ISSN 2039-1676


09 marzo 2017 |

Il d.l. in materia di sicurezza delle città: verso una repressione urbi et orbi?

Prima lettura del D.L. 20 febbraio 2017, n. 14

Contributo pubblicato nel Fascicolo 3/2017

 

Per leggere il d.d.l. di conversione del Decreto Legge n. 14/2017 e la relativa Relazione del Governo, clicca in alto su "visualizza allegato" (le norme del D.L. in commento si trovano a pag. 27 e segg.).

 

1. Il decreto legge 20 febbraio 2017, n. 14, emanato su proposta dal Presidente del Consiglio dei ministri e dal Ministro dell’Interno, di concerto con i Ministri della giustizia e per gli affari regionali, mira a rafforzare la sicurezza urbana, definita come “il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione e recupero delle aree o dei siti più degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità ed esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, in particolare di tipo predatorio, la promozione del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile…” (art. 4, definizione non dissimile da quella contenuta nel d.m. Interno del 5 agosto 2008, c.d. decreto Maroni).

La sicurezza urbana si atteggia come bene giuridico onnivoro, tanto ampio da promettere scarsissima capacità selettiva rispetto a comportamenti predeterminati, e non privo di venature estetiche (il “decoro delle città”) e soggettivo-emozionali (la “vivibilità”).

Nel concetto di sicurezza, come sottolineato nella relazione al disegno di legge n. 4310 presentato alla Camera dei Deputati (p. 2), convergono un’idea di sicurezza primaria (prevenzione e repressione dei reati) ed un’idea di sicurezza secondaria, volta alla “prevenzione situazionale” di situazioni di degrado e di promozione di fattori di coesione sociale

In sintesi, il d.l. mira al “benessere delle comunità territoriali” (art. 1, co. 2), in un’accezione, parrebbe, esplicitamente soggettiva, come si evince dall’incipit della Relazione “La nuova società, ormai tendenzialmente multietnica, richiede infatti – unitamente ai necessari interventi di sostegno rivolti ai « nuovi consociati » – una serie di misure di rassicurazione della comunità civile globalmente intesa, finalizzate a rafforzare la percezione che le pubbliche istituzioni concorrono unitariamente alla gestione delle conseguenti problematiche, nel superiore interesse della coesione sociale” (corsivi miei).

L’obbiettivo della sicurezza urbana è perseguito attraverso un modello di sicurezza integrata di tipo verticale: Stato, Regioni, Province autonome ed enti locali, nonché altri soggetti istituzionali, sono chiamati, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze e responsabilità, alla promozione e all’attuazione di un sistema unitario e, appunto, integrato (art. 1).

Di qui la previsione di molteplici strumenti di coordinamento: accordi per la promozione della sicurezza integrata, sia a livello nazionale, attraverso linee generali delle politiche pubbliche, da concordarsi in sede di Conferenza Unificata (art. 2), sia a livello locale, attraverso specifici accordi (art. 3); patti per la sicurezza urbana sottoscritti da Prefetto e Sindaco (art. 5); comitato metropolitano, copresieduto dal prefetto e dal sindaco metropolitano, cui partecipano i sindaci dei comuni interessati (art. 6).

Sistema integrato di tipo verticale, si diceva, e non orizzontale: non v’è traccia di previsioni volte a promuovere (e finanziare) il coordinamento degli attori della coesione sociale (scuole, famiglie, associazioni ecc.).

Del resto l’intera riforma è prevista a costo zero (cfr. clausola di neutralità finanziaria, art. 17), e persino i membri del comitato metropolitano partecipano gratis et amore securitatis alle relative riunioni (art. 6, co. 2).

Ed anzi, l’art. 7 prevede che per incrementare i servizi di controllo del territorio e la sua valorizzazione gli “enti pubblici, non economici”, e i “soggetti privati” possano concorrere sotto il profilo strumentale, finanziario e logistico, ai sensi dell’art. 6-bis d.l. 14 agosto 2013, n. 93: dunque i soggetti privati possono finanziare, ma non essere finanziati per la promozione della sicurezza urbana.

