ISSN 2039-1676


20 aprile 2017 |

Che fine hanno fatto gli Stati Generali?

Intervento del Coordinatore del Comitato Scientifico degli Stati Generali dell'Esecuzione penale al convegno di Antigone "Che fine hanno fatto gli Stati generali?" - Roma, 10.4.2017.

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il testo scritto dell'intervento svolto dal Prof. Glauco Giostra, quale Coordinatore Scientifico degli Stati Generali dell'esecuzione penale, al convegno organizzato a Roma da Antigone, il 10 aprile 2017, e intitolato "Che fine hanno fatto gli Stati Generali? Carceri e misure alternative: cosa si è fatto, cosa non si è fatto, cosa si poteva fare".

 

Heri dicebamus.  Esattamente un anno fa, a Rebibbia, si concludevano gli Stati Generali.  Antigone si chiede giustamente oggi: che fine hanno fatto gli Stati Generali?

Me la potrei cavare con le parole di chiusura dell’intervento tenuto appunto a Rebibbia. Ho sempre detestato le autocitazioni: se questa volta me la consento è perché non ho mai considerato quella di Rebibbia soltanto una mia relazione. Ero ventriloquo. Per quel che sono stato capace di fare, infatti, ho cercato in quei pochi minuti di dare voce  almeno al senso del lavoro del Comitato scientifico e dei Tavoli. Dicevamo «Molti penseranno che vi sia una forte componente utopistica nel ritenere che questa crisalide degli Stati Generali si possa schiudere presto e compiutamente e farsi norme, organizzazione, struttura, professionalità, mentalità. Confidiamo che il futuro possa in gran parte dissolvere questa preoccupazione. Di certo, comunque vadano le cose, quello degli Stati Generali non resterà mai un lavoro inutile. «L’utopia» – diceva Edoardo Galeano – «è come l’orizzonte. Cammino due passi e si allontana di due passi. Cammino dieci passi e si allontana dieci passi. E allora a che cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare».

Ma la sofferenza dei detenuti,  quella inutile  ed evitabile intendo,  non è certo indifferente né  ai tempi, né alle modalità , né alle deviazioni di un tale incedere. Ed Antigone, da sempre dalla parte di questa sofferenza, non poteva non interrogarsi e non interrogarci sui passi compiuti e su quelli che si intendono compiere.

Me la potrei allora cavare dicendo che grazie alla lungimirante iniziativa del Ministro Orlando, più di duecento professionisti con competenza, determinazione e generosità hanno tessuto porzioni di stoffa di ottima fattura, le hanno cucite insieme in una grande vela e hanno indicato la rotta. Se manca vento politico per sospingere questa vela lungo la rotta segnata bisogna chiederne ragione altrove. Sarebbe una risposta evasiva. E noi gente degli Stati Generali non abbiamo svolto e archiviato un compito, noi abbiamo condiviso e condividiamo una causa e a tutti livelli continuiamo a batterci e a testimoniare per essa. Oltre che evasiva, la risposta sarebbe ingenerosa, perché non manca vento a sospingere quella vela, ma ne spira uno contrario di inaudita violenza. Nessuno naturalmente poteva pensare che una rivoluzione culturale come quella patrocinata dagli Stati Generali potesse realizzarsi  subito, senza esitazioni e contraddizioni, senza resistenze politiche e culturali. Ma era difficile immaginare che quelle procellarie che mentre lavoravamo si intravvedevano all’orizzonte convergessero su questa stagione attuale in una tempesta perfetta: volevamo abbassare ponti levatoi tra carcere e società, e ovunque –anche oltre oceano- si parla soltanto di erigere muri; avevamo bisogno di una società affrancata dalla paura e tutto,   quotidianamente, induce insicurezza; dovevamo far affidamento su una forza politica stabile e coesa che portasse avanti il disegno riformatore e tutto si è fatto liquido, precario e imprevedibile. 

Nonostante queste avversità, però, gli Stati Generali non sono una balena spiaggiata. Anche se –per la congiuntura di cui si è detto, per le prevedibili inerzie culturali, per rigidità strutturali e organizzative- ogni innovazione è frutto di lenta e faticosissima conquista, sono certo che le centinaia di pagine in cui si è tradotto il nostro lavoro non sono state e non saranno consegnate alla corrosiva attenzione dei topi. E  quanti se lo sono sin dall’inizio inconfessabilmente augurato se ne dovranno fare una ragione.

Spero che questa giornata di tagliando meritoriamente promossa da Antigone possa partire da una premessa condivisa. Al di là delle diverse sensibilità e convinzioni di ciascuno, credo che nessuno vorrà  disconoscere  che nonostante tutto   sono stati compiuti progressi importanti; e che nessuno, per contro,   vorrà negare che di più si poteva e che molto si deve ancora fare.  Ci diranno il Ministro e gli autorevoli esponenti del dicastero qui presenti  cosa intanto si è potuto realizzare e si stia realizzando , nonostante il prolungato stallo in Parlamento della delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, pur così fortemente voluta dal Ministro.

Voglio soltanto far presente che i risultati degli Stati Generali non sono stati medio tempore  accantonati. 

