A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.
Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, per questo mese, da Elena Mariani e Stefania Basilico. L'introduzione è a firma di Elena Mariani per quanto riguarda gli artt. 2, 3, 10 e 11 Cedu, mentre si deve a Stefania Basilico la parte relativa agli artt. 5, 6 e 8 Cedu.
1. Introduzione
a) Art. 2 Cedu
b) Art. 3 Cedu
c) Art. 5 Cedu
d) Art. 6 Cedu
e) Art. 8 Cedu
f) Art. 10 Cedu
g) Art. 11 Cedu
h) Art. 13 Cedu
i) Art. 14 Cedu
2. Sintesi delle pronunce più rilevanti
***
1. Introduzione
a) Art. 2 Cedu
Anche questo mese alcune pronunce della Corte europea hanno ravvisato la violazione dell'art. 2 Cedu, sotto il duplice profilo sostanziale e procedurale.
Le sent. 8 dicembre 2015, Sagayeva e altri c. Russia, e Dudayeva c. Russia, riguardano due denunce di sparizione dei parenti dei ricorrenti a seguito di detenzione segreta ed illegale da parte di agenti dello Stato, nello specifico di militari russi durante un'operazione speciale condotta in Cecenia nei primi anni del 2000. La Corte europea ha evidenziato come si potesse presumere che i soggetti sequestrati fossero morti a seguito della detenzione, poiché il governo non aveva contestato i fatti denunciati e non aveva fornito una spiegazione soddisfacente e convincente per tali eventi, né erano state date notizie attendibili sulle persone scomparse. I giudici di Strasburgo hanno anche rilevato che le indagini erano state sospese e riprese un certo numero di volte, con lunghi periodi di inattività, ed erano ancora in corso, senza aver fatto progressi significativi nell'individuazione dei responsabili e del destino delle vittime. La mancanza di effettività, diligenza e tempestività nelle indagini era già emersa in altri casi di scomparse avvenute in Cecenia tra il 1999 ed il 2006 (sent. 18 dicembre 2012, Aslakhanova e altri c. Russia).
La sent. 15 dicembre 2015, Lopes de Sousa Fernandes c. Portogallo, concerne un caso di violazione dell'obbligazione positiva dello Stato di evitare situazioni di malpractice medica e dell'obbligo di effettuare indagini tempestive in caso di esito letale per il paziente (per una sintesi, v. infra); mentre la sent. 22 dicembre 2015, Lykova c. Russia, si riferisce alla violazione dell'obbligo positivo di proteggere la vita di un individuo tenuto in custodia e sottoposto a maltrattamenti da parte di agenti di polizia e dell'obbligo di svolgere indagini approfondite in relazione al suo suicidio (per una sintesi, v. infra).
Nessuna violazione dell'art. 2 Cedu, invece, è stata riscontrata dalla sent. 1° dicembre 2015, Sakine Epözdemir e altri c. Turchia, che riguarda il sequestro e l'uccisione di un politico di spicco curdo. I giudici europei hanno osservato, infatti, che la vittima non era sotto la protezione dello Stato e che dalle autorità nazionali non poteva essere pretesa la consapevolezza del rischio da lui corso per il ruolo rivestito, dal momento che né lui né i parenti le avevano mai informate del pericolo per la sua vita, né avevano chiesto protezione. Nemmeno la sent. 8 dicembre 2015, Kalicki c. Polonia, concernente il decesso del fratello del ricorrente a seguito delle ustioni riportate, ha individuato un comportamento contrario alla normativa convenzionale. La Corte europea ha ritenuto che le autorità interne avessero esaminato accuratamente le circostanze della morte, classificandola come accidentale (il soggetto si era addormentato mentre faceva la guardia notturna ed era venuto a contatto con un riscaldatore elettrico), e che quindi l'indagine fosse stata completa, imparziale ed attenta.
b) Art. 3 Cedu
Numerose pronunce hanno ravvisato la violazione sostanziale e/o procedurale dell'art. 3 Cedu.
Innanzitutto, i giudici di Strasburgo hanno identificato una situazione di trattamento inumano o degradante in alcuni casi di comportamento brutale tenuto dalle forze dell'ordine. La sent. 3 dicembre 2015, Yaroshovets e altri c. Ucraina, è relativa ad un caso in cui il governo non era stato in grado di dimostrare che le lesioni subite dal primo ricorrente erano state provocate da cause diverse dai maltrattamenti sofferti mentre era in stato di fermo alla stazione di polizia, inflittigli per essersi rifiutato di rispondere alle domande degli agenti. Inoltre, tutti i ricorrenti erano stati trasportati alle udienze in tribunale in pessime condizioni.
Anche nella sent. 10 dicembre 2015, Asllani c. la ex Repubblica Yugoslava di Macedonia, che si riferisce ad un caso in cui il ricorrente, alla stazione di polizia, era stato insultato a causa della sua origine etnica ed aggredito fisicamente, fino alla rottura del naso, i giudici europei hanno stabilito che le autorità nazionali non erano riuscite a fornire una spiegazione soddisfacente per quanto riguarda le circostanze effettive in cui si erano verificate le lesioni. Inoltre, l'indagine interna era stata chiusa per mancanza di prove ed il procedimento penale era ancora pendente dopo più di sette anni: il caso era stato rinviato più volte in primo grado, ma l'ufficiale di polizia accusato era sempre stato assolto. Quindi, l'indagine non aveva soddisfatto i requisiti di prontezza, speditezza e necessario vigore.
