ISSN 2039-1676


13 ottobre 2016 |

Monitoraggio Corte Edu maggio 2016

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte Edu rilevanti in materia penale sostanziale e processuale

A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, per questo mese, da Francesco Zacchè e Stefano Finocchiaro. L’introduzione è a firma di Stefano Finocchiaro per quanto riguarda gli artt. 2, 3, 10, 11 Cedu e 1 Prot. add. Cedu, mentre si deve a Francesco Zacchè la parte relativa agli artt. 5 e 6 Cedu.

1. Introduzione

a) Art. 2

b) Art. 3

c) Art. 5

d) Art. 6

e) Art. 10

f) Art. 11

g) Art. 1 Prot. add.

 

2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

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1. Introduzione

a) Art. 2

In materia di diritto alla vita, si segnala anzitutto la dec. 31 maggio 2016, Castro e Lavenia c. Italia, relativa ad un caso di suicidio di un detenuto verificatosi nel carcere di Catania: con una pronuncia di manifesta infondatezza la Corte europea ha escluso che l’art. 2 fosse stato violato tanto sotto un profilo sostanziale – non essendo emersa alcuna responsabilità dei medici e delle guardie dell’istituto penitenziario – quanto sotto un profilo procedurale – in quanto le indagini svolte, per quanto conclusesi con un’archiviazione, erano state svolte in modo rapido, efficiente e senza lasciare adito a incertezze sull’accaduto (per una sintesi, v. infra).

Anche questo mese, inoltre, la Corte di Strasburgo (nella sent. 12 maggio 2016, Gaysanova c. Russia,) ha riconosciuto la responsabilità del governo russo per la sparizione di una ragazza cecena, avvistata l’ultima volta nell’ottobre 2009 nei pressi di un’abitazione del distretto di Grozny, durante un’operazione dei militari russi volta ad eliminare alcuni membri di un gruppo armato illegale. La Corte ha ravvisato una violazione tanto dell'art. 2 Cedu (sotto il profilo sia sostanziale, in riferimento alla presunta morte della vittima, sia procedurale, in relazione all'inadeguatezza delle indagini svolte intorno alla sparizione), quanto degli articoli 3 Cedu (in relazione alle sofferenze patite dalla madre della ragazza scomparsa) e 5 Cedu (con riferimento alla detenzione illegale delle persone scomparse).

Invece, nella sent. 31 maggio 2016, Bakanova c. Lituania – relativa ad un caso in cui il marito della ricorrente era stato rinvenuto morto nella cabina di una nave privata diretta in Brasile, per la quale lavorava come meccanico – la Corte ha censurato esclusivamente l’ineffettività delle indagini condotte dalle autorità lituane. Il capitano della nave aveva organizzato immediatamente una commissione d’indagine sull’accaduto, scattando fotografie e facendo rapporto ai superiori: sulla base di tale documentazione e sulla scorta dell’esame di un medico brasiliano, la ragione del decesso era stata individuata in un attacco di cuore dovuta a cause naturali. Il corpo venne il giorno stesso imbalsamato e poi rispedito in Lituania. Le possibili cause della morte erano quindi state esaminate in due separati procedimenti, uno penale e l’altro amministrativo, iniziati su impulso della ricorrente, la quale chiedeva di classificare l’evento come “morte sul lavoro”, dovuta alle precarie condizioni di sicurezza presenti sulla nave, ove – nel periodo appena antecedente alla morte – si erano verificati diversi episodi di incendio e fuoriuscita di gas nocivi. Entrambi i procedimenti non giunsero però a conclusione, avendo le autorità lituane ritenuto che mancasse qualsivoglia evidenza che la causa della morte non fosse naturale, come riportato nel certificato medico. La Corte europea – pur rammentando come il rigore del proprio scrutinio si affievolisca allorché la morte non sia stata causata dall’utilizzo della forza da parte di autorità statali – ha rinvenuto una violazione degli obblighi procedurali nascenti dall’art. 2 Cedu in ragione, essenzialmente, di una carenza di effettività delle indagini determinata dall’assenza tanto di un’autopsia sul cadavere, quanto di un sopralluogo delle autorità lituane sull’imbarcazione in questione, comportamenti, quest’ultimi, che avevano vanificato ogni possibilità di accertare non solo la causa del decesso ma anche le generali condizioni di lavoro presenti sulla nave.

