ISSN 2039-1676


24 novembre 2015 |

Irragionevole durata del processo, dopo la pronuncia n. 184/2015 della Consulta: il termine decorre anche dalla conoscenza formale del procedimento durante le indagini preliminari

Corte Costituzionale, sentenza 8 luglio 2015 - 23 luglio 2015, n. 184, Pres. Criscuolo, Rel. Lattanzi

 

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1.  La Corte Costituzionale, con sentenza n. 184 del 2015, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 ("Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del codice di procedura civile"), nella parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato con l'assunzione della qualità d'imputato, ovvero quando l'indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari, anziché quando l'indagato, in seguito ad un atto dell'autorità giudiziaria, ha avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico[1].

 

2. Com'è noto, il principio di ragionevole durata del processo trova la sua prima ed autorevole affermazione nell'ordinamento italiano con la ratifica della Convenzione europea dei diritti dell'uomo[2]: l'art. 6, §1, della CEDU prevede, infatti, che "ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale (...)". Successivamente detto principio è stato oggetto, altresì, di esplicita previsione costituzionale, attraverso la legge costituzionale n. 2 del 1999[3], che ha inserito all'art. 111 Cost., comma 2, la previsione secondo la quale "la legge assicura la ragionevole durata del processo". La disposizione, dunque, prende come referente primario il Legislatore, al quale è affidato il compito di adottare norme interne che assicurino lo svolgimento del processo entro un termine ragionevole.

 

3. Nonostante la previsione costituzionale, il principio de quo rimaneva formula vuota in assenza di uno specifico strumento normativo capace di assicurare ristoro alla parte processuale vittima di un giudizio svoltosi oltre una "durata ragionevole"[4]. L'unico espediente possibile, fino a quel momento, era infatti quello di adire direttamente la Corte Europea dei diritti dell'uomo, mediante la presentazione di ricorsi finalizzati a ottenere equa riparazione in caso di violazione dell'art. 6, § 1, della CEDU. Il progressivo aumento dei ricorsi presentati, e contestualmente la "valanga" di violazioni constatate all'Italia[5], dimostrava l'inefficienza del sistema processuale italiano nei confronti dell'eccessiva durata dei procedimenti. Il Consiglio d'Europa, al riguardo, accertò che le identiche infrazioni, rilevate a seguito dei numerosi ricorsi presentati alla Corte, erano tali da non poter essere considerate semplicemente degli episodi isolati bensì riflettevano una situazione perdurante rispetto alla quale i ricorrenti non avevano alcun rimedio interno a disposizione[6]. A ciò si aggiungeva, dunque, la necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi, in modo da realizzare la sussidiarietà dell'intervento della Corte di Strasburgo, sancita espressamente dall'art. 35 della CEDU[7].

 

4. A fronte di tale situazione, e onde arginare il numero di condanne provenienti dai giudici di Strasburgo, il Legislatore italiano introdusse la legge n. 89 del 2001[8], anche nota come "Legge Pinto", dal nome del suo estensore Michele Pinto. La suddetta normativa ha disciplinato un procedimento ad hoc finalizzato ad ottenere, per chi si ritiene aver subito un danno patrimoniale e/o morale, derivante dal mancato rispetto del termine di ragionevole durata del giudizio, un equo indennizzo mediante ricorso alla competente Autorità Giudiziaria. Il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in Legge 7 agosto 2012, n. 134, con l'art. 55, ha provveduto successivamente a modificare la succitata Legge Pinto, sia sotto il profilo procedurale che sostanziale. La novella del 2012 ha, in particolare, snellito le modalità di proposizione del ricorso, prevedendo che la domanda di equo indennizzo debba essere decisa, con decreto emesso inaudita altera parte, da un giudice monocratico di Corte d'Appello, impugnabile con opposizione dinanzi al medesimo Ufficio Giudiziario che ha emesso il decreto, entro il termine perentorio di trenta giorni decorrenti dalla comunicazione. A seguito delle modifiche così introdotte, il nuovo art. 2, comma 2-bis della suindicata l. 89/2001, fissa il termine massimo di durata ragionevole in tre anni per il primo grado, due anni per il secondo grado, e un anno per il giudizio di legittimità. Il comma 2-ter specifica, poi, che si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio complessivo viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni. Ai fini del computo della durata ragionevole, il processo civile si considera iniziato con il deposito del ricorso introduttivo ovvero con la notificazione dell'atto di citazione. Per quanto concerne il processo penale, esso si considera iniziato con l'assunzione della qualità di imputato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero quando l'indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari. Su tale ultima previsione si innesta, orbene, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2-bis della legge n. 89/2001, per violazione dell'art. 117 Cost., e, di conseguenza, della norma interposta di cui all'art. 6, §1, della CEDU.