La sent. 15 dicembre 2015, Serban Marinescu c. Romania, concerne un caso in cui il ricorrente aveva lamentato di essere stato insultato, picchiato ed ammanettato ad una guida metallica da alcuni agenti, dopo essere stato portato alla stazione di polizia, contro la sua volontà, da un tassista con il quale aveva avuto una discussione. Il governo, a sua volta, aveva sostenuto che egli avesse già un livido quando era arrivato e che fosse ubriaco ed aggressivo e che, perciò, si era reso necessario l'uso della forza. L'investigazione era stata aperta e chiusa più volte ed era ancora pendente più di sette anni dopo. Pertanto, anche in questo caso, la Corte di Strasburgo ha determinato che, a causa delle carenze istruttorie e della mancanza di indipendenza delle autorità inquirenti, l'inchiesta non poteva essere considerata tempestiva, completa ed efficace.
Nella già citata sent. 22 dicembre 2015, Lykova c. Russia, poiché all'arrestato erano state intenzionalmente inflitte umiliazione e sofferenza fisica particolarmente gravi e crudeli, con l'intento di estorcergli una confessione, la condotta è stata configurata addirittura come tortura (per una sintesi, v. infra).
Nelle sent. 8 dicembre 2015, Sagayeva e altri c. Russia, e Dudayeva c. Russia, già citate in relazione all'art. 2 Cedu, i giudici europei hanno riscontrato anche la violazione dell'art. 3 Cedu ai danni dei ricorrenti, in ragione sia della sofferenza mentale dovuta alla scomparsa dei parenti ed all'illegalità della detenzione da questi patita, sia dell'angoscia derivata dall'impossibilità di accertare la sorte occorsa ai familiari e dal modo in cui i loro reclami erano stati trattati dalle autorità nazionali.
Varie sono state, poi, le condanne inflitte dalla Corte di Strasburgo a causa degli effetti cumulativi del sovraffollamento carcerario e di altri tipi di carenze presenti all'interno della struttura penitenziaria (spazio personale ridotto, cattive condizioni igienico-sanitarie, insufficienza di riscaldamento, ventilazione o luce naturale, mancanza di attività all'esterno delle celle, presenza di fumo passivo), che avevano comportato per i ricorrenti una situazione che era andata al di là delle inevitabili sofferenze inerenti all'esecuzione di una pena detentiva: sent. 8 dicembre 2015, Mironovas e altri c. Lituania; sent. 10 dicembre 2015, Ligeti e altri c. Ungheria, Bota e altri c. Ungheria, Polgár e altri c. Ungheria, Balogh e altri c. Ungheria; sent. 15 dicembre 2015, S.A. c. Turchia.
Nella sent. 15 dicembre 2015, SzafraÅ„ski c. Polonia, invece, la Corte europea non ha ravvisato alcuna violazione dell'art. 3 Cedu, in quanto l'unica difficoltà che il detenuto aveva dovuto sopportare era stata l'insufficiente separazione dei servizi igienici dal resto della cella, che però soddisfaceva adeguatamente gli altri requisiti. Quindi, le circostanze generali della carcerazione non potevano essere considerate causa di disagio e difficoltà oltre la soglia minima di gravità.
Altre due pronunce riguardano la violazione dell'obbligo positivo di fornire tempestiva ed adeguata assistenza medica ai soggetti detenuti. La sent. 3 dicembre 2015, Kushch c. Ucraina, è relativa al caso di un soggetto affetto da ipertensione arteriosa e problematiche cardiache, la cui salute era peggiorata drasticamente durante la detenzione a causa del trattamento medico inadeguato ricevuto in carcere e dell'eccessivo ritardo - dovuto a difficoltà burocratiche e logistiche - con il quale era stato trasportato e trattato in un ospedale civile. I giudici di Strasburgo hanno argomentato che non era stato fatto uno sforzo ragionevole da parte dello Stato per affrontare queste difficoltà. Inoltre, in assenza di qualsiasi chiara ragione di sicurezza o di altre giustificazioni, tenuto conto delle precarie condizioni di salute del ricorrente, l'ammanettamento in ospedale aveva costituito una misura restrittiva ed umiliante. La sent. 15 dicembre 2015, Ivko c. Russia, riguarda un detenuto affetto da tubercolosi ed epatite C, che aveva lamentato l'inadeguatezza delle cure mediche ricevute durante la reclusione e che era successivamente morto per tubercolosi in carcere. La Corte europea ha rilevato che vi era un collegamento causale tra l'elevato ritardo nell'effettuazione degli esami medici ed il deterioramento delle condizioni di salute del ricorrente. Il soggetto non aveva ricevuto un trattamento medico completo, efficace e trasparente per le patologie presentate e perciò era stato esposto a prolungata sofferenza mentale e fisica, che aveva diminuito la sua dignità umana.
Nella sent. 15 dicembre 2015, Khalvash c. Russia, invece, non è stata ravvisata alcuna violazione. Infatti, la documentazione medica presentata dal ricorrente, al fine di dimostrare che la struttura penitenziaria non era adeguatamente attrezzata per garantire la supervisione neurologica di cui egli aveva bisogno, non faceva alcun riferimento a dati oggettivi. Non vi erano, quindi, le prove del deterioramento delle sue condizioni di salute nel tempo a causa della negligenza delle autorità. Al contrario, risultava che il detenuto fosse stato sottoposto a stretta supervisione medica da parte di specialisti, fosse stato trasferito senza ritardi in ospedale quando necessario, gli fossero stati fatti accertamenti e somministrate le terapie farmacologiche occorrenti. I giudici di Strasburgo hanno anche precisato che l'art. 3 Cedu non può essere interpretato come garanzia che ogni detenuto debba ricevere cure mediche allo stesso livello di quelle offerte "nelle migliori cliniche civili", poiché, in linea di principio, le risorse delle strutture sanitarie presenti all'interno del sistema penitenziario sono limitate rispetto a quelle esterne.