Non solamente l’inadeguatezza delle indagini condotte dalle autorità statali, ma soprattutto l’illegittimità dell’uso della forza letale da parte delle forze dell’ordine (e, quindi, una violazione degli obblighi negativi discendenti dall’art. 2 Cedu) ha condotto ad una nuova pronuncia di condanna della Turchia da parte dei giudici europei nella sent. 10 maggio 2016, Kalkan c. Turchia, in cui la Corte ha ritenuto che il governo turco non avesse adeguatamente sostenuto il proprio onere di provare che l’uccisione del figlio del ricorrente da parte della polizia, con un colpo d’arma da fuoco, fosse assolutamente necessaria: in particolare l’operazione non è risultata preparata e controllata in modo tale da ridurre al minimo i rischi per la vita della persona, che era sì un noto criminale appartenente al PKK ma che, nell’occasione, si trovava disarmato e intento a recarsi ad un picnic con la famiglia.

 

b) Art. 3

Il rispetto delle garanzie scaturenti dall’art. 3 Cedu viene affrontato sotto un triplice profilo nella sent. 10 maggio 2016, Topekhin c. Russia. Il primo attiene al trattamento medico ricevuto dal detenuto, affetto da gravi problemi alla schiena degenerati, durante la reclusione, in una paralisi degli arti inferiori: al riguardo la Corte rammenta che l’assistenza medica all'interno di strutture carcerarie deve essere adeguata e paragonabile alla qualità del trattamento che le autorità statali si sono impegnate a fornire (in media, e non al massimo livello disponibile) a tutta la popolazione. Così, operando il consueto bilanciamento tra "compatibilità con la dignità umana" del detenuto e “esigenze pratiche della detenzione", la Corte è giunta ad escludere la violazione dell’art. 3 Cedu, rilevando come il detenuto malato fosse stato visitato da vari medici, tra cui un neurologo, e fosse stato sottoposto ad esami complessi (come un’analisi del liquido cerebrospinale), programmati ed eseguiti in modo tempestivo e corretto. Nella medesima pronuncia è stata invece rinvenuta una violazione dell’art. 3 Cedu con riferimento sia alle condizioni di detenzione del malato (lasciato senza alcuna assistenza da parte di personale qualificato, e dunque costretto a fare affidamento interamente sull'aiuto degli altri detenuti) sia alle condizioni di trasferimento del detenuto tra due istituti penitenziari (svoltosi per nove ore nei vagoni standard di un treno senza particolari attrezzature e, per il resto, in un furgone ove il malato era stato adagiato direttamente sul pavimento, esposto alle vibrazioni della strada e, quindi, a forti dolori alla schiena).

È stata invece esclusa dalla Corte europea la sussistenza di una violazione sostanziale dell’art. 3 Cedu nella sent. 31 maggio 2016, Comoraşu c. Romania relativa alle condizioni di internamento di un detenuto affetto da problemi psichiatrici, che ha visto tuttavia accolto il proprio ricorso sotto il diverso profilo dell’obbligo (procedurale) di cui all’art. 3 Cedu di svolgere indagini effettive, in riferimento al quale la Corte ha ribadito principi di diritto già ampiamente consolidatisi nella propria giurisprudenza.

In materia di uso illegittimo della forza da parte della polizia durante una manifestazione, la Corte europea (nella sent. 24 maggio 2016, Süleyman Çelebi e altri c. Turchia) ha rinvenuto – oltre ad una violazione dell’art. 11 Cedu (v. infra) – un’illegittimità convenzionale sotto il profilo degli obblighi procedurali discendenti dall’art. 3 Cedu, stante l’assenza di un procedimento volto ad accertare le eventuali responsabilità delle forze dell’ordine, del direttore della sicurezza e del prefetto di Istanbul, con riferimento alle violenze perpetrate durante una manifestazione del primo maggio 2008.

Infine, si occupa degli obblighi positivi discendenti dall’art. 3 Cedu la sent. 24 maggio 2016, I.C. c. Romania, relativa ad un caso di presunto stupro di una bambina quattordicenne disabile in cui la versione della ricorrente, secondo cui si sarebbe trattato di una violenza sessuale, era stata trascurata dalle autorità nazionali, a fronte delle dichiarazioni degli imputati, secondo cui il rapporto sessuale era stato consenziente (per una sintesi, v. infra).

