ISSN 2039-1676


05 luglio 2016 |

Telecamera nascosta nello spogliatoio di una piscina: una discutibile sentenza della S.C. in tema di violenza privata

Nota a Cass. Pen., Sez. V, 14.5.2015 (dep. 2.7.2015), n. 28174, Pres. Nappi, Est. Miccoli, ric. Capanna Piscè

1. I fatti oggetto della sentenza che può leggersi in allegato vedono come protagonista un istruttore di nuoto presso una piscina comunale, chiamato a rispondere del reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis c.p.) per avere celato una telecamera in un cestino dei rifiuti collocato davanti alle docce ed essersi così "indebitamente procurato immagini (raccolte in circa 1005 filmati) di soggetti adulti di sesso femminile e bambini di entrambi i sessi, mentre erano intenti a spogliarsi, rivestirsi o a fare la doccia nello spogliatoio posto a servizio della suddetta piscina"; immagini successivamente diffuse a scopo commerciale.

Nel giudizio di primo grado l'imputato veniva condannato per il predetto reato e, in particolare, a quanto parrebbe, per la condotta di 'indiscrezione' (art. 615 bis, co. 1 c.p.), legata alla captazione delle immagini, e non già per quella di 'rivelazione' (art. 615 bis, co. 2 c.p.) a seguito della diffusione delle immagini stesse. All'esito del giudizio di secondo grado la Corte d'Appello, riformando parzialmente la sentenza di condanna, dichiarava non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato stesso, limitatamente alle condotte commesse sino a una certa data, mentre per il resto confermava la condanna dell'imputato.

La difesa dell'imputato proponeva quindi ricorso per Cassazione lamentando, tra l'altro, la violazione di legge in relazione agli artt. 614 e 615 bis c.p.: i giudici di merito avrebbero infatti errato nel ritenere di "privata dimora" ai sensi dell'art. 614 c.p. i luoghi dove sono state riprese le immagini, con la conseguenza che non sarebbe pertanto configurabile il contestato delitto di interferenze illecite nella vita privata.

Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione chiedeva invece l'annullamento della sentenza impugnata e la riqualificazione del fatto come "violenza privata", ai sensi dell'art. 610 c.p.

 

2. Aderendo alle argomentazioni della difesa, la S.C. esclude che i locali di uno spogliatoio sito in una piscina comunale siano riconducibili al concetto di "luogo di privata dimora" e, conseguentemente, esclude che la condotta del ricorrente integri il delitto di interferenze illecite nella vita privata.

Secondo la S.C., pur ammettendo che il concetto di "privata dimora" debba interpretarsi estensivamente, non può comunque non richiedersi "un particolare rapporto con il luogo in cui si svolge la vita privata, in modo da sottrarre la persona da ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza" (cfr. Cass., Sez. un., 28 marzo 2009, Prisco, 234269). In altre parole, al fine di poter ritenere integrato il reato di cui all'art. 615 bis c.p. dovrebbe potersi concludere positivamente in merito alla natura domiciliare ai sensi dell'art. 614 c.p. del teatro della condotta (nel caso in esame: i locali delle docce della piscina comunale) Come è stato notato in dottrina[1], la giurisprudenza interpreta il concetto di luogo di privata dimora con estensioni diverse in rapporto ai delitti di violazione di domicilio e di interferenze illecite nella vita privata. L'orientamento giurisprudenziale prevalente in tema di violazione di domicilio ritiene che possano farsi rientrare nel concetto di "altro luogo di privata dimora" non solo ambienti, diversi dalle abitazioni, nei quali si svolgono più o meno occasionalmente, attività di tipo domestico, ma anche ambienti privati in cui la persona compie attività di lavoro, commercio, studio, svago, etc. e luoghi aperti al pubblico per i quali sussista in capo a taluno, uno ius excludendi. In tema di interferenze illecite nella vita privata, tuttavia, un orientamento più restrittivo sottolinea come la libertà di domicilio venga in rilievo come diritto alla riservatezza su quanto si compie in certi luoghi e, in accordo con tale concezione, ritiene che la locuzione "altro luogo di privata dimora" non sarebbe idonea a comprendere gli ambienti nei quali taluno possa vantare solo uno ius excludendi ma non anche un diritto alla riservatezza. A tal proposito, per individuare il "luogo di privata dimora" si menzionano due requisiti, il primo di carattere negativo e il secondo di carattere positivo: a) l'"apertura del luogo al pubblico", per cui non può pretendersi riservatezza in luoghi cui possono accedere tutti indistintamente; b) la "stabilità della presenza nel luogo", per cui può pretendersi riservatezza solo in luoghi che si frequentano abitualmente e stabilmente. E' in ossequio a quest'ultimo criterio che la giurisprudenza prevalente, sulla cui scia si pone la sentenza in commento, ha escluso la qualifica di "luogo di privata dimora" in relazione ai bagni dei locali pubblici (Cass., Sez. V, 3.3.2009, Fabro, in CED, 2009/244199), in quanto non è ravvisabile il requisito della "stabilità della presenza", trattandosi di luoghi la cui frequentazione è solo transitoria e occasionale (Cass., Sez. VI, 28.9.2010, Mangiafave, in CED, 2010/248601; Cass., Sez. VI, 23.10.2008, Destro, in CED; Cass., Sez. VI, 16.11.2005, Siciliano, in Leggi d'Italia; Cass., Sez. VI, 10.1.2003, Mostra, in CED, 2003/224743; Cass., Sez. VI, 10.1.2003, Cherif Ahmed, in CED, 2003/223733).