La sent. 15 dicembre 2015, Gurban c. Turchia, si è occupata della compatibilità della sanzione dell'ergastolo con la disciplina convenzionale. Al ricorrente, a seguito della riforma legislativa che aveva abolito la pena di morte, era stato applicato l'ergastolo con il regime aggravato senza prospettive di liberazione condizionale. La Corte europea ha ravvisato la violazione dell'art. 3 Cedu, che impone alle autorità nazionali di prevedere un meccanismo di revisione della condanna, che permetta all'autorità giudiziaria di valutare se il detenuto, nel corso della reclusione, abbia fatto progressi verso la riabilitazione a tal punto significativi da non giustificare più la sua permanenza in carcere (in proposito è stata richiamata la sent. 9 luglio 2013, Vinter e altri c. Regno Unito) (per una sintesi, v. infra).
Infine, la sent. 1° dicembre 2015, Tadzhibayev c. Russia, riguarda la violazione dell'art. 3 Cedu in caso di estradizione verso un paese ove il soggetto corra il rischio di subire tortura o trattamenti inumani o degradanti. I giudici di Strasburgo hanno ritenuto elevato tale pericolo nel caso in cui il ricorrente fosse stato rimandato in Kirghizistan, dal momento che gli organismi delle Nazioni Unite e diverse ONG avevano segnalato che la situazione nel sud del paese era caratterizzata dalla commissione di maltrattamenti nei confronti di soggetti di etnia uzbeka da parte delle forze dell'ordine, che le violenze erano aumentate a seguito degli scontri interetnici del giugno 2010 e che continuavano ad essere diffuse a causa dell'impunità dei responsabili. Inoltre, la Corte europea, in considerazione del fatto che il Kirghizistan non è uno Stato membro del Consiglio d'Europa e non ha un sistema di protezione simile a quello europeo, ha dubitato che avrebbe rispettato le assicurazioni date dal procuratore generale a tutela del ricorrente e che avrebbe consentito alle autorità russe di operare un reale controllo. Ai sensi dell'art. 39 reg. Cedu, è stata adottata la misura interinale del divieto di espulsione fino alla definitività del giudizio.
c) Art. 5 Cedu
La legittimità e la ragionevole durata della detenzione cautelare sono oggetto della sent. 3 dicembre 2015, Yaroshovets e altri c. Ucraina, che ha accertato la violazione dell'art. 5 comma 1 lett. c e comma 3 Cedu per un caso in cui la limitazione della libertà personale per tre anni, per un ricorrente, e per otto mesi, per un altro, si era fondata su motivi non sufficienti e sull'uso di formule stereotipate. Al contrario, non è riscontrata alcuna difformità da quanto previsto dall'art. 5 comma 1 lett. a e comma 3 Cedu in merito alla legalità della detenzione disposta nei confronti di alcuni dei ricorrenti per un periodo di sette mesi successivo alla condanna della Corte di appello. Infine, ancora nella stessa pronuncia, la Corte di Strasburgo riscontra una violazione dell'art. 5 comma 5 Cedu, non garantendo la legge ucraina l'effettività del diritto alla riparazione con riferimento alla fase cautelare.
d) Art. 6 Cedu
Sul versante dell'equità processuale, la già citata sent. 3 dicembre 2015, Yaroshovets e altri c. Ucraina accerta la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu per l'irragionevole durata del procedimento penale: nonostante la complessità della vicenda e l'elevato numero di imputati, nove anni dall'arresto alla condanna in secondo grado non appaiono giustificabili. Una violazione del principio in esame è riscontrata anche in sent. 15 dicembre 2015, Gurban c. Turchia (per una sintesi, v. infra), con riguardo a un procedimento durato sette anni dall'arresto alla pronuncia della Corte di cassazione.
La C. eur. dir. uomo si pronuncia in merito all'art. 6 comma 1 Cedu pure con la sent. 1° dicembre 2015, Sazanov c. Russia (per una sintesi, v. infra). In questo caso, a venire in rilievo è il principio di imparzialità oggettiva del giudice, che, nel caso di specie, non si assume violato, non trovando le censure del ricorrente alcun fondamento nel verbale di udienza.
Vengono poi in rilievo i profili dell'equo processo specificamente dedicati alla materia penale, tutti analizzati in connessione con la norma generale dell'art. 6 comma 1 Cedu.
Innanzitutto, il diritto di difesa e il principio del contraddittorio (art. 6 comma 3 lett. d Cedu) sono oggetto della sent. 15 dicembre 2015, Schatschashwili c. Germania (per una sintesi, v. infra), dove il mancato confronto coi testi d'accusa non risulta, secondo la Grande camera, controbilanciato da adeguate garanzie procedurali.
Inoltre, la Corte di Strasburgo accerta una violazione del diritto alla difesa tecnica e del principio del nemo tenetur se detegere (art. 6 comma 3 lett c Cedu) nella sent. 17 dicembre 2015, Sobko c. Ucraina, non avendo potuto il ricorrente beneficiare, senza giustificato motivo, di assistenza legale durante l'interrogatorio dinanzi alle forze di polizia, ed essendo state utilizzate ai fini della sua condanna le dichiarazioni autoincriminanti rese in quella sede. Nella medesima pronuncia, nessuna difformità dai paradigmi della Cedu si riscontra invece sul piano del diritto di difesa e del principio di parità delle armi (art. 6 comma 3 lett. c Cedu), poichè il ricorrente e il suo avvocato non avevano ottemperato all'onere di avanzare una richiesta ad hoc per partecipare all'udienza in Cassazione.
e) Art. 8 Cedu
Con la sent. 4 dicembre 2015, Roman Zakharov c. Russia (per una sintesi, v. infra), la Grande camera ha accertato la violazione del diritto al rispetto della vita privata in riferimento a una legge russa legittimante un sistema di intercettazione di telefonia mobile funzionale allo svolgimento di attività di indagine da parte del servizio di sicurezza federale. In particolare, essendo lacunosa e non fornendo adeguate garanzie procedurali, la normativa non soddisfa il requisito della "qualità della legge" e non consente di configurare le misure di intercettazione da essa previste "necessarie in una società democratica".
