione degli obblighi procedurali discendenti dall’art. 2 Cedu, ed in particolare quello di condurre un’indagine effettiva nei casi in cui un soggetto sia morto in circostanze sospette, è stato posto a fondamento della condanna dello Stato turco nella sent. 26 aprile 2016, Başbilen c. Turchia, con la quale sono state riconosciute fondate le doglianze dei genitori di un ingegnere alle dipendenze di un’azienda fornitrice delle forze armate turche, trovato morto nella sua auto nel 2006 con un taglio alla gola e uno al polso. La Corte di Strasburgo stigmatizza, in particolare, la frettolosa qualificazione del fatto da parte delle autorità investigative come suicidio, nonché la sciatteria delle investigazioni scientifiche nell’immediatezza del ritrovamento del cadavere.

 

b) Art. 3 Cedu

Anche questo mese, la Corte di Strasburgo non ha esitato a condannare gli Stati contraenti per violazione sostanziale dell’art. 3 Cedu, in relazione a casi di police brutality commessi ai danni di soggetti sottoposti all’autorità statuale (sent. 5 aprile 2016, Cazan c. Romania; sent. 26 aprile 2016, Amarandei e altri c. Romania). I casi decisi dai giudici di Strasburgo non destano, del resto, particolare sorpresa: nel primo, è stata considerata contraria all’art. 3 Cedu la condotta di un poliziotto che, all’interno di una stazione di polizia, per impedire ad un avvocato nell’esercizio delle sue funzioni di chiamare un numero di emergenza per denunciare la coercizione esercitata dall’agente nei confronti del proprio cliente, gli aveva provocato una lesione all’anulare sinistro (sent. 5 aprile 2016, Cazan c. Romania); nel secondo caso, è stato ritenuto integrare un trattamento degradante l’operato delle forze speciali della polizia rumena che, nel fare irruzione in alcuni locali un’associazione dedicata allo yoga, i cui partecipanti erano sospettati di reati legati alla prostituzione, avevano spaccato porte e finestre, insultato, bloccato a terra e minacciato con armi da fuoco gli occupanti, creando un vero e proprio clima di terrore, proseguito poi durante l’interrogatorio presso la sede del magistrato requirente (sent. 26 aprile 2016, Amarandei e altri c. Romania).

Nel condannare i governi responsabili per la violazione sostanziale dell’art. 3 Cedu operata dai propri agenti, la Corte europea non ha peraltro mancato di ribadire come sugli Stati contraenti gravi anche l’obbligo di svolgere indagini effettive sui casi denunciati di maltrattamenti da parte delle forze di polizia, ravvisando altrimenti una doppia violazione – anche procedurale – dell’art. 3 Cedu (sent. 5 aprile 2016, Cazan c. Romania; sent. 26 aprile 2016, Amarandei e altri c. Romania).

Con la sent. 12 aprile 2016, M.C. e A.C. c. Romania, la Corte di Strasburgo ha poi avuto modo di ricordare che l’obbligo procedurale, discendente dall’art. 3 Cedu, di svolgere indagini serie ed effettive a fronte di denunce di trattamenti inumani o degradanti grava in capo alle autorità statali anche quando tali trattamenti siano stati inflitti da soggetti privati. Nel caso deciso dalla Corte europea, viene riconosciuta la responsabilità dello Stato rumeno per le condotte delle autorità investigative della città di Bucarest, che, dopo sei anni di sostanziale inattività, avevano archiviato per prescrizione una denuncia presentata da sei cittadini, i quali, di ritorno da una manifestazione per i diritti LGBT, erano stati aggrediti fisicamente e verbalmente da soggetti omofobi rimasti ignoti.

Per quanto concerne, infine, la legittimità convenzionale della pena detentiva, la Corte di Strasburgo ha rammentato che la stessa può considerarsi compatibile con l’art. 3 Cedu soltanto quando ad essa si accompagni la necessaria prospettiva, pur remota, di una sua conclusione, integrando altrimenti la pronuncia di una sentenza di condanna ad una pena detentiva perpetua un trattamento contrario all’art. 3 Cedu. In particolare, nella sent. 26 aprile 2016, Murray c. Paesi Bassi (su cui v. amplius infra), la Corte europea ha avuto modo di ricordare che la perpetuità deve valutarsi non soltanto dal punto di vista giuridico, ma anche fattuale e, pertanto, può ben giungersi a una condanna di uno Stato quando, nonostante la sussistenza nel suo ordinamento di istituti giuridici che consentono la liberazione anticipata dell’ergastolano, la stessa sia stata de facto preclusa per fatti imputabili alle stesse autorità statuali.