 

c) Art. 5

In materia di libertà personale, nel mese di maggio, si segnalano le sent. “gemelle” 31 maggio 2016, Ayşe Yüksel e altri c. Turchia, e Mergen e altri c. Turchia. In tali vicende, la Corte di Strasburgo ha riscontrato l’arbitrarietà della detenzione provvisoria sopportata dai ricorrenti, poiché la loro privazione della libertà si era fondata su informazioni inidonee a persuadere un osservatore obiettivo dell’appartenenza dei medesimi a un’organizzazione terroristica: per il giudice europeo, più specificamente, lo Stato convenuto non disponeva di prove relative all’appartenenza dei ricorrenti alla criminalità organizzata; questi, inoltre, erano stati pienamente assolti dal giudice di merito, il quale aveva altresì accertato la falsità di alcune prove a carico. Di qui la violazione dell’art. 5 comma 1 Cedu.

 

d) Art. 6

Quanto all’equità processuale, sotto il profilo dell’art. 6 comma 1 Cedu, si segnala la dec. 24 maggio 2016, Kočevski c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia (per una sintesi, v. infra), con la quale la Corte europea ha dichiarato irricevibile un ricorso in tema, rispettivamente, d’imparzialità del giudice e di diritto dell’imputato di partecipare al processo. Sotto il primo profilo, il presidente del tribunale era una donna che aveva una relazione di convivenza con un uomo, il quale aveva dei rapporti economico-finanziari con una società implicata indirettamente nel processo e presso cui il ricorrente aveva ricoperto un ruolo di rilievo. Sul secondo fronte, il processo era proseguito per varie udienze in assenza dell’imputato il quale aveva addotto impedimenti di salute non documentati.

La Corte di Strasburgo ha altresì dichiarato non ricevibile, con la dec. 17 maggio 2016, Van Velzen c. Paesi Bassi (per una sintesi, v. infra), un caso di mancata partecipazione del ricorrente all’udienza d’appello. Nella specie, il ricorrente aveva inutilmente impugnato la condanna in absentia emessa in primo grado per un reato bagatellare punibile con la sola pena pecuniaria. Nell’impugnazione, egli si lamentava di non aver avuto conoscenza della citazione a giudizio, perché l’atto era stato consegnato alla convivente del fratello in una piazzola per roulotte all’interno della quale tutto il suo nucleo familiare risiedeva. Per la Corte europea, il ricorso è manifestamente infondato. A suo parere, non era necessario assicurare il diritto del ricorrente a partecipare all’udienza d’appello, considerato che gli ordinamenti nazionali possono graduare le garanzie dell’art. 6 comma 1 Cedu, quando si tratti d’illeciti di natura lieve a cui consegua una pena pecuniaria.

Con la sent. 24 maggio 2016, Sîrghi c. Romania (per una sintesi, v. infra), invece, la Corte di Strasburgo ha ravvisato l’inosservanza dell’art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu, in relazione a una vicenda in cui il giudice nazionale aveva impiegato ai fini della condanna due dichiarazioni scritte rilasciate dal ricorrente nell’immediatezza del fatto di reato (guida in stato d’ebbrezza), senza garantire alcuna forma di difesa tecnica.

Viceversa, con la sent. 19 maggio 2016, Umnikov c. Ucraina, il giudice europeo ha escluso una violazione dell’art. 6 comma 1 e 3 lett. c e d Cedu, in un caso in cui il ricorrente lamentava, fra le altre cose, l’insufficienza delle prove poste a fondamento della sua condanna e l’impossibilità di difendersi non essendogli stata contestata la data del delitto (una violenza sessuale). Al riguardo, la Corte ha osservato, anzitutto, che il ricorrente aveva partecipato a tutte le udienze pubbliche del giudizio di primo grado, dove il suo avvocato aveva controesaminato i testimoni a carico, mentre in appello non era stata svolta alcuna attività istruttoria, né si era posta l’esigenza di sentire l’imputato. In secondo luogo, il giudice europeo ha rilevato come l’accusa contro il ricorrente non fosse mai cambiata nel corso del processo e come, nella specie, agli atti risultasse la testimonianza oculare di due persone estranee alla violenza sessuale, in ordine alle quali non vi è alcun dato che porti a concludere che all’accusato fosse stata negata la possibilità di metterne in dubbio l’autenticità. Secondo la Corte europea, pertanto, la condanna del ricorrente non è stata né arbitraria né manifestamente irragionevole, risultando il processo nel suo insieme equo.

In tema di contraddittorio, si segnala poi la sent. 24 maggio 2016, Przydział c. Polonia (per una sintesi, v. infra), dove in forza dell’Al-Khawaja test si è ritenuto equo un processo concluso con la condanna del ricorrente sulla base delle dichiarazioni (importanti, ma non determinanti) d’una minore di quattordici anni vittima di una violenza sessuale, sentita nel corso delle indagini dal giudice, alla presenza del pubblico ministero e di uno psicologo.