 

5. Le censure prospettate all'art. 2, comma 2-bis della legge n. 89/2001, muovono dal presupposto che, escludendo dal computo del tempo di ragionevole durata, il tempo che ha preceduto il momento in cui l'imputato ha avuto conoscenza della chiusura delle indagini preliminari, la disposizione testé richiamata si porrebbe in contrasto con l'art. 6 della CEDU, atteso che, ad avviso dei ricorrenti, detta disposizione imporrebbe di calcolare altresì la fase delle indagini preliminari, ai fini dell'osservanza dei termini di ragionevole durata del processo penale.

 

6. L'esame della Corte Costituzionale ha inizio, dunque, con il richiamo dell'orientamento fino a quel momento elaborato da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale, mediante reiterate pronunce, ha ricavato dall'art. 6 della CEDU la regola in base alla quale, ai fini dell'indennizzo conseguente alla violazione del termine di ragionevole durata del processo penale, si debba tener conto altresì del periodo che segue la comunicazione ufficiale, da parte dell'autorità competente, dell'accusa di aver commesso un reato[9]. Tale orientamento, prosegue la Consulta, appare in sintonia con le finalità precipue del procedimento di equa riparazione, in quanto la violazione del diritto ad un celere svolgimento del processo, di cui all'art. 6 della CEDU, genera "la pretesa di un indennizzo idoneo a ristorare il patimento cagionato dall'eccessiva pendenza dell'accusa", quando essa abbia acquisito una consistenza tale da ripercuotersi, in maniera significativa, sulla vita dell'indagato[10]. Tale pretesa, invero, non può ritenersi tutelabile solo a partire dalla fase successiva all'esercizio dell'azione penale o all'assunzione della qualità di imputato, bensì essa deve ricondursi sin già dal momento in cui una persona è venuta formalmente a conoscenza dell'esistenza di una indagine a sua carico, specie laddove tale situazione sia accompagnata dal compimento di atti invasivi della sfera di libertà dell'individuo in questione.

 

7. Sancita in questi termini, l'equa riparazione avrà ad oggetto non solo la fase che, alla stregua del diritto nazionale, viene qualificata come "processo" - per tale intendendosi quella in cui l'indagato assume la qualifica di imputato - bensì anche tutte quelle attività procedurali che precedono la predetta fase. Ne consegue, inevitabilmente, che la nozione di "processo", così come interpretata all'interno del contesto della Convenzione, assume, ai fini suddetti, un'accezione autonoma rispetto a quella delineata dal legislatore nazionale. A sostegno di ciò, inoltre, si riscontra il dato letterale che emerge dalla stessa legge n. 89 del 2001[11], laddove, viene richiamato espressamente l'art. 6, co. 1, della CEDU quale parametro di riferimento per il riconoscimento di una equa riparazione, alla luce del significato conferito alla medesima disposizione da parte della Corte di Strasburgo.

 

8. La norma impugnata, quindi, modificando la nozione di "processo", così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in relazione all'art. 6 CEDU, finisce per incidere irrimediabilmente sulla previsione normativa che vieta di accogliere la domanda di riparazione qualora il giudizio non abbia ecceduto la durata complessiva di sei anni. In tal guisa ne discende un effetto negativo non solo sulla misura della riparazione, ma anche sulla sussistenza stessa del relativo diritto, come tale precluso al legislatore[12]. I giudici della Consulta avvertono, così, la necessità di ricondurre la norma impugnata alla legalità convenzionale, dichiarandone l'illegittimità costituzionale per la parte in cui essa si è discostata dall'osservanza della normativa interposta, e di conseguenza anche dell'art. 117, primo comma, della Costituzione. Va precisato, inoltre, che sempre alla stregua di quanto sancito dalla Corte di Strasburgo, l'art. 6 della CEDU non impone, in maniera assoluta, di considerare l'intera fase delle indagini: il riferimento alle indagini preliminari, invero, deve essere compiuto allorquando esse abbiano comportato la comunicazione formale dell'accusa penale, o comunque il compimento di atti, da parte dell'autorità procedente, che si siano ripercossi sulla sfera giuridica della persona[13].

 

9. La Corte, dunque, conclude nel dichiarare l'art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato con l'assunzione della qualità di imputato, ovvero quando l'indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari, anziché quando l'indagato, in seguito ad un atto dell'autorità giudiziaria, ha avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico, facendo salva, in ogni caso, la discrezionalità giudiziaria nel verificare, alla luce dei fattori indicati dalla Corte EDU e dal legislatore, se l'eventuale inosservanza dei termini di legge comporti o meno violazione del diritto alla ragionevole durata del processo.