Di contro, con la sent. 22 dicembre 2015, G.S.B. c. Svizzera (per una sintesi, v. infra), i giudici di Strasburgo ritengono rispettato il parametro convenzionale di cui all'art. 8 Cedu nell'ambito di un procedimento di cooperazione amministrativa tra Svizzera e Stati Uniti avente ad oggetto la trasmissione di dati bancari da uno Stato all'altro per finalità di natura investigativa.
f) Art. 10 Cedu
Quanto alla libertà di espressione sancita dall'art. 10 Cedu, è stata riconosciuta la violazione di tale diritto in due pronunce: sent. 1° dicembre 2015, Cengiz e altri c. Turchia, in ragione del blocco imposto nel paese per più di due anni all'accesso al sito web YouTube (per una sintesi, v. infra), e sent. 15 dicembre 2015, Bono c. Francia, per la sanzione disciplinare inflitta all'avvocato di un soggetto sospettato di terrorismo, perchè aveva sostenuto dinanzi alla corte d'appello che i giudici istruttori erano stati complici dei servizi segreti siriani nel torturare il suo cliente. La Corte di Strasburgo ha accertato che le osservazioni non si erano riferite ai giudici personalmente, ma al modo in cui essi avevano svolto le indagini, e che avevano avuto una base fattuale, avevano contribuito direttamente alla difesa del cliente e non avevano "lasciato l'aula", non essendo, perciò, in grado di danneggiare la reputazione della magistratura nell'opinione del pubblico in generale. Sebbene l'interferenza fosse prevista dalle norme che disciplinavano la professione forense ed il suo scopo fosse stato quello di proteggere la reputazione o i diritti altrui e di mantenere l'autorità del potere giudiziario, tuttavia la sanzione disciplinare non era stata proporzionata.
La Corte europea, invece, non ha ravvisato la violazione della normativa convenzionale, in ragione del bilanciamento effettuato tra la libertà di espressione di cui al comma 1 e le limitazioni ad essa consentite dal comma 2 dell'art. 10 Cedu, nella sent. 3 dicembre 2015, Prompt c. Francia. Il caso riguarda la condanna comminata, in un procedimento civile per diffamazione, ad un avvocato che aveva pubblicato un libro inerente all'omicidio di un bambino (le cui circostanze di commissione non erano ancora state stabilite), poiché due brani dello scritto avevano pubblicamente diffamato il padre. I giudici di Strasburgo hanno ritenuto che la condanna avesse perseguito lo scopo legittimo di proteggere la reputazione o i diritti altrui e che, quindi, fosse stata necessaria in una società democratica. Anche il ricorrente aveva perseguito lo scopo legittimo di presentare al pubblico il punto di vista dell'avvocato della famiglia del sospettato, però aveva peccato di mancanza di prudenza, avendo sostenuto ipotesi non corroborate da elementi oggettivi. La Corte europea, inoltre, ha osservato che nessuna sanzione penale era stata inflitta al ricorrente, al quale era solo stato imposto di risarcire i danni e di pubblicare il contenuto della sentenza in caso di ristampe o di nuove edizioni del libro, che non era stato nemmeno ritirato dal commercio.
g) Art. 11 Cedu
Lo stesso bilanciamento tra diritti garantiti e limitazioni legittimate ha indotto la Corte europea a non riscontrare la violazione dell'art. 11 Cedu nella sent. 15 dicembre 2015, Budaházy c. Ungheria. Il ricorrente aveva bloccato uno dei principali ponti sul Danubio in segno di protesta contro le elezioni legislative svolte nel 2002. Tale manifestazione aveva causato notevoli inconvenienti per gli utenti della strada in tutta la città di Budapest, dando luogo ad una condanna nei suoi confronti per disturbo delle attività pubbliche. I giudici di Strasburgo, come già avevano fatto in precedenti pronunce (sent. 15 ottobre 2015, KudreviÄius e altri c. Lituania), hanno considerato che l'interferenza con il diritto di assemblea aveva perseguito lo scopo legittimo di tutela dei diritti e delle libertà altrui, essendo stata finalizzata a prevenire disordini ed a garantire la regolare circolazione del traffico, dal momento che era stata causata un'ostruzione maggiore di quella che sarebbe dovuta derivare dall'esercizio pacifico del diritto. La condanna di carattere penale era stata inflitta non per la partecipazione alla dimostrazione, ma per l'ostruzione del traffico, e la sanzione era stata piuttosto mite: perciò non poteva essere ritenuta sproporzionata rispetto agli scopi perseguiti ed era necessaria in una società democratica.