 

c) Art. 5 Cedu

Per quanto concerne il diritto alla libertà e alla sicurezza – sotto il profilo della ragionevole durata della custodia cautelare (art. 5 comma 3 Cedu) – vengono in rilievo due pronunce “gemelle” emesse in pari data dalla C. eur. dir. uomo, vale a dire la sent. 26 aprile 2016, Merčep c. Croazia e la sent. Milanković e Bošnjak c. Croazia. In entrambi i casi, i ricorrenti lamentavano l’eccessiva durata della custodia cautelare, sostenendo che non vi fossero elementi sufficienti e rilevanti, idonei a giustificare il prolungamento della misura detentiva, giustificata solamente in origine dal pericolo di inquinamento probatorio. La C. eur. dir. uomo respinge le doglianze (non senza passare in rassegna la giurisprudenza della Corte penale internazionale e dei tribunali penali internazionali istituiti ad hoc), sancendo la compatibilità col dettato convenzionale della custodia cautelare fondata – ferma restando la necessità di un adeguato compendio indiziario – sulla gravità delle accuse (nella specie, si trattava di crimini di guerra commessi contro la popolazione civile nel corso del conflitto balcanico) e sul pericolo che si verifichino turbamenti sociali in caso di rilascio dei soggetti accusati. In conclusione, almeno nei casi di gravi violazioni dei diritti umani, la necessità di tutelare l’ordine pubblico e l’esigenza di preservare la fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario possono rappresentare fattori idonei a giustificare il prolungamento della misura privativa della libertà personale purché, precisa la Corte di Strasburgo, tali pericula non siano desunti in astratto dalla gravità delle condotte contestate, bensì fondati su precise circostanze fattuali, che il giudice cautelare ha l’onere di esplicitare nel relativo provvedimento.

 

d) Art. 6 Cedu

Per quanto riguarda il principio di equità processuale, occorre anzitutto segnalare la sent. 12 aprile 2016, Dumitru Gheorghe c. Romania in tema di diritto di accesso alla giurisdizione. Con tale pronuncia, la C. eur. dir. uomo ha accertato la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu: l’interpretazione adottata dalle corti nazionali al fine di valutare l’eventuale prescrizione del reato ipotizzato e la susseguente omessa statuizione – in contrasto con la stessa normativa interna – sul merito dell’azione civile (esercitata nell’ambito del processo penale) hanno, infatti, irrimediabilmente compromesso il diritto della persona offesa di accedere alla giurisdizione al fine della determinazione dei propri diritti ed obblighi di carattere civile.

L’omessa statuizione su parte della domanda di risarcimento del danno derivante da reato, avanzata nell’ambito del processo penale, ha indotto la C. eur. dir. uomo a sancire nuovamente la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu – questa volta per violazione dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali – con la sent. 12 aprile 2016, Pleş c. Romania (per una sintesi, v. infra). L’inadempimento degli obblighi convenzionali deriva, secondo la Corte di Strasburgo, dal comportamento delle corti nazionali, che hanno inspiegabilmente ignorato la richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale avanzata dalla parte civile, statuendo solo sul danno patrimoniale e sulle spese relative al giudizio.

Infine, merita senza dubbio di essere segnalata la sent. 26 aprile 2016, Kashlev c. Estonia (per una sintesi, v. infra): con questa pronuncia, la Corte di Strasburgo torna a pronunciarsi – discostandosi, almeno parzialmente, dai propri precedenti in materia – sull’annosa questione del diritto al confronto coi testimoni d’accusa nell’ambito di procedimenti di appello, in cui la condanna si sia fondata sulla rivalutazione del medesimo materiale probatorio che aveva condotto all’assoluzione in primo grado. Secondo la C. eur. dir. uomo, il procedimento nazionale in questione non si è svolto con modalità incompatibili rispetto ai precetti europei desumibili dall’art. 6 commi 1 e 3 lett. d, essendovi state garanzie procedurali idonee a prevenire un arbitrario o irragionevole apprezzamento delle prove da parte delle corti interne. Per un verso, la condanna irrogata per la prima volta in appello – pur conseguendo alla rivalutazione delle prove orali già assunte in primo grado – trova il proprio fondamento in un differente apprezzamento complessivo della vicenda fattuale oggetto del procedimento e, di conseguenza, del patrimonio conoscitivo giudiziale. Per altro verso, le ragioni che hanno condotto al ribaltamento del verdetto assolutorio sono state esplicitate con una motivazione “rafforzata” dal giudice appello (conformemente agli orientamenti della giurisprudenza estone in materia), mentre la difesa ha potuto presentare ricorso innanzi alla Corte suprema, competente a valutare la coerenza e l’adeguatezza delle argomentazioni addotte per giustificare il discostamento dalla pronuncia di assoluzione.