 

3. Escluso il delitto di interferenze illecite nella vita privata, la S.C., aderendo alla prospettazione del P.G., riconduce la condotta dell'imputato alla fattispecie di violenza privata ex art. 610 c.p. Nel caso in esame si verificherebbe un'azione costrittiva dell'agente idonea a coartare la libertà psichica del soggetto passivo; l'ipotesi sarebbe analoga a quella oggetto di una  precedente sentenza della Cassazione, che inquadrato nell'art. 610 c.p. la condotta di colui che introduca una telecamera sotto la porta di una toilette pubblica in modo da captare immagini di un minore che si trovi all'interno di essa. (Cass., Sez. V, 3.3.2009, Fabro, in CED, 2009/244199).

Quanto in particolare al requisito della "violenza", quale modalità di esercizio della condotta di cui all'art. 610 c.p., la Corte motiva in tal senso: "la condotta che si manifesti nella violenza...è, per la costante giurisprudenza, anche quella impropria, esplicabile in forme molteplici dirette ad esercitare pressioni sulla volontà altrui al fine di impedire una libera manifestazione. [...] infatti non è richiesta, per larga parte della giurisprudenza, una condotta esplicitamente connotata da violenza o minaccia, posto che il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione". Nel caso di specie, secondo la S.C., "l'avere introdotto una telecamera sotto la porta del bagno in modo da captare immagini intime della persona che ivi si era chiusa, ha realizzato appieno l'imposizione insidiosa di una costrizione che è stata quella anche relativa al solo brevissimo tempo in cui la parte si è avveduta della ripresa in corso, prima di attuare una manovra reattiva che necessariamente ha comportato tempi tecnici, di subire la videoripresa della propria sfera intima".

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4. A nostro avviso, la qualificazione del fatto come violenza privata non persuade. La condotta tipica idonea a integrare il reato di violenza privata - che è un reato a forma vincolata - deve necessariamente esser posta in essere con violenza o minaccia e deve determinare l'evento di costringere altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa. Nel caso oggetto della sentenza annotata non ci sembra proprio che si possa dire che la condotta sia stata realizzata mediante violenza. E' vero che da tempo la giurisprudenza prevalente, spiritualizzando il concetto di 'violenza'[2], ha più volte affermato, come in questa occasione, che costituisce violenza non solo l'impiego di un'energia fisica sulle persone o sulle cose ma anche qualsiasi mezzo idoneo a coartare la volontà del soggetto passivo[3]; è però una giurisprudenza che, calpestando la fattispecie legale (il principio di legalità) mette tra parentesi le modalità della condotta attraverso le quali il legislatore ha configurato, come nel caso della violenza privata, un reato a forma vincolata, e non libera.  Come è stato sottolineato in dottrina, il principio di tassatività della norma penale impone di identificare nell'aggressione fisica, ossia nell'offesa attuale della vita, dell'integrità fisica o della libertà di movimento del soggetto passivo l'elemento caratterizzante della violenza contro la persona[4]. E' un'idea d'altra parte, presente anche nella giurisprudenza della Cassazione, che di recente, a Sezioni Unite, ha affermato che : "deve convenirsi con quanti ritengono che la nota caratterizzante tale forma di violenza vada ravvisata nella idea dell'aggressione fisica; vale a dire nella lesione o immediata esposizione a pericolo dei beni più direttamente di movimento del soggetto passivo e, ancora - con specifico riferimento al delitto di violenza privata - che la violenza è un connotato essenziale di una condotta che, a sua volta, deve atteggiarsi alla stregua di un mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore: vale a dire la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa; deve dunque trattarsi di qualcosa di diverso dal fatto in cui si esprime la violenza" [Cass., Sez. Un. 18.12.2008, G.N., CP 2009, 1793].