h) Art. 13 Cedu
Diverse pronunce già citate hanno accertato la violazione dell'art. 13 Cedu in combinato disposto con l'art. 3 Cedu: sent. 8 dicembre 2015, Sagayeva e altri c. Russia, e Dudayeva c. Russia, dato che le indagini penali erano state inefficaci e l'assenza di risultati aveva reso inaccessibile in pratica qualsiasi altro rimedio domestico, anche di carattere civile; sent. 10 dicembre 2015, Ligeti e altri c. Ungheria, Bota e altri c. Ungheria, Polgár e altri c. Ungheria, Balogh e altri c. Ungheria, sent. 15 dicembre 2015, S.A. c. Turchia, dal momento che non vi erano rimedi efficaci attraverso i quali presentare denunce riguardanti le condizioni di detenzione ed ottenere un miglioramento delle stesse e/o un indennizzo; sent. 15 dicembre 2015, Khalvash c. Russia, e Ivko c. Russia, giacché i rimedi interni proposti dal governo per lamentare l'inadeguatezza dell'assistenza medica in carcere sarebbero stati inefficaci (le carenze procedurali evidenziate non avrebbero reso effettivo un esposto alla procura; una causa civile non avrebbe potuto offrire alcun risarcimento adeguato e non avrebbe potuto prevenire o porre fine ad una violazione in corso, inoltre non avrebbe avuto ragionevoli prospettive di successo, poiché il pagamento di una compensazione sarebbe stato subordinato all'individuazione di colpa da parte delle autorità; le autorità del carcere non avrebbero avuto un punto di vista sufficientemente indipendente nel valutare la denuncia).
Nella già segnalata sent. 15 dicembre 2015, Gurban c. Turchia (per una sintesi, v. infra) la Corte europea riscontra una violazione dell'art. 13 Cedu in combinato disposto con l'art. 6 comma 1 Cedu, non essendo previsto nell'ordinamento turco un rimedio effettivo per contestare l'irragionevole durata del procedimento.
i) Art. 14 Cedu
Per quanto concerne il divieto di discriminazione, di interesse è la già evidenziata sent. 22 dicembre 2015, G.S.B. c. Svizzera (per una sintesi, v. infra), in occasione della quale la Corte europea, in combinato disposto con l'art. 8 Cedu, non attesta alcuna violazione dell'art. 14 Cedu; in particolare, anche in assenza di prove a sostegno di quanto affermato dal ricorrente, la scelta statale di imporre a un particolare istituto di credito la trasmissione di dati bancari alle autorità fiscali statunitensi non costituisce, nel caso di specie, un trattamento di natura discriminatoria rispetto a quello riservato ai clienti di banche non coinvolte nel procedimento di cooperazione amministrativa tra i due Stati.
***
2. Sintesi delle pronunce più rilevanti
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 1° dicembre 2015, Cengiz e altri c. Turchia
Il 5 maggio 2008, sulla base dell'art. 8, commi 1 b), 2, 3 e 9, della legge n. 5651 che disciplinava le pubblicazioni su Internet ed era rivolta al contrasto dei reati commessi a mezzo Internet, la Corte distrettuale penale di Ankara aveva emesso una decisione che disponeva il blocco degli accessi al sito web YouTube, avendo ritenuto, in particolare, che il contenuto di dieci pagine del sito violasse la legge n. 5816 che vietava di insultare la memoria di Atatürk. In data 21 e 31 maggio 2010 i ricorrenti, in qualità di utenti di tale sito, avevano proposto opposizione chiedendo la revoca del provvedimento. Essi avevano sostenuto che vi era un interesse pubblico all'accesso a YouTube, che il blocco in questione costituiva una grave violazione del loro diritto alla libertà di ricevere informazioni e idee e che sei delle dieci pagine offensive erano già state rimosse, mentre le restanti quattro non erano accessibili dalla Turchia: pertanto, la misura adottata aveva perso ogni scopo e costituiva una restrizione sproporzionata. La loro opposizione era stata respinta; una nuova decisione del 17 giugno 2010 aveva stabilito il proseguimento del blocco; ed un'ulteriore opposizione dei ricorrenti era stata rigettata in data 1 luglio 2010. Essi avevano, quindi, proposto ricorso davanti alla Corte europea, sostenendo che, essendo professori universitari di diritto che usavano attivamente YouTube per scopi professionali, tale blocco aveva avuto un impatto negativo sulle loro attività accademiche.
I giudici di Strasburgo hanno riscontrato la violazione dell'art. 10 Cedu, poiché YouTube è una fonte importante di comunicazione ed il suo blocco aveva colpito il diritto di ricevere e diffondere informazioni di interesse specifico, in particolare relative a questioni politiche e sociali, alle quali non sarebbe stato possibile accedere con altri mezzi (i media tradizionali). La Corte europea ha rilevato, inoltre, che non vi era alcuna disposizione legislativa interna che consentisse ai tribunali nazionali di imporre un ordine generale di blocco dell'accesso a Youtube, poiché l'art. 8 della legge n. 5651 non autorizzava di impedire l'accesso a un intero sito Internet, ma consentiva esclusivamente di bloccare una specifica pubblicazione dai contenuti offensivi (§§ 61-63). Pertanto, l'interferenza nel diritto dei ricorrenti non aveva soddisfatto la condizione di liceità richiesta dalla Convenzione europea ed essi non avevano goduto di un grado di protezione sufficiente in una società democratica (§ 65). (Elena Mariani)
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 1° dicembre 2015, Sazanov c. Russia
Condannato per due volte, rispettivamente nel 1990 e nel 2004, il ricorrente invoca dinanzi alla Corte di Strasburgo l'art. 6 comma 1 Cedu, asserendo che il giudice del secondo procedimento aveva letto nel corso dell'esame testimoniale un estratto della sentenza di condanna anteriormente emanata nei suoi confronti, con l'effetto di creare un'atmosfera di colpevolezza. Il governo russo non nega l'avvenuta lettura, ma non è concorde sul momento in cui questa sia avvenuta: sottolinea infatti che il provvedimento di condanna era stato letto su richiesta del pubblico ministero in un momento successivo a quello prospettato dal ricorrente, ossia quello volto a valutare la durata della sanzione da irrogare, posto che il soggetto nel 1990 era stato condannato per un reato analogo a quello oggetto del secondo procedimento e la pena non era ancora stata del tutto espiata. Ripercorrendo i principi elaborati in materia di imparzialità dell'organo giudicante, in particolare quello secondo cui anche la semplice apparenza può configurare una violazione del canone predetto, la C. eur. dir. uomo non riscontra alcuna violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, poiché dal verbale di udienza non risulta che il provvedimento in questione sia stato letto nel corso dell'esame testimoniale; anzi, nel documento si dà atto non solo della richiesta proveniente dal pubblico ministero, ma anche dell' assenza di ogni opposizione a questa da parte del ricorrente.