 

e) Art. 8 Cedu

Circa il diritto al risptto della vita privata e familiare, occorre segnalare la sent. 26 aprile 2016, Amarandei e altri c. Romania, in cui la C. eur. dir. uomo ha sancito la violazione del parametro costituito dall’art. 8 Cedu, in relazione ad una perquisizione domiciliare condotta dalle forze dell’ordine presso la sede di un’associazione sospettata di favorire svariate attività criminali. La C. eur. dir. uomo sottolinea in particolare due circostanze che, secondo la ricostruzione del giudice di Strasburgo, hanno contribuito a determinare la violazione del dettato convenzionale: da un lato, la perquisizione si è svolta con modalità arbitrarie ed indifferenziate rispetto al perimetro e agli obiettivi enunciati dal mandato che ne autorizzava lo svolgimento, mentre i ricorsi presentati ex post in sede giurisdizionale per contestare la correttezza delle modalità esecutive dell’operazione si sono rivelati del tutto inefficaci; dall’altro lato, gli inquirenti hanno fornito agli organismi di stampa materiale audiovisivo relativo all’operazione, senza adottare le benché minime precauzioni (per esempio, l’oscuramento dei volti), funzionali a tutelare la dignità e la riservatezza delle persone presenti nei locali in cui ha avuto luogo la perquisizione.

Sempre in riferimento ad operazioni di perquisizione domiciliare, occorre rammentare anche la sent. 28 aprile 2016, Bagiyeva c. Ucraina (per una sintesi, v. infra). La C. eur. dir. uomo riconosce la violazione dell’art. 8 Cedu, poiché nel procedimento non si sono registrate garanzie procedurali idonee a prevenire l’arbitrio dell’autorità. In primo luogo, il mandato di perquisizione – emesso ex ante dall’autorità giudiziaria – risultava assai vago in ordine agli scopi dell’operazione e al materiale da sottoporre a sequestro in caso di rinvenimento, conferendo alle autorità preposte all’esecuzione della misura una discrezionalità pressoché illimitata. Secondariamente, la Corte di Strasburgo non ritiene sia stata provata dal Governo la necessità di ricorrere all’uso della forza (mediante lo sfondamento della porta di ingresso) per procedere alle operazioni di perquisizione domiciliare, dal momento che – nel caso di specie – le dichiarazioni degli agenti di polizia non possono essere considerate come prove imparziali del fatto che la ricorrente fosse stata previamente avvisata della perquisizione.

 

f) Art. 10 Cedu

Per quanto concerne la precisazione dei limiti della legittimità convenzionale dell’interferenza dei pubblici poteri con la libertà di espressione, la C. eur. dir. uomo ha avuto modo, con la sent. 26 aprile 2006, Novikova e altri c. Russia (su cui v. amplius infra), di valutare la compatibilità con l’art. 10 Cedu dell’intervento delle autorità statuali volto a interrompere e/o a sanzionare le attività di protesta c.d. “solitaria” in luogo pubblico, giungendo ad affermare la contrarietà con la Convenzione della condotta delle autorità russe, che, nel caso di specie, avevano arrestato, interrotto e poi condannato al pagamento di una sanzione pecuniaria diversi soggetti che, del tutto pacificamente, si erano presentati in luoghi pubblici reggendo manifesti per protestare contro varie decisioni politiche o amministrative.

 

g) art. 13 Cedu

La già citata sent. 28 aprile 2016, Bagiyeva c. Ucraina (per una sintesi, v. infra) viene in rilievo anche sotto il profilo del diritto ad un ricorso giurisdizionale effettivo. Secondo la C. eur. dir. uomo, la ricorrente non ha usufruito di alcun rimedio effettivo di diritto interno rispetto alla violazione del diritto alla riservatezza, cagionata dalla perquisizione domiciliare eseguita dalle forze dell’ordine presso l’appartamento dove risiedeva con la figlia: per un verso, non rivestendo la qualità di parte nel procedimento penale nell’ambito del quale è stata disposta la misura, ella non aveva titolo per contestare direttamente la legittimità e le modalità esecutive della perquisizione; per altro verso, l’assenza di un’indagine efficace e imparziale – impedendo l’identificazione dei soggetti responsabili di eventuali comportamenti illegittimi commessi nel corso dell’operazione – ha di fatto precluso alla ricorrente anche l’introduzione presso la giurisdizione civile di un’azione di risarcimento del danno.