Al di là dei luoghi del coordinamento (conferenza unificata, patti per la sicurezza, comitato metropolitano, accordi vari), i soggetti istituzionalmente preposti alla promozione della sicurezza urbana sono essenzialmente tre, come nei western: il questore, il sindaco e – in misura minore – il prefetto.

 

2. Cominciamo dal sindaco, i cui poteri di ordinanza sono rimodulati dall’art. 8.

Da un lato, attraverso la modifica dell’art. 50, co. 5 del d.lgs. n. 267/2000, si prevede per il sindaco, quale “rappresentante della comunità locale”, la facoltà di emanare ordinanze extra ordinem, “in relazione all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita….e di somministrazione di bevande alcoliche..” (art. 8), nonché si prevede, attraverso la modifica dell’art. 50, co. 7, il potere di emanare ordinanze “ordinarie” volte ad assicurare la “tranquillità e il riposo dei residenti in determinate aree della città” (art. 8).

Il riferimento a ordinanze non contingibili e urgenti è problematico, avendo la Corte già nel recente passato dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione che attribuiva al sindaco, seppure nella distinta veste di ufficiale di governo, il potere di emanare “anche ordinanze contingibili e urgenti” (Corte cost. n. 115/2011), e cioè ordinanze non contingibili e urgenti.

La Corte, in quella occasione, aveva rilevato la violazione della riserva di legge relativa (art. 23 Cost.), dell’art. 97 e dell’art. 3 Cost., considerato che la norma di legge (l’art. 54 co. 4 d.lgs. n. 167/2000) prevedeva limiti solo finalistici (e non contenutistici) all’uso del potere di ordinanza sindacale “ordinaria”, e che il c.d. decreto Maroni, specificativo della sicurezza urbana, era privo di forza di legge ed era a sua volta espressione di discrezionalità amministrativa.

Nella Relazione, consci di tale potenziale contrasto, si specifica che il nuovo potere è ancorato ai requisiti di cui all’art. 8, co. 1 lettera) n. 2, ciò che lo renderebbe conforme al principio di legalità amministrativa.

In effetti la nuova disposizione prevede un limite temporale ristretto di efficacia dell’ordinanza sindacale “ordinaria” (non superiore a 60 giorni), una finalità circoscritta (tutela della tranquillità e del riposo dei residente di aree determinate…anche in relazione allo svolgimento di specifici eventi) e un contenuto delimitato (“limitazione in materia di orari di vendita ecc. di bevande alcoliche”), fattori che globalmente intesi sembrano garantire l’osservazione del principio di legalità amministrativa.

 

3. D’altro lato si interviene sull’art. 54, co. 4-bis del d.lgs. n. 267/2000, riformulando il potere di ordinanza contingibile e urgente del sindaco, questa volta nelle vesti di ufficiale di governo, per contrastare “le situazioni che favoriscono l’insorgere di fenomeni criminosi o di illegalità, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l’accattonaggio con impiego di minori e disabili, ovvero riguardano fenomeni di abusivismo, quali l’illecita occupazione di spazi pubblici, o di violenza, anche legati all’abuso di alcool o di sostanze stupefacenti” (art. 8).

Il sindaco diviene poi il motore e gestore della complessa disciplina posta a tutela del decoro di particolari luoghi (art. 9, co. 1), ovvero delle “aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aereoportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano e delle relative pertinenze”, rispetto a condotte “che limitano la libera accessibilità e fruizione delle predette infrastrutture, in violazione dei divieti di stazionamento e di occupazione di spazi ivi previsti”, anche se tenute da ubriachi e erotomani esibizionisti (art. 9, co. 2).