Infine, va menzionata la sent. 12 maggio 2016, Poletan e Azirovik c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia, che ha reputato equo e conforme alla presunzione d’innocenza ex art. 6 commi 1 e 2 Cedu un caso in cui, a parere del ricorrente, il giudice nazionale non avrebbe dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio la circostanza - rilevante ai fini della condanna - che egli sapesse di trasportare sul proprio camion della cocaina. Premesso che in tema di valutazione delle prove il suo ruolo è meramente sussidiario, la Corte europea non ha intravisto alcun motivo per discostarsi dalla valutazione del materiale probatorio a disposizione del giudice nazionale.

 

e) Art. 10

In materia di libertà di espressione, si segnala anzitutto una  pronuncia della Grande Camera (sent. 17 maggio 2016, Karácsony e altri c. Ungheria) relativa alla vicenda di alcuni parlamentari ungheresi dell’opposizione che, in seguito ad una protesta durante la quale avevano esposto al centro dell’aula della Camera alcuni manifesti di protesta contro la politica del governo, erano stati multati sulla base di una proposta del Presidente del Parlamento, poi approvata dall’assemblea plenaria senza alcuna previa discussione. La Corte ha ritenuto che l’irrogazione delle sanzioni pecuniarie ai ricorrenti, per quanto espressione di un legittimo esercizio dell’autonomia parlamentare, non fosse stata effettuata all’interno di un’equa procedura che consentisse ai parlamentari di contestare formalmente la decisione assunta e integrasse pertanto una violazione dell’art. 10 Cedu (per una sintesi, v. infra).

Seppur di non immediata rilevanza penalistica, si segnala altresì la sent. 17 maggio 2016, Fürst-Pfeifer c. Austria avente ad oggetto una vicenda nella quale alcuni organi di stampa avevano diffuso la notizia secondo cui la ricorrente, una psicologa operante quale esperta presso il tribunale, era anch’essa affetta da problemi psicologici. La pronuncia – a ricorrere non essendo la testata giornalistica ma, appunto, la psicologa offesa dall’articolo di stampa – non ha in realtà ad oggetto un ricorso relativo alla presunta violazione dell’art. 10 Cedu, ma proprio sui confini di quest’ultima disposizione la Corte si trova costretta a soffermarsi ampiamente, al fine di operare un bilanciamento con il diritto al rispetto alla vita privata di cui all’art. 8 Cedu, disposizione di cui la ricorrente invocava la violazione. La conclusione cui giungono i giudici europei – seppur con l’opinione dissenziente di ben tre giudici su sette – è che nel caso di specie l’interferenza nel diritto alla vita privata subìto dalla ricorrente non possa ritenersi illegittimo proprio in quanto effettuato nell’esercizio del diritto consacrato nell’art. 10 Cedu, giacché la pubblicazione dell’articolo aveva ad oggetto fatti veri (documentati da certificati medici), esposti con contegno (senza alcun commento dispregiativo), perseguendo un interesse pubblico (consistente nell’obiettivo di stimolare un serio dibattito sullo stato di salute mentale di uno psicologo che, in qualità di consulente tecnico, svolge un ruolo importante e talvolta determinante nella definizione di procedimenti giurisdizionali).

 

f) Art. 11

In materia di libertà di manifestazione si segnala la già citata (v. supra, sub art. 3 Cedu) sent. 24 maggio 2016, Süleyman Çelebi e altri c. Turchia, nella quale la Corte di Strasburgo ha considerato illegittima la modalità con cui le forze dell’ordine turche erano intervenute per contenere una manifestazione, non autorizzata ma non violenta, di alcuni sindacati nel centro di Istanbul: ad essere censurato, in particolare, è stato l'uso contro i civili di una forza “cieca”, senza alcuna distinzione, ad esempio, tra manifestanti e persone che semplicemente si trovavano nel cortile di un ospedale. In linea con la propria consolidata giurisprudenza, i giudici europei hanno ritenuto che, in questo caso, le autorità avessero dimostrato una totale mancanza di tolleranza nei confronti dei manifestanti e, pur in assenza di qualsiasi imperativa esigenza sociale che giustificasse un tale intervento, avessero limitato violentemente il loro diritto alla libertà di riunione pacifica.

 

g) Art. 1 Prot. add.