Quest'ultimo invoca altresì gli art. 3, 6, 13 Cedu nonché l'art. 4 Prot. n. 7 Cedu, sostenendo la presenza di irregolarità procedimentali, tra le quali l'imprecisione del verbale di udienza celante le pressioni psicologiche esercitate sui testimoni. Tuttavia, la Corte di Strasburgo, alla luce del materiale in suo possesso, ritiene di dichiarare irricevibile in proposito il ricorso ai sensi dell'art. 35 commi 3 e 4 Cedu. (Stefania Basilico)
C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 4 dicembre 2015, Roman Zakharov c. Russia
Il ricorrente, presidente di una o.n.g. a favore della libertà e dei diritti dei giornalisti, invoca l'art. 8 Cedu asserendo che l'installazione di un sistema di intercettazione di telefonia mobile, funzionale ad attività di indagine da parte del servizio di sicurezza federale ai sensi della normativa interna, fosse lesiva del diritto alla privatezza. Interrogandosi sullo status di vittima del ricorrente, la C. eur. dir. uomo richiama l'orientamento giurisprudenziale secondo cui, nel caso in cui il sistema nazionale non preveda rimedi efficaci per contestare le singole misure di sorveglianza, la mera esistenza di norme generali legittimanti un sistema di intercettazione possa essere contestata in astratto: dunque, senza la necessità, per il ricorrente, di dar prova della ragionevole probabilità che le sue comunicazioni siano state oggetto di intercettazione. Nel caso specifico, la Corte di Strasburgo riconosce l'assenza di un rimedio giurisdizionale effettivo (assorbendo la questione relativa all'art. 13 Cedu invocato altresì dal ricorrente), poiché la legge nazionale russa in esame, non solo prevede, in materia di intercettazioni, la necessità di notifica nell'unico caso in cui il materiale raccolto sia da utilizzare come prova in un procedimento penale, ma risulta anche inadeguata nel disciplinare l'accesso ai documenti. Riconosciuta poi la sussistenza di un effettiva interferenza riconducibile all'art. 8 Cedu, la C. eur. dir. uomo reputa non soddisfatti i requisiti posti dal secondo comma della norma predetta. In particolare, la normativa nazionale censurata non rispetta il canone della "qualità della legge" in ragione della carenza di disposizioni sulle modalità autorizzative e sulla durata delle intercettazioni. In aggiunta, essa non è trasparente in ordine alle modalità di conservazione o distruzione del materiale intercettato dopo la conclusione del procedimento. Conseguentemente, nemmeno viene garantita l'esigenza che le misure segrete di sorveglianza siano adottate nei limiti necessari per una società democratica. (Stefania Basilico)
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 15 dicembre 2015, Gurban c. Turchia
Il ricorrente invoca l'art. 3 Cedu, ritenendo che la preclusione di accedere alla liberazione condizionale prevista dalla legge turca per i condannati all'ergastolo per reati di terrorismo equivalga a un trattamento inumano e degradante. La Corte di Strasburgo riconosce una violazione dell'art. 3 Cedu; infatti, la Corte europea rileva che non è consentito al ricorrente ottenere immediatamente la liberazione condizionale, limitandosi ad imporre alle autorità nazionali di non prevedere preclusioni assolute e di valutare se nel caso concreto, soprattutto in presenza di progressi del condannato verso la risocializzazione, sia opportuna in sede esecutiva una modifica del trattamento sanzionatorio adottato. Il ricorrente invoca altresì l'art. 6 comma 1 Cedu poiché il procedimento, dall'arresto alla pronuncia della Cassazione, era durato circa sette anni. Pur ravvisando un caso piuttosto complesso, la Corte di Strasburgo ritiene biasimevoli i ritardi accumulati per cause imputabili alle autorità statali competenti. In particolare, la C. eur. dir. uomo rileva che il procedimento si era protratto di un biennio per un mero errore formale in quanto la Corte di sicurezza di Istanbul non aveva annotato le informazioni relative all'identità dei ricorrenti nel dispositivo della sentenza, e ciò aveva comportato l'annullamento in Cassazione. Da ultimo, constatata l'assenza di un rimedio effettivo per contestare la irragionevole durata procedimentale, la Corte di Strasburgo considera violato l'art. 13 Cedu in combinato disposto con l'art. 6 comma 1 Cedu. (Stefania Basilico)
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 15 dicembre 2015, Lopes de Sousa Fernandes c. Portogallo
Il marito della ricorrente, in data 26 novembre 1997, era stato sottoposto ad un intervento di estrazione di un polipo nasale. Il giorno seguente era stato dimesso, ma, a seguito di un forte mal di testa, era tornato al pronto soccorso ed i medici di turno gli avevano diagnosticato un disturbo psicologico e gli avevano prescritto dei tranquillanti, rimandandolo a casa. Il giorno dopo, poiché una diversa équipe medica aveva rilevato una meningite batterica, era stato ricoverato fino al 13 dicembre 1997. Dato che il dolore persisteva, era tornato altre volte al pronto soccorso, in data 17 febbraio 1998 era stato ricoverato in un diverso ospedale ed era morto il successivo 8 marzo a causa delle conseguenze di una setticemia causata da peritonite e da perforazione viscerale. In risposta alla richiesta della ricorrente di capire il motivo dell'improvviso declino delle condizioni di salute del marito, l'Ispettore generale per la salute aveva ordinato un'inchiesta e concluso che il paziente era stato trattato correttamente. A seguito dell'opposizione della signora alla chiusura del caso, vi era stata una nuova indagine, che aveva accertato che la decisione del medico di inviare il paziente ad un trattamento ambulatoriale non era stata adeguata ed appropriata e che lo stesso non aveva agito con la prudenza necessaria ed aveva dimostrato negligenza nell'assistenza medica fornita. L'Ispettore aveva, quindi, ordinato l'apertura di un procedimento disciplinare nei suoi confronti ma, poiché questo non si era concluso con l'applicazione di una sanzione, la donna aveva presentato denuncia per omicidio colposo. La Corte distrettuale di Oporto, però, in data 15 gennaio 2009, aveva chiuso il procedimento penale per mancanza di prove della responsabilità del medico. Anche la richiesta di danni era stata respinta perchè non vi erano prove che il trattamento ricevuto dal paziente fosse stato inadatto alla sua situazione clinica. La ricorrente aveva, quindi, presentato ricorso alla Corte europea lamentando la violazione del diritto alla vita del congiunto ex art. 2 Cedu.