Il sindaco è l’autorità competenze ad irrogare la sanzione (da 100 a 300 euro), destinata non molto imparzialmente al proprio Comune (art. 9, co. 4), nonché a emanare l’ordine di allontanamento dalle aree predette; nell’ordine di allontanamento va precisato che la sua efficacia cessa trascorse 48 ore dall’’accertamento del fatto e che la sua violazione è assoggetta a sanzione amministrativa pecuniaria.

Nei casi di reiterazione delle condotte di trasgressione ai divieti di stazionamento e occupazione degli spazi sopra indicati, il questore, “qualora dalla condotta tenuta possa derivare pericolo per la sicurezza” può disporre il divieto di accesso per un periodo non superiore a sei mesi.

Per l’ipotesi più grave (reiterazione della trasgressione al divieto commessa da soggetto condannato con sentenza definitiva o confermata in grado di appello nel corso degli ultimi cinque anni per reati contro la persona o il patrimonio”), sanzionata con divieto di accesso da 6 mesi a 2 anni si prevede che il provvedimento del questore sia soggetto alle disposizioni di cui all’art. 6, commi 2-bis, 3 e 4 della legge 13 dicembre 1989, n. 401 (c.d. Daspo), ovvero tra l’altro alla convalida dell’autorità giudiziaria (con ordinanza del Giudice delle indagini preliminari su richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale, provvedimento ricorribile in Cassazione).

Analoghi poteri “interdittivi” sono attribuiti al questore nel caso di spaccio di sostanze stupefacenti, da parte di persone condannate con sentenza definitiva o confermata in grado di appello per il reato di cui all’art. 73 D.P.R. n. 309/1990, all’interno o in prossimità di locali pubblici, aperti al pubblico o di pubblici esercizi (art. 13, co. 1).

Misure più incisive sulla libertà di movimento sono adottabili dal questore nei confronti delle persone condannate per il reato di cui sopra (obbligo di firma, divieto di allontanamento dal comune, obbligo di rientrare nella propria abitazione entro una certa ora ecc.); la violazione di tali divieti è sanzionata, dal prefetto, salva l’ipotesi che il fatto costituisca reato, con la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 40.000 euro e con la sospensione della patente da sei mesi ad un anno.

 

4. L’art. 15 si occupa della sicurezza pubblica, distinta dalla sua declinazione urbana, apportando modifiche alla disciplina sulle misure di prevenzione personali.

L’art. 1, co. 1 lett. c) del d.lgs. n. 159/2011 viene modificato, con l’inserimento della menzione, tra i destinatari, degli autori di “reiterate violazioni del foglio di via obbligatorio di cui all’articolo 2, nonché dei divieti di frequentazione di determinati luoghi previsti dalla vigente normativa” (sulla recente sentenza della Corte Edu, Grande Camera, 23 febbraio 2017, de Tommaso c. Italia, che ha dichiarato la disciplina incompatibile – in particolare – con la libertà di circolazione, riconosciuta dall’art. 2 Prot. 4 Cedu, si veda la nota di F. Viganò, La Corte di Strasburgo assesta un duro colpo alla disciplina italiana delle misure di prevenzione personali, in questa Rivista, 3 marzo 2017).

In sede di eventuale conversione il Parlamento dovrò fare i conti con la sentenza della Corte Edu sopra richiamata, alla ricerca di una disciplina più consona alle esigenze di garanzia dei diritti ivi richiamate.

La disposizione in esame evidenza la correlazione tra sicurezza pubblica e sicurezza urbana, con la seconda che sembra costituire una specificazione territoriale della prima.

Infine, va sottolineato che il tema della sicurezza urbana è tutt’altro che nuovo, essendo tra l’altro già stato affrontato da varie normative, risalenti al 2008-2009 (d.l. n. 92/2008, conv. in l. 125/2008; l. n. 94/2009, formalmente intitolati alla sicurezza pubblica), ovvero già affrontato dieci anni prima della supposta odierna necessità ed urgenza: sicché l’impiego del decreto legge appare discutibile sul piano costituzionale.