 

h) Art. 4 Prot. n. 7 Cedu

Per quanto riguarda il principio "ne bis in idem", si segnala la sent. 12 aprile 2006, Dungveckis c. Lituania (per una sintesi, v. infra). Nel caso di specie – caratterizzato da una vicenda processuale piuttosto complessa – il ricorrente lamentava di aver subito una doppia punizione in relazione al medesimo fatto, sostenendo che fosse stata indebitamente data esecuzione alla condanna definitiva per i reati di falso documentale e frode finalizzata all’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, nonostante egli avesse già scontato integralmente la condanna per il solo reato di falso, emessa in precedenza nell’ambito del medesimo procedimento penale. La C. eur. dir. uomo respinge le doglianze, rilevando in particolare che – nonostante la situazione di obiettiva incertezza giuridica cagionata dalla sovrapposizione di diverse sentenze di condanna – il ricorrente aveva spontaneamente eseguito le prescrizioni imposte dalla prima sentenza di condanna, senza mai sollevare il problema di fronte alle corti nazionali. Si trattava, comunque, di un unico procedimento penale, in cui venivano in gioco due fattispecie non riconducibili al medesimo fatto o a fatti sostanzialmente identici, difettando – pertanto – i requisiti indispensabili per ravvisare la violazione del ne bis in idem.

 

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2. Sintesi dei provvedimenti più significativi

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 12 aprile 2016, Dungveckis c. Lituania

Il ricorrente, accusato di falso documentale e di frode finalizzata all’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, subisce un lungo e tortuoso iter giudiziario. All’esito del giudizio d’appello, egli viene assolto dall’accusa di frode e condannato per il solo reato di falso alla pena di anni due di reclusione (3.2.2006). In tale circostanza, la pena detentiva viene sospesa condizionalmente per un periodo di tempo equivalente, con applicazione di un’ordinanza restrittiva della libertà personale (injunction), che, da un lato, gli vieta di allontanarsi dal luogo di residenza per periodi superiori a sette giorni senza apposita autorizzazione e, dall’altro lato, gli impone di riferire periodicamente all’ufficio locale dell’esecuzione penale. In sede di legittimità, la Corte suprema conferma la condanna in relazione al reato di falso e, annullando il solo capo assolutorio della sentenza, rinvia gli atti alla corte d’appello per un nuovo giudizio in merito al reato di frode (5.12.2006). Nell’appello-bis il ricorrente viene condannato per quest’ultimo illecito e, al medesimo tempo, la pena per i due reati viene complessivamente rideterminata in anni 2 e mesi 3 di reclusione, senza il beneficio della sospensione condizionale (4.7.2007). Con decisione del 31.7.2007 la Corte suprema, accogliendo le istanze del ricorrente, ordina di posporre l’esecuzione dell’ultima sentenza di appello, in attesa dell’esame sul merito della causa, senza tuttavia indicare esplicitamente se l’imputato fosse tenuto all’esecuzione dell’injunction emessa in precedenza. In ogni caso, nelle more del giudizio di legittimità, il ricorrente continua ad eseguire le prescrizioni previste dall’ordinanza restrittiva della libertà personale. In seguito, la Corte suprema conferma la condanna consolidata, riducendone l’entità per un intervenuto indulto ad anni 1 e mesi 9 di reclusione, escluso il beneficio della sospensione condizionale (8.1.2008). Respinte le istanze avanzate dal ricorrente, che sosteneva in sede esecutiva di aver già scontato una condanna addirittura più severa rispetto a quella inflitta all’esito del procedimento in relazione ai medesimi fatti, la sentenza consolidata viene posta in esecuzione. Il ricorrente lamenta, pertanto, di aver subito una doppia condanna in relazione al medesimo fatto, avendo adempiuto – dapprima – all’ordinanza imposta all’esito del primo giudizio d’appello e non essendo stato esentato – successivamente – dall’esecuzione della sentenza consolidata. La C. eur. dir. uomo respinge tali argomentazioni. In primo luogo (§ 43), viene precisato che il procedimento penale nazionale, per quanto complesso e tortuoso, ha avuto uno svolgimento unitario, potendosi escludere che nel caso di specie vi sia stata una doppia persecuzione, rilevante ai fini della violazione dell’art. 4 Prot. n. 7 Cedu. In secondo luogo (§ 44), non sussiste nemmeno il requisito dell’identità del fatto, parimenti necessario ai fini dell’applicazione del precetto europeo, essendo pacificamente ammesso – nell’ambito dell’ordinamento giuridico lituano – il concorso materiale tra i reati in questione, nel caso in cui vi sia coincidenza tra il soggetto che si è avvalso di falsi documenti al fine di evadere le imposte e colui che abbia materialmente prodotto la documentazione decettiva. Si tratta, dunque, di contestazioni che non traggono la loro origine dal medesimo fatto o da fatti sostanzialmente identici. Infine, la Corte di Strasburgo, pur stigmatizzando (§ 47) la deplorevole situazione di incertezza giuridica creatasi a seguito della decisione della Corte suprema del 31.7.2007, sottolinea (§ 48) come il ricorrente non abbia mai chiesto chiarimenti alle autorità competenti in ordine agli obblighi su di lui gravanti a seguito della sovrapposizione delle diverse condanne, né abbia mai richiesto di essere esonerato dagli adempimenti previsti nell’ordinanza restrittiva della libertà personale. (Luca Pressacco)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 12 aprile 2016, Pleş c. Romania