In materia di diritto di proprietà, con la sent. 17 maggio 2016, Džinić c. Croazia, la Corte europea ha accolto il ricorso di un cittadino croato, imputato per vari reati economici e societari, nei cui confronti era stato applicato un sequestro preventivo finalizzato alla confisca di alcuni beni immobili (tra cui dieci appezzamenti di terreno, due case e un edificio commerciale). Il valore di quest’ultimi – secondo la prospettazione del ricorrente – poteva stimarsi in circa nove milioni di euro, a fronte di un valore dei proventi dei reati per cui era sottoposto a giudizio di circa un milione di euro. Invocando tale sproporzione, il ricorrente aveva impugnato il provvedimento di sequestro, chiedendo ai giudici il dissequestro. La sua richiesta, tuttavia, era stata rigettata senza un esame nel merito, tanto dalla Corte Suprema quanto dalla Corte costituzionale. La Corte di Strasburgo ha ritenuto di non essere in possesso di elementi sufficienti ad affermare che il valore dei beni sequestrati corrispondesse effettivamente alla stima del ricorrente e ha quindi escluso di poter essa stessa ravvisare una violazione dell’art. 1 Prot. add. Cedu sotto il profilo della sproporzione del quantum oggetto di sequestro. Tuttavia, in linea di continuità con altre proprie precedenti pronunce, i giudici europei, nel ravvisare una violazione dell’art. 1 Prot. add., hanno ribadito l’illegittimità di ogni misura limitativa del diritto di proprietà qualora adottata in assenza di adeguate garanzie procedurali. Quest’ultime dovrebbero consistere anzitutto nell’accurata valutazione delle ragioni addotte dal destinatario della misura ablativa a sostegno della pretesa restitutoria. È infatti accettabile, sottolinea la Corte, che il sequestro, nel contesto di un procedimento penale, possa inizialmente essere ordinato sulla base di una valutazione provvisoria della proporzionalità, allorché l'assenza di un intervento tempestivo rischi di vanificarne l’efficacia, ma costituisce invece una violazione della disposizione convenzionale il mancato riesame della proporzione della misura a fronte di un’esplicita richiesta in tal senso da parte del destinatario del sequestro.

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2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 17 maggio 2016, Karácsony e altri c. Ungheria

I ricorrenti, sette parlamentari ungheresi, membri di due partiti di opposizione al governo, durante lo svolgimento dell’ordinaria attività della Camera, avevano esposto al centro dell’aula, in giorni diversi, dei grossi manifesti, che rispettivamente riportavano le seguenti frasi: “FIDESZ [il partito al governo] rubi, imbrogli e menti”, “Qui opera la mafia nazionale del tabacco”, “Distribuzione dei terreni anziché furto dei terreni”. Previa proposta del Presidente del Parlamento, l’assemblea aveva deliberato l’applicazione nei loro confronti una multa il cui ammontare si aggirava tra l’equivalente di 170 euro e l’equivalente di 600 euro. Su richiesta del governo ungherese – in prima battuta condannato dalla Corte europea per una violazione dell’art. 10 Cedu (considerato sia singolarmente, sia in combinato disposto con l’art. 13 Cedu) – la causa è stata sottoposta alla Grande Camera che, in perfetta linea con la propria consolidata giurisprudenza, ha proceduto nell’esame della causa accertando anzitutto che vi fosse un’effettiva interferenza nel diritto dei ricorrenti, e poi che essa fosse a) prevista dalla legge: nel caso di specie si trattava dell’art. 49.4 del Parliament Act che, sebbene non fosse mai stato applicato fino ad allora, è stato dalla Corte ritenuto sufficientemente preciso da rendere prevedibili ai ricorrenti le conseguenze della propria condotta; b) volta a perseguire obiettivi legittimi: nel caso in esame lo scopo era la prevenzione delle interruzioni del lavoro del Parlamento, e quindi la prevenzione di disordini e la protezione dei diritti degli altri membri del parlamento; c) necessaria in una società democratica: a quest’ultimo riguardo, ribadita in premessa l'importanza della libertà di espressione per i membri del Parlamento e dell’immunità di quest’ultimi, la Corte ha precisato come essa non sia assoluta, bensì soggetta alle restrizioni che i Parlamenti nazionali, nell’esercizio della propria autonomia, decidano di apporre, ad esempio per garantire il regolare svolgimento dell’attività delle camere. Invero, afferma la Corte, esiste un nesso inscindibile tra democrazia ed efficiente funzionamento del Parlamento. Nel caso di specie, l’esposizione di un cartello in aula è stato considerato un modo non convenzionale per i parlamentari di esprimere le proprie opinioni, attraverso il quale erano stati interrotti i lavori del Parlamento. A parere dei giudici di Strasburgo, quindi, i ricorrenti non avevano ricevuto le sanzioni per aver espresso le proprie opinioni su questioni dibattute in Parlamento, ma piuttosto per il tempo, il luogo e il modo in cui lo avevano fatto. Si trattava perciò di sanzioni, sotto questo profilo, proporzionate al legittimo scopo perseguito, e quindi (potenzialmente) legittime. Tuttavia, precisa la Corte, il requisito della proporzionalità, abbraccia anche una fondamentale componente procedurale, in base alla quale qualsiasi sanzione che interferisca con il diritto convenzionale deve essere motivata e suscettibile di essere contestata all’interno di un’equa procedura. All'epoca dei fatti in esame la normativa nazionale (poi emendata, ma senza effetti sul caso di specie) non prevedeva che il deputato multato fosse coinvolto nella relativa procedura decisionale, né che fosse ascoltato: alla proposta scritta del Presidente – neppure necessariamente motivata – era infatti seguito immediatamente il voto di approvazione da parte dell’assemblea plenaria, senza alcuna previa discussione. Per tali motivi, la Corte ha infine ritenuto che la contestata ingerenza con la libertà di espressione dei ricorrenti non fosse proporzionata agli scopi legittimi perseguiti, in quanto effettuata in assenza di adeguate garanzie procedurali. (Stefano Finocchiaro)