La non contingenza delle condotte che si vogliono contrastare appare in tutta la sua evidenza sol che si pensi allo sfruttamento della prostituzione (mestiere più antico del mondo, si usa dire), o all’abuso di alcool e stupefacenti e all’accattonaggio molesto, fenomeni risalenti nel tempo ed espressione di povertà, disagio o vizio, fattori non nuovissimi nell’esperienza umana.

 

5. Alcune (poche) disposizioni riguardano esplicitamente la materia penale.

L’art. 10, co. 5 prevede che “in sede di condanna per reati contro la persona o il patrimonio commessi nei luoghi o nelle aree di cui all’articolo 9 [aree interne delle infrastrutture di trasporto, aree urbane su cui insistono luoghi di pregio artistico o culturale, parchi ecc.], “la concessione della sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’imposizione del divieto di accedere a luoghi o aree specificamente individuati”.

Nel silenzio della legge può ragionevolmente ritenersi che il divieto debba avere durata non superiore al periodo di durata della sospensione: trattandosi di reati contro la persona o il patrimonio si tratterà quasi esclusivamente di delitti, e pertanto il periodo di inibizione all’accesso non dovrebbe superare i cinque anni.

Si tratta di un obbligo di astensione, eccentrico rispetto agli obblighi di facere previsti in via generale dall’art. 165 c.p., verosimilmente finalizzato a contenere il rischio di recidiva collegato alla frequentazione di luoghi ove la persona ha già commesso reati, e che potrebbero occasionarne di ulteriori.

Analoga misura è prevista dall’art. 13, co. 7 per i condannati ex art. 73 D.P.R. n. 309/1990, qualora il reato di spaccio sia commesso all’interno o nelle immediate vicinanze di locali pubblici, aperti al pubblico o in pubblici esercizi.

Anche in relazione a tali reati il giudice può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena “all’imposizione del divieto di accedere a luoghi o aree specificamente individuati”.

L’art. 16, viceversa, facoltizza il giudice a subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena per il reato di deturpamento e imbrattamento di cose altrui (art. 639, co. 2 e 3 c.p.) a obblighi di facere (obblighi di ripristino e di ripulitura dei luoghi imbrattati, ovvero, quando ciò non sia possibile, obbligo di sostenerne le relative spese o a rimborsare quelle sostenute, ovvero, se il condannato non si oppone, prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate nella sentenza di condanna”).

Si tratta di un obbligo specificativo di quello previsto in generale nell’art. 165, co. 1 c.p., e dunque a rigore superfluo.

La durata del lavoro di pubblica utilità va calcolata facendo riferimento agli artt. 44, 54, commi 2, 3, 4 e 6, e 59 del d.lgs. n. 274/2000, conformemente all’art. 18 delle disp. att. c.p.

 

6. Infine, merita soffermarsi brevemente, rinviando a successivi lavori per l’approfondimento del tema, sui nessi di interferenza tra i vari provvedimenti e diverse fattispecie penali.

In linea generale, l’inosservanza dei molti provvedimenti (ordinanze sindacali, ordini sindacali di allontanamento, provvedimenti del questore contenenti divieti di accesso a luoghi o esercizi pubblici, od altre misure limitative della libertà di movimento) pone la questione della eventuale applicabilità dell’art. 650 c.p., nella misura in cui la sicurezza urbana venga ritenuta una specificazione della sicurezza pubblica.