Il ricorrente, al momento del decesso del padre, succede processualmente a quest’ultimo in qualità di parte civile, regolarmente costituita nel procedimento penale nei confronti di alcuni alti ufficiali dell’esercito rumeno dell’epoca, coinvolti nella violenta repressione attuata dal regime di Ceauşescu nel corso delle manifestazioni del 1989. Nel procedimento nazionale, conclusosi con la pronuncia della Cassazione nella sua composizione più autorevole, viene riconosciuto al ricorrente il diritto al risarcimento del danno patrimoniale, così come delle spese sostenute per il giudizio. Risulta, invece, inspiegabilmente omesso qualsiasi riferimento alla domanda, pur tempestivamente inoltrata, di risarcimento delle voci non patrimoniali di danno. La C. eur. dir. uomo accoglie la doglianza del ricorrente: ritenendo che la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale richiedesse una risposta espressa e specifica da parte delle corti interne, essa considera violato l’art. 6 comma 1 Cedu, nella parte in cui impone che tutti i provvedimenti giurisdizionali concernenti la determinazione degli obblighi e dei diritti di carattere civile debbano essere adeguatamente motivati. Secondo la Corte di Strasburgo, infatti, in assenza di una completa statuizione sul merito dell’azione civile, risulta impossibile comprendere se tale parziale omissione sia stata il frutto di un errore involontario degli organi giurisdizionali intervenuti nel procedimento o, piuttosto, la conseguenza di deliberazioni specifiche, di cui – peraltro – le ragioni giustificative rimarrebbero avvolte nell’oscurità. (Luca Pressacco)

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 26 aprile 2016, Kashlev c. Estonia