I giudici di Strasburgo hanno ravvisato la violazione dell'obbligo positivo posto a carico dello Stato di proteggere l'integrità fisica dei pazienti delle proprie strutture sanitarie. Dal punto di vista sostanziale, poiché l'intervento chirurgico effettuato presentava un rischio di comparsa di meningite infettiva, i medici avrebbero dovuto garantire un intervento in conformità al protocollo medico in materia di vigilanza post-operatoria. Senza voler speculare sulle possibilità di sopravvivenza del paziente, la Corte europea ha ritenuto che la diagnosi tardiva e la mancanza di coordinamento tra il dipartimento di otorinolaringoiatria e l'unità d'emergenza all'interno dell'ospedale erano indicative di una carenza del servizio ospedaliero pubblico ed avevano privato il paziente della possibilità di accesso ad adeguate cure di emergenza (§ 114). Inoltre, dal punto di vista procedurale, la Corte europea ha valutato che il sistema legale portoghese, in teoria adeguato, non aveva funzionato in modo efficace. Infatti, in primo luogo, la lunghezza dei procedimenti (più di 6 anni per quello penale, quasi 10 anni per quello civile) non aveva soddisfatto il requisito della tempestività e, in secondo luogo, nessuno dei processi, né alcuna delle valutazioni degli esperti, avevano affrontato esaurientemente la questione del possibile nesso causale tra l'intervento chirurgico e le patologie successivamente sviluppatesi (§ 142). Infine, dopo aver rammentato che gli Stati membri sono tenuti ad adottare le misure necessarie affinché i medici considerino le prevedibili conseguenze di un intervento per l'integrità fisica dei pazienti e li informino chiaramente in anticipo, cosicché essi possano dare il consenso informato, i giudici di Strasburgo hanno rilevato che il governo non aveva provato che ciò fosse avvenuto nel caso di specie (§ 143). (Elena Mariani)
C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 15 dicembre 2015, Schatschaschwili c. Germania Condannato in primo grado per rapina a danno di due prostitute lettoni, persone offese e uniche testimoni del fatto, il ricorrente invoca l'art. 6 comma 1 e comma 3 lett. d Cedu poiché non gli era stato assicurato il diritto al confronto coi testi nel corso della fase investigativa, nonostante l'autorità giudiziaria fosse consapevole del rischio di irripetibilità. La quinta sezione della Corte di Strasburgo, con la sent. 17 aprile 2014, Schatschaschwili c. Germania, non aveva riscontrato alcuna violazione delle disposizioni predette, ritenendo che il mancato confronto coi testi fosse stato controbilanciato da adeguate misure: in particolare, la carenza di contraddittorio era giustificata dall'esigenza di proteggere i testimoni, dal fatto che il loro rifiuto a comparire in dibattimento non fosse prevedibile durante le indagini e dalla circostanza che la loro identità fosse nota alla difesa sin dalla fase investigativa, così che sarebbe stato possibile svolgere indagini difensive circa la loro attendibilità. In modo diametralmente opposto si pronuncia la grande camera, considerando leso il diritto di difesa e violato il principio del contraddittorio. Ritenuta ragionevole l'assenza dei testimoni durante il procedimento, posto che la Corte regionale tedesca aveva compiuto numerosi sforzi per assicurare la presenza delle donne tra i quali un fallito tentativo di collegamento a video, la Corte europea si sofferma sulle garanzie procedurali adottate nel caso concreto. Essa reputa corretto l'approccio del giudice di merito in ordine alla valutazione della credibilità dei testi sulla base delle loro dichiarazioni, anche alla luce di indizi a sostegno di queste, ma, ritenendo che il mancato confronto con i testimoni non sia stato controbilanciato da adeguate misure idonee a evitare la lesione irreparabile del diritto di difesa, ravvisa la mancanza di equità processuale: in particolare, la valutazione giudiziale della credibilità dei testimoni sulla base delle dichiarazioni rese al giudice nel corso delle indagini preliminari, pur correttamente fatta, non controbilancia la compressione del diritto di difesa poiché le dichiarazioni rese dalle persone offese e testimoni avevano assunto un'incidenza e una rilevanza notevole ai fini della condanna del ricorrente. (Stefania Basilico)
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 22 dicembre 2015, G.S.B. c. Svizzera
Un accordo amministrativo tra Svizzera e Stati Uniti, approvato dal Parlamento elvetico, impone a uno specifico istituto di credito svizzero la trasmissione di dati bancari per attività investigativa da parte delle autorità fiscali statunitensi. Il ricorrente, cliente della banca e cittadino con doppia nazionalità, saudita e statunitense, invoca l'art. 8 Cedu, asserendo che l'accordo leda il suo diritto di privatezza. Le parti non obiettano sull'esistenza di un' effettiva ingerenza e la C. eur. dir. uomo non nutre dubbi sulla riconducibilità del fatto alla disciplina di cui al parametro convenzionale. Interrogandosi sul rispetto dei requisiti fissati dall'art. 8 comma 2 Cedu, la Corte di Strasburgo non riscontra alcuna violazione. In particolare, sottolinea come l'ingerenza in esame sia prevista dalla legge in modo chiaro e prevedibile e, poiché il principio di irretroattività in materia processuale non è assoluta ai sensi né dell'art. 28 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati né della propria giurisprudenza, reputa legittima l'applicazione retroattiva della normativa; in secondo luogo, considera perseguito uno scopo legittimo, essendo il settore bancario un settore strategico nell'economia elvetica. Significativa, dunque, l'esigenza di evitare frizioni con le autorità fiscali americane. Tra l'altro, si sottolinea come i dati trasmessi fossero solo di carattere finanziario, e non personale. Da ultimo, la Corte europea reputa l'inferenza necessaria in una società democratica, posto che il diritto alla privatezza può cedere dinanzi alla necessità di indagare su illeciti penali.