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, dec. 17 maggio 2016, Van Velzen c. Paesi Bassi

Nel marzo del 2008, un ufficiale di polizia consegna la citazione a giudizio per un reato bagatellare, punibile con la sola pena pecuniaria, nelle mani della convivente del fratello del ricorrente. La notificazione avviene presso la roulotte della donna, all’interno di una piazzola per camper, dove si trova anche la roulotte del ricorrente. Il mese successivo, il giudice di primo grado condanna l’imputato in absentia a una pena di 380 euro. Questi appella lamentandosi di non aver avuto conoscenza del processo. Il presidente della corte d’appello, però, dichiara inammissibile l’impugnazione, ritenendo che bastasse ai fini della conoscenza del processo la notificazione avvenuta nelle mani della compagna del fratello e che non fosse necessario sentire il ricorrente in secondo grado. Questi sostiene la violazione dell’art. 6 commi 1 e 3 Cedu, ma senza successo. Per la Corte europea, il ricorso è manifestamente infondato. Rilevato che il ricorrente non ha negato che la citazione fosse stata consegnata alla convivente del fratello, la Corte europea distingue il caso in parola da altre vicende in cui ha ravvisato la violazione del diritto dell’accusato a partecipare all’udienza. Qui, osserva la Corte, la citazione era stata debitamente notificata all’indirizzo dell’interessato, che egli condivide con i suoi familiari, uno dei quali pare che avesse accettato personalmente la richiesta di consegnargli l’atto; e, benché non sia provato se la donna avesse consegnato in tempo la citazione, tutto questo è bastato al presidente della corte d’appello per concludere che il ricorrente non si era servito dell’opportunità di essere presente all’udienza del giudizio di primo grado e che non fosse necessario disporre l’appello. Ora, per la Corte europea, la Convenzione lascia un certo margine di discrezionalità agli Stati in ordine alle garanzie da assicurare ai sensi dell’art. 6 Cedu, in particolare, quando si tratta d’illeciti minori. Nella presente circostanza, la natura lieve dell’illecito e la pena pecuniaria applicata fanno sì che il presidente della corte d’appello non avesse l’obbligo di garantire un’udienza d’appello al ricorrente giudicato in absentia in primo grado. (Francesco Zacchè)

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, dec. 24 maggio 2016, Kočevski c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia

Il ricorrente viene rinviato a giudizio per il reato di abuso d’ufficio in relazione a operazioni finanziarie poste in essere nel quadro d’una vicenda complessa di bancarotta che ha coinvolto la società per la quale lavorava. All’esito del dibattimento, il ricorrente viene condannato a sei anni di reclusione da un tribunale presieduto da una donna il cui compagno ha un rapporto economico-finanziario con la società fallita. Nel successivo appello, il ricorrente chiede il rinvio delle udienze per motivi di salute, ma senza successo. Il giudizio di secondo grado, prima, e le ulteriori impugnazioni, poi, non vanno a buon fine. Il ricorrente lamenta sia la parzialità del presidente del tribunale sia l’impossibilità di partecipare alle udienze del giudizio d’appello. Sulla base della propria giurisprudenza, la Corte europea dichiara entrambe le doglianze irricevibili. Sul primo fronte, esclusa una violazione dell’imparzialità in senso soggettivo (il ricorrente non ha portato alcuna prova al riguardo), non si ravvisa neppure una lesione di tale canone sotto il profilo oggettivo: in particolare, il partner del giudice non è mai stato parte nel processo istruito contro il ricorrente, così come la società fallita. Quanto al resto, il giudice europeo prende atto che il processo d’appello è proseguito per varie udienze in assenza dell’imputato, nonostante le sue lamentate precarie condizioni di salute. Nondimeno, la Corte di Strasburgo rileva che il ricorrente non ha mai giustificato in maniera sufficientemente documentata il suo stato psicofisico. (Francesco Zacchè)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 24 maggio 2016, I.C. c. Romania

La pronuncia in esame si occupa del delicato caso di un presunto stupro di una bambina quattordicenne disabile, in relazione al quale due uomini erano stati condannati (a tre anni uno e a diciotto mesi di reclusione l’altro) per il reato di atti sessuali con un minore, essendosi ritenuto che la vittima non fosse stata costretta a subire il rapporto sessuale, ma fosse anzi consenziente. Conclusione, quest’ultima, che – a fronte di una diversa versione della vittima durante il processo – era stata dai giudici rumeni fondata sulle affermazioni degli imputati, nonché sul fatto che la bambina non aveva riportato segni di violenza e che non aveva immediatamente denunciato l’accaduto alle proprie amiche. La Corte ha affermato che la minore età e i deficit intellettuali (comprovati da documenti medici) della persona offesa di un reato sessuale, caricano le autorità nazionali di un più grave onere di diligenza nello svolgimento delle indagini e del processo, che deve svolgersi attraverso un context-sensitive assessment”. Occorre, in particolare, che le dichiarazioni della parte offesa vengano analizzate con peculiare attenzione e che, con estremo rigore, ci si focalizzi sulla validità del suo consenso, alla luce della limitata capacità intellettuale. Nel caso di specie, nessuna delle circostanze personali del richiedente, come la sua età, il suo sviluppo mentale e fisico, le circostanze in cui l'incidente aveva avuto luogo (di notte, in una stagione particolarmente fredda), né il numero di uomini che avevano preso parte alla violenza, erano stati considerati dai procuratori e dai giudici rumeni. Da ciò la condanna dello Stato convenuto, per essere venuto meno al proprio obbligo positivo discendente dall’art. 3 Cedu, e da numerose altre fonti internazionali, di predisporre un sistema penale efficace, che persegua e punisca efficacemente tutte le forme di stupro e abuso sessuale. (Stefano Finocchiaro)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 24 maggio 2016, Przydział c. Polonia

Il ricorrente viene condannato insieme ad altri tre complici per la violenza sessuale commessa nei confronti d’una bambina minore di quattordici anni. La condanna si fonda, fra l’altro, sulle dichiarazioni rese dalla vittima nel corso delle indagini - con il supporto d’uno psicologo - al giudice e al pubblico ministero. La minorenne, in particolare, non è stata escussa in dibattimento per il grave stato depressivo provocato dalla violenza e per i conseguenti tentativi di suicidio. Il ricorrente lamenta l’iniquità della condanna per violazione dell’art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu, ma senza successo. In forza dell’Al-Khawaja test, la Corte di Strasburgo esclude l’inosservanza del dettato convenzionale. Per il giudice europeo, l’assenza del teste in dibattimento era giustificata dall’esigenza di proteggere la vittima vulnerabile. Le dichiarazioni lette, anche se importanti, non erano le prove uniche o determinanti a carico del ricorrente. Quanto alle garanzie, la Corte stigmatizza il fatto che il ricorrente e il suo avvocato non fossero mai stati avvertiti, né avessero partecipato, all’assunzione delle dichiarazioni del minore durante le indagini (contrariamente a quanto prevede il diritto interno); a ogni modo, apprezza (tra l’altro) il fatto che queste erano state raccolte da un magistrato e valutate con l’ausilio d’un esperto, controesaminato in dibattimento dalla difesa. Di qui la conclusione che, nel complesso, il processo è stato equo. (Francesco Zacchè)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 24 maggio 2016, Sîrghi c. Romania