Il ricorrente viene accusato del reato di lesioni personali gravi, per aver brutalmente aggredito – in concorso con un altro individuo, in seguito deceduto – una persona all’esterno di un locale notturno. In primo grado, egli viene assolto da tutte le accuse poiché – a parere del tribunale – non vi sarebbero elementi sufficienti per ritenerne provata la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. In particolare, le dichiarazioni di alcuni testimoni – che avevano indicato il ricorrente come uno degli aggressori – vengono considerate tra loro contraddittorie e, dunque, scarsamente attendibili. Piena attendibilità viene, invece, riconosciuta sia alle dichiarazioni rese in fase di indagine dal concorrente nel reato – in cui quest’ultimo si assumeva interamente la responsabilità dell’accaduto – sia alle dichiarazioni di un amico del ricorrente, che predicava la totale estraneità di quest’ultimo ai fatti contestati. In seguito, tuttavia, il verdetto d’innocenza viene ribaltato dalla corte d’appello, adita su ricorso del pubblico ministero: il giudice del gravame – in base ad una diversa valutazione del materiale probatorio acquisito in precedenza e senza procedere all’assunzione di alcuna testimonianza orale – ritiene, infatti, vi siano gli estremi per addivenire ad una sentenza di condanna nei confronti del ricorrente. Secondo la ricostruzione della corte d’appello, le testimonianze riguardanti il coinvolgimento del ricorrente non sarebbero affatto contraddittorie, dal momento che le discrepanze tra le narrazioni fornite dai testimoni sarebbero esclusivamente riconducibili alle fisiologiche differenze di percezione sensoriale tra i soggetti che assistono ai medesimi avvenimenti. Per contro, né le dichiarazioni dell’amico del ricorrente (in contraddizione con una pluralità di testimonianze “indipendenti”), né la confessione resa dal concorrente del reato (le cui motivazioni interiori rimangono, peraltro, sconosciute) potrebbero essere ritenute attendibili. Divenuta irrevocabile la condanna, il ricorrente lamenta – di fronte alla Corte di Strasburgo – la violazione dell’art. 6 commi 1 e 3 lett. d, sostenendo di essere stato condannato in appello, sulla base del medesimo materiale probatorio che aveva condotto all’assoluzione in primo grado, senza alcuna rinnovazione dell’attività istruttoria. La C. eur. dir. uomo – preparando il terreno per le successive argomentazioni – rileva alcuni aspetti non controversi dello svolgimento processuale. In primo luogo (§ 45), l’imputato – che aveva presenziato regolarmente alle udienze in primo grado – ha rinunciato inequivocabilmente a comparire personalmente di fronte al giudice del gravame. Secondariamente (§ 46), né l’imputato né il suo difensore hanno mai richiesto che i testimoni fossero riesaminati nel contesto del giudizio d’appello. Infine (§ 47), non v’è dubbio che il diritto al confronto coi testimoni d’accusa sia stato integralmente rispettato nell’ambito del giudizio di primo grado. A questo punto, la Corte europea afferma ex abrupto (§ 48) che nessun elemento induce a ritenere che nel caso di specie vi sia stata una valutazione arbitraria o irragionevole degli elementi di prova a disposizione delle corti nazionali; al contrario, nel procedimento a carico del ricorrente si sono registrare garanzie procedurali sufficienti ad evitare l’arbitrio dell’autorità. In primo luogo, la corte d’appello – attenendosi alle indicazioni fornite dalla giurisprudenza consolidata della Corte suprema estone sul tema – ha predisposto una motivazione “rafforzata”, spiegando analiticamente le circostanze che giustificherebbero la revisione del verdetto assolutorio. In tale contesto, la Corte di Strasburgo sottolinea come le differenze di valutazione tra gli organi giurisdizionali interni siano il risultato di un differente approccio complessivo alla vicenda fattuale sottesa al procedimento e, di conseguenza, agli apprezzamenti delle discrepanze e delle convergenze tra le dichiarazioni testimoniali. Secondariamente, la C. eur. dir. uomo pone l’accento sulla possibilità, di cui il ricorrente si è legittimamente avvalso, di impugnare la sentenza di fronte alla Corte suprema, vale a dire di fronte all’organo giurisdizionale competente a valutare la coerenza e l’adeguatezza delle motivazioni addotte per giustificare la condanna emessa per la prima volta in appello. Infine, la C. eur. dir. uomo precisa come sia proprio l’esistenza di “presidi” adeguati – in quanto idonei a tutelare l’imputato contro un’arbitraria valutazione delle prove e un’irragionevole ricostruzione dei fatti – nella legislazione e nella giurisprudenza interna, a consentire di distinguere il presente caso dai precedenti in materia, in cui era stata dichiarata la violazione del dettato convenzionale. In conclusione, viste le circostanze enunciate, la Corte di Strasburgo ritiene (pur con una elaborata dissenting opinion) che nel procedimento penale nei confronti del ricorrente non vi sia stata alcuna violazione dell’art. 6 commi 1 e 3 lett. d. (Luca Pressacco)

 

C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 26 aprile 2016, Murray c. Paesi Bassi