Il ricorrente invoca altresì l'art. 14 Cedu poiché nel procedimento di cooperazione amministrativa non erano stati coinvolti clienti americani di altre banche svizzere. Tuttavia la C. eur. dir. uomo, per combinato disposto con l'art. 8 Cedu, non ravvisa alcuna violazione sotto il profilo della discriminazione, considerando anche che il ricorrente non aveva fornito alcuna prova circa il diverso trattamento da lui considerato discriminatorio. (Stefania Basilico)
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 22 dicembre 2015, Lykova c. Russia
La ricorrente è la madre di un ragazzo che era morto nella notte tra il 9 ed il 10 settembre 2009, dopo essersi gettato dalla finestra della stazione di polizia nella quale era trattenuto dalla mattina, unitamente ad un amico, per essere sentito in relazione ad alcuni furti. La donna, venuta a sapere delle lesioni presenti sul corpo del figlio, aveva denunciato il fatto che il ragazzo fosse stato maltrattato affinché confessasse ma, in data 21 settembre 2009, il Dipartimento distrettuale aveva rifiutato di far aprire un'indagine penale, ritenendo che l'arresto non fosse stato illegale, che il giovane non avesse subito maltrattamenti e che la morte si fosse verificata per un suicidio dovuto a motivi personali. Tale decisione era stata confermata varie volte fino all'11 agosto 2011. Nel frattempo, il 27 ottobre 2009, un'indagine interna aveva concluso che un agente di polizia non aveva tenuto una condotta sufficientemente professionale nel vigilare sul comportamento del ragazzo. La madre del giovane aveva quindi proposto ricorso alla Corte europea, la quale ha riconosciuto la violazione sostanziale e procedurale degli artt. 2 e 3 Cedu e la violazione dell'art. 5 Cedu.
Quanto all'art. 2 Cedu, i giudici di Strasburgo hanno precisato che, in caso di persone detenute o poste in custodia, che si trovino in un rapporto di dipendenza, vi è l'obbligo positivo degli agenti dello Stato di proteggere l'individuo, anche da se stesso. Inoltre, anche se le prove erano insufficienti per consentire di dichiarare che le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere che il soggetto era a rischio di suicidio, la polizia avrebbe dovuto prendere alcune precauzioni di base in grado di ridurre al minimo qualsiasi rischio potenziale (§ 129). In riferimento all'art. 3 Cedu, la Corte europea ha evidenziato, innanzitutto, che - a fronte di un referto medico che aveva indicato la presenza sul corpo della vittima di lesioni non causate dalla defenestrazione, ma attribuibili ad una lotta o ad autodifesa, e delle dichiarazioni dell'amico che il giovane aveva subito maltrattamenti da parte degli agenti di polizia - il governo non aveva fornito una spiegazione alternativa plausibile (§§ 121-122). Inoltre, poiché tali maltrattamenti erano stati inflitti intenzionalmente e avevano arrecato alla vittima umiliazione e sofferenza fisica particolarmente gravi e crudeli, dovevano essere considerati tortura, anche perché la detenzione non era stata registrata, così esacerbando la vulnerabilità del ragazzo, e si era protratta per diverse ore senza che fossero fornite le garanzie procedurali, con l'intento di estorcere una confessione (§§ 125-126). Dal punto di vista procedurale, i giudici europei hanno puntualizzato che vi era stata indifferenza o, addirittura, connivenza da parte del tribunale e della procura, poiché l'indagine penale era stata aperta solo a seguito della presentazione del ricorso a Strasburgo, ovvero quattro anni dopo il fatto, ed era stata carente sotto vari aspetti (non era stata eseguita una contro-perizia medico-legale, non era stato sentito l'amico testimone e non erano state chiarite le circostanze, ma era stata posta attenzione solo alla volontà suicida della vittima) (§§ 100-103). Infine, è stata accertata la violazione dell'art. 5 Cedu atteso che la privazione della libertà era stata imposta alla vittima senza alcun valido motivo e, quindi, in modo arbitrario: a suo carico non vi era nessun sospetto di commissione di reato ed il governo non era riuscito a spiegare quale fosse stato l'obbligo che il ragazzo aveva precedentemente trascurato di adempiere, che avrebbe autorizzato, ai sensi del comma 1 b) dell'art. 5 Cedu, la sua detenzione (§§ 79-82). (Elena Mariani)