 

10. De iure condendo, infine, si riportano brevemente alcune delle modifiche più rilevanti nella materia de qua, come attualmente previste all'art. 39 del testo provvisorio del disegno di Legge di Stabilità 2016 (clicca qui per consultare il testo). In particolare, dopo la previsione dell'attuale articolo 1 della legge n. 89/2001, viene inserito l'art. 1-bis, rubricato "Rimedi all'irragionevole durata del processo", in base al quale la parte di un processo, che assume aver subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell'irragionevole durata del processo, ha il diritto/dovere di esperire i rimedi preventivi di cui al successivo art. 1-ter, pena l'inammissibilità della domanda di equa riparazione. I rimedi preventivi suddetti, con riferimento al procedimento civile, si sostanziano, generalmente, nell'introduzione del giudizio nelle forme del procedimento sommario di cognizione di cui agli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile; nella richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario a norma dell'articolo 183-bis del codice di procedura civile, entro l'udienza di trattazione e comunque almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'articolo 2, comma 2-bis della predetta legge. Con riguardo al processo penale, invece, l'imputato e le altre parti provate hanno diritto di depositare, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, un'istanza di accelerazione almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'articolo 2, comma 2-bis.

 

 


[1] Corte Cost. sentenza 8 luglio 2015 (dep. 23 luglio 2015) n. 184, in GU 1a Serie Speciale - Corte Costituzionale n. 30 del 29-7-2015. Le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate dalla Corte di Appello di Firenze (r.o.  n. 180 del 2014) e dalla Corte di Appello di Catanzaro (r.o. n. 248 del 2014). I giudizi, vertendo, in parte, sulla medesima disposizione impugnata, sono stati riuniti, ai fini di una decisione congiunta.

[2] Legge 4 agosto 1955, n. 848 ("Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali), in G.U. 24 settembre 1955, n. 221.

[3] Legge 22 novembre 1999, n. 2 ("Inserimento dei principi del giusto processo nell'art. 111 della Costituzione"), in G.U. 23 dicembre 1999, n. 300.

[4] Per stabilire quando la durata di un procedimento civile o di un processo penale, la Corte europea ha enucleato alcuni parametri idonei all'individuazione del délai raisonnable, chiarendo se non esiste il diritto ad un processo che sia breve, bensì che esiste solo un diritto ad un processo che sia concluso nel tempo giusto, alla luce del comportamento delle parti, alla complessità della controversia, al comportamento del giudice e delle altre autorità, nonché la posta in gioco oggetto della controversia. Sul tema, v., ex multis, C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I., Le tutele, Padova, 2003, p.61; M. De Stefano, La lunga marcia della cassazione italiana verso la corte dei diritti umani di Strasburgo (legge Pinto, ma non solo), in Fisco, 2006, p. 1121; A. Didone, La Cassazione, la legge Pinto e la Corte europea dei diritti dell'uomo: sepolti i contrasti, in Giur.It., 2004, p. 944.

[5] Cfr., sul punto, G. Gaja, Valanghe di condanne per la durata dei processi: quali rimedi? In Riv. dir. int., 1991, p. 328. 

[6] Decisione del Consiglio d'Europa del 3 maggio 2000.

[7] Corte EDU, Bottazzi c. Italia, Di Mauro c. Italia, Ferrari c. Italia ed A.P. c. Italia, sentenze 28 luglio 1999.

[8] Legge 24 marzo 2001, n. 89, in G.U. 3 aprile 2001, n. 78.

[9] Corte EDU, Ringeisen c. Austria, sentenza 16 luglio 1971; Corte EDU, Eckle c. Germania, sentenza 15 luglio 1982; Corte EDU, Corigliano c. Italia, sentenza 10 dicembre 1982; Corte EDU, Manzoni c. Italia, sentenza 19 febbraio 1991, Corte EDU, Messina c. Italia, sentenza 26 febbraio 1993, Corte EDU, Kobtsev c. Ucraina, sentenza 4 aprile 2006.

[10] Corte EDU, Wemhoff c. RTF, sentenza 27 giugno 1968, laddove viene affermato che il principio di ragionevole durata del processo costituisce, nel procedimento penale, un rimedio contro il rischio, per una persona, di "restare a lungo sotto il peso di un'accusa", con tutto ciò che essa materialmente e moralmente comporta sulla medesima.

[11] Art. 2, co.1 L. n. 89/2001: 1. Chi ha subìto un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione, ha diritto ad una equa riparazione.

[12] Corte Cost., sentenza 24 febbraio 2014, n. 30.

[13] Corte EDU, Corigliano c. Italia, sentenza 10 dicembre 1982. In senso conforme, v., ex plurimis, la citata sentenza Cass., Sez. Un. Civ., 23 settembre 2014, n. 19977.