Nel 1979 il ricorrente, James Murray, viene giudicato colpevole di omicidio da parte della corte di prima istanza delle Antille olandesi, e condannato alla pena di vent’anni di reclusione. Nel 1980, in sede di revisione della sentenza di primo grado, la pena della reclusione viene mutata in quella dell’ergastolo; tale mutamento viene giustificato in ragione della pericolosità sociale dell’autore, dovuta alla sua forte disabilità mentale. Il ricorrente sconta la pena nelle prigioni di Aruba e Curaçao, ma ivi non gli viene offerta la possibilità di sottoporsi ad un trattamento psichiatrico rieducativo. Nel corso degli anni, il Murray presenta numerose richieste di grazia o di revisione della pena, che vengono tutte respinte anche (od esclusivamente) in base al pericolo di una recidiva, che non sarebbe stato possibile escludere proprio a causa della mancata sottoposizione del ricorrente ad un trattamento finalizzato alla cura della sua disabilità mentale. Il ricorrente – scarcerato nel 2014 soltanto per il sopravvenire di una grave patologia giunta ormai allo stadio terminale – lamenta la violazione dell’art. 3 Cedu, sia con riferimento al carattere de jure e de facto perpetuo della sanzione inflittagli, sia sotto il profilo delle condizioni in cui si era svolta la propria detenzione, protrattasi in regime comune e in assenza di un adeguato trattamento psichiatrico. La Corte di Strasburgo, dopo aver ribadito la propria giurisprudenza in tema di incompatibilità della pena dell’ergastolo senza realistica possibilità di liberazione con il divieto di trattamenti inumani o degradanti sancito dall’art. 3 Cedu, e ricordato che anche l’esecuzione di una tale pena dev’essere comunque finalizzata alla rieducazione del reo, sottolinea la stretta correlazione intercorrente, nel caso sottoposto alla sua attenzione, tra le condizioni in cui si era svolta la detenzione del ricorrente – in particolare, l’assenza di un adeguato trattamento psichiatrico – e la fondatezza delle sue doglianze. Era stata, infatti, proprio l’impossibilità per il Murray a sottoporsi a un trattamento psichiatrico ad avergli precluso di intraprendere un percorso rieducativo che avrebbe potuto scongiurare quel pericolo di recidiva, che, a sua volta, era stato posto a fondamento dei costanti dinieghi delle richieste di scarcerazione avanzate dal ricorrente. La pena inflitta al Murray aveva pertanto finito per assumere un carattere de facto perpetuo, dal momento che non vi era stata alcuna possibilità, per il ricorrente, di soddisfare i requisiti necessari per l’accoglimento di una richiesta di scarcerazione. L’accoglimento del ricorso in relazione a questo profilo rende infine superflua, secondo la Corte europea, l’analisi degli altri profili di contrasto della condotta dello stato olandese con l’art. 3 Cedu lamentati dal ricorrente. (Alberto Aimi)

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 26 aprile 2006, Novikova e altri c. Russia

In date diverse comprese tra il 2006 e il 2012, i cinque ricorrenti, di nazionalità russa, si presentano da soli in un luogo pubblico reggendo manifesti che recano frasi di protesta contro le più disparate decisioni politiche o amministrative. Nell’immediatezza della protesta, ciascuno di essi viene arrestato o comunque condotto alla più vicina stazione di polizia. In quattro casi, inoltre, i ricorrenti vengono sottoposti a procedimento amministrativo e condannati al pagamento di una multa in applicazione dell’art. 20.2 § 2 del Codice delle sanzioni amministrative della Federazione russa, che punisce l’organizzazione di un evento pubblico senza previa notifica all’autorità competente, oppure in applicazione dell’art. 20.1 del medesimo testo di legge, che sanziona il turpiloquio in luogo pubblico. I cinque cittadini russi – con ricorsi originariamente separati, ma per l’occasione riuniti dalla corte di Strasburgo in applicazione dell’art. 42 § 1 delle Rules of the Court – ravvisano nella condotta tenuta delle autorità in occasione delle proteste un’interferenza indebita nell’esercizio delle libertà di espressione e riunione loro garantite dagli art. 10 e/o 11 Cedu. La Corte europea, dopo aver deciso di esaminare i ricorsi nell’ottica dell’art. 10 Cedu, divide innanzitutto i ricorrenti in tre gruppi: da un lato, i casi in cui, nonostante la manifestazione di protesta fosse un’iniziativa solitaria, al momento dell’intervento delle forze di polizia erano presenti più persone nelle vicinanze del ricorrente; dall’altro, il caso in cui il dimostrante era in effetti rimasto sempre da solo e, da ultimo, il caso in cui il ricorrente era stato condannato per turpiloquio. In relazione al primo gruppo di casi, pur ammettendosi in linea di principio che l’interferenza con la libertà di espressione dei ricorrenti era fondata su una base legale, la Corte Edu ritiene che tale interferenza non possa considerarsi necessaria in una società democratica. Considerato, infatti, che le azioni delle autorità russe erano dirette alla prevenzione di condotte illecite, secondo la Corte europea deve ritenersi sproporzionato sia l’atto consistito nel porre anticipatamente fine alla protesta, la cui natura pacifica avrebbe comunque imposto un certo grado di tolleranza da parte delle autorità, sia l’arresto dei ricorrenti, posto che, data l’assenza di pericoli per la pubblica sicurezza e per il corretto svolgimento del traffico stradale, non vi erano ragioni per non effettuare la contestazione dell’illecito amministrativo sul posto. Ma non solo: un ulteriore profilo di contrasto con l’art. 10 Cedu viene ravvisato nell’imposizione di una sanzione amministrativa ai ricorrenti per mancata previa comunicazione dell’evento alle autorità, perché, inter alia, sia la pretesa di trattare casi di protesta “solitaria” come casi di manifestazioni organizzate per la sola casuale presenza di più persone nelle vicinanze del manifestante, sia la misura della sanzione comminata – foriera di un vero e proprio chilling effect – sarebbero da considerarsi sproporzionate rispetto allo scopo di difesa dell’ordine pubblico, pur legittimamente perseguito dallo Stato russo mediante la previsione di un obbligo di previa notifica degli eventi pubblici e di una relativa sanzione per inosservanza dello stesso. Per quanto riguarda, invece, il caso in cui il ricorrente era rimasto sempre da solo, la Corte di Strasburgo stigmatizza la totale assenza di base legale dell’intervento delle autorità diretto a fermare la protesta dello stesso e il suo successivo arresto, ravvisando nella condotta tenuta dallo Stato russo un’interferenza manifestamente illegale e sproporzionata nella libertà di espressione del ricorrente. Per quanto concerne, infine, il caso in cui il ricorrente era stato condannato per turpiloquio in luogo pubblico, la doglianza viene ritenuta fondata sottolineando brevemente la totale assenza di prove poste a fondamento dell’inflizione di tale sanzione, che viene pertanto pianamente qualificata dalla Corte europea come interferenza illecita nell’esercizio del diritto garantito dall’art. 10 Cedu. (Alberto Aimi)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 28 aprile 2016, Bagiyeva c. Ucraina