Il ricorrente viene fermato per guida in stato di ebbrezza e successivamente condotto all’ospedale per il relativo test. Nel processo, vengono impiegate ai fini della condanna due dichiarazioni scritte che il ricorrente aveva rilasciato ai poliziotti al momento del controllo stradale. Di qui, il ricorrente lamenta la violazione dell’equità processuale. In proposito, la Corte europea osserva che le dichiarazioni rese dal ricorrente nell’immediatezza del fatto alla polizia erano state effettuate una volta iniziata la procedura penale e che, di conseguenza, il ricorrente avrebbe avuto il diritto all’assistenza d’un avvocato e di esserne informato. In conclusione, è violato l’art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu. (Francesco Zacchè)

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, dec. 31 maggio 2016, Castro e Lavenia c. Italia

A ricorrere a Strasburgo sono i genitori di un ragazzo di 19 anni che il 28 marzo 2009, pochi giorni dopo essere stato arrestato e sottoposto a misura cautelare custodiale, era stato rinvenuto morto, impiccato con delle lenzuola, nella propria cella di isolamento nel settore “Nicito” del carcere di Catania, dove era stato collocato, per ragioni di sicurezza legate alla sua dichiarata intenzione di collaborare con la giustizia. Innanzi alla Corte europea, i ricorrenti hanno anzitutto sostenuto che le autorità carcerarie italiane non fossero state in grado di controllare loro figlio e avessero quindi trasgredito il proprio obbligo positivo, discendente dall’art. 2 Cedu, di adottare misure preventive, volte a proteggere un individuo la cui vita sia a rischio. La Corte, nella propria decisione, rammenta come tale obbligo vada interpretato in modo da non imporre alle autorità un onere eccessivo o sproporzionato, tenuto conto, in particolare, delle difficoltà per la polizia di prevenire comportamenti umani, per natura imprevedibili. Così – escluso in radice che nell’ipotesi in esame si trattasse di una morte attivamente causata da terzi – ha affermato che, in caso di rischio di autolesionismo, perché sorga un obbligo positivo, occorre che le autorità sapessero o dovessero sapere che la vita del soggetto era in pericolo e che non siano state prese le misure che avrebbero ragionevolmente permesso di evitarlo. Nel caso di specie, il giovane detenuto era stato più volte visitato dal personale dell’istituto penitenziario, dalla psicologa e da uno psichiatra, dinanzi ai quali era sì apparso in uno stato di particolare agitazione dovuta all’impatto con l’esperienza carceraria, ma non aveva mai dato segni di autolesionismo o manifestato intenzioni suicide che potessero seriamente insospettire il personale sanitario. Così – vagliata altresì la rapidità e la diligenza nell’azione di primo soccorso e di trasporto in ospedale, nonché l’irrilevanza del lamentato non funzionamento delle telecamere di sorveglianza (considerate un mezzo per scoraggiare al più le aggressioni tra i detenuti, ma non l'autolesionismo) – la Corte europea ha dichiarato manifestamente infondato il ricorso. I ricorrenti lamentavano però una violazione della medesima disposizione convenzionale anche sotto al diverso profilo attinente all’effettività delle indagini condotte intorno alla vicenda. Sul punto la Corte di Strasburgo ha rilevato che, nel caso di specie, l’indagine della procura sull’accaduto si era inizialmente conclusa con un’ordinanza di archiviazione del Gip, datata 27 luglio 2010 a cui, tuttavia – in seguito ad una richiesta di riapertura delle indagini proposta dai familiari del ragazzo nel dicembre dello stesso anno – erano seguite nuove indagini, anch’esse peraltro conclusesi con una nuova richiesta di archiviazione che, nonostante l’opposizione dei familiari, era stata infine accolta dal Gip di Catania in un’ordinanza di archiviazione datata 14 gennaio 2013. Non essendo emerse carenze significative ed evidenti nelle indagini (durante le quali infatti erano stati svolti interrogatori, esami sul cadavere e nella cella, nonché analisi della documentazione medica), né dati contrastanti nelle motivazioni del provvedimento di archiviazione (in cui si dava peraltro conto dei rilievi mossi dai ricorrenti), né un mancato coinvolgimento dei parenti della vittima nel procedimento (che avevano altresì avuto la possibilità di proporre opposizione avverso la prima decisione di archiviazione), la Corte di Strasburgo ha pronunciato un rigetto per manifesta infondatezza anche sotto questo secondo profilo, attinente alla prospettata violazione degli obblighi procedurali discendenti dall’art. 2 Cedu. (Stefano Finocchiaro)