Senza poter approfondire il tema in questa sede (sia consentito rinviare per l’impostazione della questione a C. Ruga Riva, Inosservanza di provvedimenti dell’autorità e ordinanze sindacali in materia di sicurezza urbana. Nuove questioni, vecchi problemi, in M. Bertolino, L. Eusebi, G. Forti, (a cura di), Studi in onore di Mario Romano, vol. III, Jovene, Napoli, 2011, 1685 ss.), ci si limita a osservare che la fattispecie di inosservanza di provvedimenti dell’autorità non si applica in caso di violazione di provvedimenti generali e astratti, a contenuto normativo (cfr. per tutti F. Basile, in E. Dolcini-G. Marinucci, a cura di, Codice penale commentato, IV ed., Milano, 2015, sub art. 650, p. 1380 s.), tipologia nella quale rientrano ad es. le ordinanze previste dall’art. 50, co. 7, ultimo periodo, così come modificato dall’art. 8 in commento), e in ogni caso ha natura residuale, ovvero soccombe rispetto a sanzioni ad hoc, anche se di natura processuale (Cass. 11 dicembre 2009, Parisi, CED 245635).

L’art. 650 c.p., in definitiva, è applicabile alle violazioni delle sole ordinanze contingibili e urgenti a contenuto provvedimentale, dirette a destinatari determinati o determinabili (cfr. ad es. Cass. sez. I, 14 settembre 2016, n. 46212; Cass. sez. I, 15 novembre 2012, n. 1200), che non siano già autonomamente sanzionate.

Inoltre eventuali trasgressioni di ordinanze sindacali astrattamente rientranti nell’art. 650 c.p. rileverebbero solo ove legalmente date: non lo sarebbero, ad es., ove intese a vietare condotte lecite in base all’ordinamento nazionale, (o già disciplinate e sanzionate in via amministrativa “generale” da norme di legge) come ad esempio ove si intendesse vietare, rispettivamente, l’esercizio della prostituzione o il consumo di droghe.

Ciò sarebbe contrario ai principi generali dell’ordinamento, tra i quali la gerarchia delle fonti.

Ciò premesso, gli illeciti per le violazioni degli ordini del questore o delle ordinanze del sindaco muniti di sanzioni amministrative e che abbiano destinatario determinato prevalgono, in linea di massima, in quanto speciali, sulla norma generale dell’art. 650 c.p.

Una eccezione potrebbe essere rappresentata dall’art. 13, co. 6, il quale, nel prevedere che la violazione delle misure irrogate dal questore ai condannati per spaccio di stupefacenti sia sanzionabile, dal prefetto, con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 10.000 a euro 40.000 (e la sospensione della patente), fa salva l’ipotesi che il fatto costituisca reato.

Nella relazione si evoca il problema del rapporto tra tale sanzione amministrativa e l’art. 650 c.p., sottolineandosi che il provvedimento è emanato per ragioni di sicurezza.

Poiché si tratta di provvedimenti diretti a persone specificate in relazione a luoghi e locali specificati, dato per ragioni di sicurezza (e non di un provvedimento generale e astratto a contenuto normativo), l’art. 650 c.p. appare in effetti astrattamente applicabile.

D’altro canto la specialità dell’art. 13 sembra essere sterilizzata dalla clausola di riserva a favore del fatto costituente reato (e cioè dell’art. 650 c.p.).

Trattandosi di violazione reiterata di obblighi, i casi sono due: o si scommette su di una seria sanzione pecuniaria amministrativa, e allora sarebbe più opportuno togliere la clausola di salvezza dell’art. 650 c.p., rendendo sicuramente applicabile l’illecito amministrativo punito con sanzione pecuniaria di due ordini di grandezza superiore alla esigua multa prevista (in alternativa) dall’art. 650 c.p.

O, vista la renitenza del destinatario (che ha ripetutamente violato il divieto di accesso e le successive misure di limitazione della sua libertà di movimento disposte dal questore) si potrebbe pensare a una pena restrittiva della libertà personale, sul modello dell’art. 6, co. 6 della l. n. 401/1989 (il quale prevede la pena, invero eccessiva, della reclusione da uno a tre anni e la multa da 10.000 euro a 40.000 euro).

 

* * *

 

7. Il disegno di legge in commento, in sintesi, scommette sul coordinamento tra Stato, regioni, province ed enti locali, tutti insieme appassionatamente partecipi della promozione della sicurezza urbana, bene giuridico onnivoro ed esaustivo, comprensivo sia dei tradizionali profili di sicurezza e ordine pubblico, sia di relativamente nuovi profili estetici (decoro urbano, degrado del territorio) e emozional-soggettivi (“vivibilità urbana”, benessere delle comunità territoriali” ecc.).