L’odierna ricorrente è la ex moglie di un soggetto sottoposto a procedimento penale, per aver formato una licenza di guida falsa. In base a un’intercettazione telefonica, da cui sembrava ragionevole desumere l’esistenza di contatti tra la ricorrente e l’ex marito, gli inquirenti ottenevano dall’autorità giudiziaria un mandato di perquisizione domiciliare, al fine di rinvenire – presso l’appartamento in cui la ricorrente viveva con la figlia – arnesi utili alla contraffazione di documenti. Le forze dell’ordine, poiché nessuno risultava presente nell’appartamento al momento dell’accesso, provvedevano a sfondare la porta ed effettuare la perquisizione; riportavano, comunque, nel rapporto di servizio di aver tentato senza successo di contattare telefonicamente la ricorrente proprietaria dell’appartamento. Quest’ultima, rientrata in casa dopo alcuni giorni, trovava la porta scassinata e denunciava la sparizione di soldi, telefoni cellulari e svariati complementi d’arredo dall’unità immobiliare. Poiché i procedimenti penali instaurati per far luce sulla vicenda si concludevano senza alcun risultato concreto, la ricorrente lamenta di fronte alla C. eur. dir. uomo la violazione degli art. 8 e 13 Cedu, in relazione all’operazione di perquisizione domiciliare effettuata presso l’appartamento di sua proprietà. La Corte di Strasburgo accoglie entrambe le doglianze. Per quanto riguarda il primo profilo, l’interferenza con la vita privata e familiare della ricorrente – pur prevista dalla legge nella legittima prospettiva di prevenzione dei reati – non potrebbe essere concretamente considerata una «misura necessaria in una società democratica», ai sensi dell’art. 8 comma 2 Cedu. Infatti, da un lato, il mandato di perquisizione – emesso ex ante dall’autorità giudiziaria – risultava assai vago in ordine agli scopi dell’operazione e al materiale da sottoporre a sequestro in caso di rinvenimento, conferendo alle autorità preposte all’esecuzione della misura una discrezionalità pressoché illimitata; dall’altro lato, poiché nel caso di specie le dichiarazioni degli inquirenti (contenute nel rapporto di servizio) non possono essere considerate alla stregua di «prove imparziali», la Corte di Strasburgo ritiene che le autorità non abbiano apportato elementi sufficienti a dimostrare che la ricorrente fosse stata tempestivamente avvisata della necessità di procedere con la perquisizione, consentendole di evitare i danneggiamenti all’unità immobiliare derivanti dall’uso della forza. Per quanto concerne il secondo profilo, la ricorrente non ha usufruito – secondo la Corte europea – di alcun rimedio effettivo di diritto interno rispetto alla violazione del suo diritto alla riservatezza. Infatti, non rivestendo la qualità di parte nel procedimento penale nell’ambito del quale è stata disposta la misura, ella non aveva titolo per contestare direttamente la legittimità e le modalità esecutive della perquisizione. D’altro canto, l’assenza di un’indagine effettiva ed indipendente – impedendo l’identificazione dei soggetti responsabili di eventuali comportamenti illegittimi commessi nel corso della perquisizione – ha di fatto precluso alla ricorrente anche l’introduzione presso la giurisdizione civile di un’azione di risarcimento del danno. (Luca Pressacco)