Peraltro, ammessa e non concessa la ravvisabilità di una 'violenza' nella condotta posta in essere dall'imputato, ci sembra dubbia anche la sussistenza dell'evento richiesto dalla norma incriminatrice di cui all'art. 610 c.p. Ai fini della configurabilità del reato di violenza privata è necessario che la violenza sia la condotta strumentale al costringimento della vittima a subire una condotta diversa e ulteriore rispetto alla stessa violenza. Nel caso di specie non sembra proprio ravvisabile alcuna coazione posta in essere ai danni dei soggetti passivi, i quali non sapevano della collocazione della videocamera nel cestino della spazzatura e dunque non sono stati lesi nella loro libertà di autodeterminarsi. In altre parole il soggetto passivo non avrebbe percepito l'azione costrittiva dell'agente mentre essa veniva attuata; tale percezione si sarebbe verificata solo all'esito della condotta intrusiva. La stessa pronuncia richiamata dalla Corte per fondare l'imputazione ex art. 610 c.p. riportava peraltro che "perché ricorra la lesione della libertà psichica occorre ovviamente che il soggetto passivo percepisca, anche solo in parte, l'azione costrittiva dell'agente, mentre essa viene attuata" e ci pare possa ritenersi una lettura forzata quella data dalla Corte,  chiamata a giudicare il caso in oggetto, la quale afferma che "l'esigenza di immediatezza della percezione della violazione della sua riservatezza da parte della persona offesa è certamente ragionevole  quando si tratti di intrusioni che non abbiano conseguenze permanenti [...] ma quando l'effetto dell'intrusione sia permanente, perché, come nel caso in esame, le immagini privatissime della persona offesa siano videoregistrate e vengano diffuse a scopo addirittura commerciale, occorre riconoscere come la situazione sia tale da comportare il rinnovarsi di una persistente coazione psichica nei confronti di chi non può sottrarsi alla reiterata violazione della sua intimità".

 

 5. Le considerazioni critiche svolte in ordine al delitto di violenza privata ci sembrano che possano indurre, con riferimento al caso in esame e a casi analoghi, a rivalutare l'ipotesi della configurabilità del delitto di interferenze illecite nella vita privata. La vicenda ha infatti indubbiamente a che fare con la sfera della riservatezza personale, oggetto di tutela da parte dell'art. 615 bis c.p. Attraverso un'interpretazione conforme all'art. 14 Cost. e all'art. 8 CEDU, a ben vedere, si potrebbero forse considerare lo spogliatoio di una piscina e il bagno di un locale pubblico come luoghi di privata dimora, in quanto in essi, seppur temporaneamente, può essere ragionevolmente garantita un'area di intimità e di riservatezza alla persona (cfr., in questo senso, in materia di intercettazioni ambientali, Cass., Sez. IV, 16.3.2000, Viskovic, in CED, 2000/217688).

 

6. Un'ultima considerazione riguarda infine le condotte poste in essere dall'imputato nei confronti dei minori intenti a farsi la doccia, in relazione alle quali il pubblico ministero aveva contestato il delitto di pornografia minorile di cui all'art. 600 ter co. 1, n.1 c.p., poi escluso all'esito del giudizio di primo grado in favore del delitto di cui all'art. 615 bis c.p. La ripresa degli organi genitali dei minori, per scopi sessuali (legati, eventualmente, come nel caso di specie, alla commercializzazione delle immagini come materiale pornografico), ci sembra integrare la condotta di produzione di materiale pornografico realizzato utilizzando minori (inconsapevoli, nel caso di specie; circostanza che, secondo la giurispruidenza, non esclude la configurabilità del predetto reato: cfr. Cass., Sez. III, 10.6.2015, n. 42964, in CED, 2015/265157). E' una conclusione che ci sembra oggi (non anche però all'epoca dei fatti oggetto della sentenza annotata) compatibile con la nozione di pornografia minorile (art. 600 ter, co. 7 c.p.), riformata in senso estensivo nel 2012 con l'eliminazione del riferimento al carattere lascivo dell'esibizione degli organi genitali. (In merito all'impossibilità di applicare retroattivamente tale nuova definizione cfr. Cass. Sez. III, 20.11.2013, n. 3110, in CED 2014/259317: "in tema di pornografia minorile, la definizione introdotta nell'art. 600 ter c.p. dall'art. 4, co. 1, lett. h) della legge n. 172 del 1.10.2012 (ratifica ed esecuzione della Convenzione di Lanzarote del 25 ottobre 2007) si caratterizza per il suo maggior rigore rispetto a quella precedente (desunta dalla legge n. 46 dell'11.3.2002 di ratifica del Protocollo opzionale alla Convenzione sui diritti dell'infanzia stipulato a New York il 6.9.2000), in quanto si contenta della rappresentazione "per scopi sessuali" degli organi genitali del minore e non esige più l'esibizione lasciva degli stessi. Pertanto essa non può trovare applicazione nelle fattispecie realizzatesi prima dell'entrata in vigore della legge n. 172/2013").

 

 

 


[1] Cfr. G. L. Gatta, in F. Viganò (a cura di) Reati contro la persona. Delitti contro l'inviolabilità del domicilio, II ed., Torino, Giappichelli, 2015, p. 318 s.

[2] Cfr. G. Marinucci - E. Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte Generale, V ed., Giuffrè, Milano, 2015, p. 83 ss.

[3] Fondamentale, F. Viganò, La tutela penale della libertà individuale - L'offesa mediante violenza, Giuffrè, Milano, 2002. V. anche, da ultimo, G.L. Gatta, La minaccia. Contributo allo studio delle modalità della condotta penalmente rilevante, Roma, Aracne, 2013, p. 18.

[4] F. Viganò, La tutela penale della libertà individuale - L'offesa mediante violenza, Giuffrè, Milano, 2002