Guardiani della sicurezza urbana divengono (lo erano già prima, ma guadagnano nuovi poteri) il questore, il sindaco e (in misura minore) il prefetto.

Il disegno è perseguito attraverso la tutela di luoghi (aree interne alle infrastrutture, luoghi di interesse culturale, parchi, pubblici esercizi ove si spacciano stupefacenti o si vende alcool).

Ad una prima valutazione, il disegno di legge in commento introduce modalità di coordinamento e rafforza poteri di sindaci, questori e prefetti attraverso norme di per sé in buona parte ragionevoli; qualche dubbio può sollevarsi sull’ampliamento dei poteri di ordinanza dei Sindaci, i quali, nel recente passato, hanno non di rado dimostrato di farne uso illegittimo (si veda per una rassegna il rapporto curato da ANCI, Oltre le ordinanze. I sindaci e la sicurezza urbana, II ed., 2009, consultabile in www.cittalia.it. Per i relativi profili penali v. Grotto, Potere di ordinanza e diritto penale sostenibile, 397 ss. e Ruga Riva, Diritto penale e ordinanze sindacali. Più sanzioni per tutti, anche penali?, entrambi in Le Regioni, n. 1-2/2010, ove sono consultabili vari lavori che toccano anche i profili costituzionali e amministrativi).

Semmai è discutibile l’impianto complessivo del sistema.

Unilaterale appare infatti l’approccio, desumibile dall’incipit della Relazione, che merita di essere riproposta per la sua schiettezza: “La nuova società, ormai tendenzialmente multietnica, richiede…una serie di misure di rassicurazione della comunità civile globalmente intesa, finalizzate a rafforzare la percezione che le pubbliche istituzioni concorrono unitariamente alla gestione delle conseguenti problematiche, nel superiore interesse della coesione sociale” (corsivi miei).

Discutibile appare il riferimento alla società multietnica come (unico o principale) fattore di insicurezza, così come l’enfasi sulla necessità di rafforzare la percezione dell’efficienza delle pubbliche istituzioni, più che la loro reale efficienza.

Ambigua appare la sottolineatura delle esigenze di rassicurazione dell’opinione pubblica, che se da un lato non vanno sottovalutate, dall’altro vanno perseguite con politiche repressive e promozionali idonee a creare effetti reali (e non solo simbolici) sulla sicurezza dei cittadini.

Infine, pur essendo ovvio che il testo normativo in commento, emanato su proposta del Presidente del Consiglio e Ministero dell’Interno, di concerto con quelli della giustizia e degli affari regionali, si concentri sugli aspetti securitari, sarebbe auspicabile che il Governo, accanto a tale approccio, edificasse un ulteriore pilastro di politiche attive di coesione sociale, promosse di concerto con altri Ministeri, volte a contenere alla radice i rischi di illegalità diffusa e di degrado della città, ad esempio affrontando, con investimenti seri, gli effetti della crisi economica, della disoccupazione e della disgregazione del tessuto famigliare e sociale, o quanto meno investendo in riqualificazione urbanistica, specie delle periferie, in scuole, in centri di aggregazione ecc.

Per riprendere il titolo di questa scheda, l’efficacia della repressione dell’illegalità diffusa nell’urbe (e/o la rassicurazione del sentimento di sicurezza) dipende anche da ciò che accade nel mondo, non solo in termini di gestione dell’immigrazione, ma anche di governo dei complessi fenomeni socio-economici che concorrono a produrre crisi individuali, famigliari e sociali, e con esse devianza e marginalità.

Di fronte a questo scenario i tre custodi della sicurezza urbana (questore, sindaco e prefetto) rischiano comunque, anche se muniti di poteri rafforzati, di avere le armi spuntate.