Dopo la giornata conclusiva di Rebibbia, i componenti del Comitato scientifico e i coordinatori dei Tavoli sono stati convocati dal Ministro insieme agli esponenti apicali dell’amministrazione per ragionare insieme su ciò che poteva essere migliorato a quadro normativo costante. Un altro incontro si è svolto poche settimane fa per verificare cosa si sia realizzato, cosa si stesse preparando  e  perché altri obbiettivi non fossero stati ritenuti invece conseguibili. Il capo del dell’amministrazione penitenziaria e il nuovo capo del Dipartimento Giustizia minorile e di comunità - la Presidente Gemma Tuccillo, cui vanno i nostri più sinceri auguri di proficuo lavoro nella convinzione che vorrà e saprà portare avanti l’importante azione innovatrice condotta dal Capo dipartimento uscente, Francesco Cascini - i due Capi Dipartimento, dicevo, hanno riferito in quella sede, predisponendo due importanti documenti di puntuale ricognizione sul già fatto e sul da farsi in relazione alle proposte dei Tavoli. E’ un modus procedendi che non può che essere molto apprezzato e condiviso. Semmai simili  incontri avrebbero dovuto essere più frequenti e  meglio preparati per renderli ancor più proficui, ma proprio questo risulta essere per il futuro l’intendimento espresso nell’ultima riunione dal capo di Gabinetto, assente il Ministro per motivi di salute: un confronto costante di verifica e di stimolo, al quale dovrebbe partecipare anche la nuova struttura della Cassa delle ammende, che si è voluta rendere autonoma e riconfigurare come agenzia nazionale del lavoro penitenziario, in linea con le indicazioni del Tavolo che di questo tema si è occupato.

Proprio nel corso dell’ultima riunione in via Arenula, al Capo del Dap che aveva riferito di una istruttoria in corso per eliminare dal linguaggio penitenziario  espressioni infantilizzanti e ridicolizzanti, il coordinatore del Tavolo 2, dott. Bortolato, faceva osservare che forse i tempi di gestazione per  emanare una circolare tutto sommato semplice erano sin troppo lunghi. Osservazione recepita. Il 31 marzo scorso il presidente Santi Consolo ha emesso la circolare che tutti conoscete e che, al di là di alcune precisazioni spicciole che si prestano alla facile ironia, ha un forte significato culturale e simbolico. Dire che alle parole devono seguire  miglioramenti concreti  della condizione carceraria è dire una sacrosanta ovvietà; non cogliere l’importanza del linguaggio significa però non ricordare che le parole, come diceva Levi, sono pietre: pietre che possono seppellire la dignità o pietre su cui costruire  una realtà relazionale non indegna di un uomo.

Spiace molto la reazione oppositiva di parte della polizia penitenziaria. Ci saremmo attesi una condivisione convinta, pur se accompagnata dalla segnalazione di altri gravi problemi che hanno urgenza di essere risolti. Ed invece abbiamo assistito ad una risposta fortemente polemica e autolesionistica. Si, autolesionistica, perché se gli agenti di polizia penitenziaria avessero soltanto il compito di  contenere in celle  soggetti che si debbono rivolgere a loro con “domandine”, anziché con richieste, e a cui si può concedere una “dama di compagnia”, anziché la presenza di un altro detenuto, fatalmente questi agenti sarebbero percepiti come secondini e girachiavi. In tal modo si  perpetuerebbe l’infondata convinzione che ci sono forze dell’ordine di serie A che individuano, cercano, catturano le persone che delinquono e forze dell’ordine di serie B che hanno il ben più agevole compito di tenerle soltanto segregate in uno stato di minorità. Noi degli Stati Generali abbiamo invece un altissimo concetto della funzioni di polizia giudiziaria, i cui uomini devono  sapere non meno degli appartenenti alle  altre forze di sicurezza fronteggiare pericoli, spesso persino più insidiosi; devono affrontare sacrifici quotidiani più gravosi in un contesto doloroso e mortificante; devono essere garanti della sicurezza degli operatori e dei detenuti, usando nei  confronti di questi metodi rispettosi, ma non imbelli ; devono, primi osservatori di prossimità, saper capire le personalità e le   potenzialità dei soggetti a loro affidati;  devono svolgere una così delicata funzione all’ombra di fatiscenti strutture, mai rischiarata  dai riflettori e dalle gratificazioni dei media : non si tengono conferenze stampa per celebrare un anno di ordinata e costruttiva convivenza nel penitenziario o la riconsegna alla società di soggetti totalmente recuperati.  Se le altre forze dell’ordine hanno l’arduo compito di assicurare delinquenti alla giustizia loro hanno il non meno impegnativo compito, garantita la sicurezza di questi soggetti e da questi soggetti, di collaborare con gli altri operatori del trattamento per cercare di riconsegnarli  migliori alla società. Devono saper essere agenti di custodia e di recupero. Non a caso si è insistito nei lavori degli Stati Generali sulla necessità di una loro formazione multidisciplinare per assolvere un così delicato e insostituibile compito. Debbono, gli uomini della polizia penitenziaria, avere qualcosa in più non in meno degli altri appartenenti alle forze dell’ordine. Così come qualcosa in più deve avere il magistrato di sorveglianza rispetto alla magistratura ordinaria, l’avvocato penitenziarista rispetto a quello di tribunale, lo studioso dell’esecuzione penale rispetto al processualista puro, il volontario nelle carceri rispetto alle altre espressioni del volontariato. Gli Stati Generali intendevano   rimuovere questo stigma penitenziario  che accompagna qualsiasi professionalità che incroci la realtà della pena e della sua esecuzione. Evidentemente non ci siamo riusciti, ma non demorderemo. Che la strada fosse lunga ed in salita lo sapevamo; che non fosse solo questione di norme e di circolari l’abbiamo sempre detto. Anzi, gli Stati Generali sono nati proprio perché i 70 anni di vita dell’art.27 della Costituzione ci hanno insegnato che il problema non si risolve soltanto con norme o circolari.

Una tale considerazione ci aiuta a dare una più compiuta risposta ad una domanda che oggi aleggia, implicita ma ineludibile, in questo incontro: che fine faranno gli Stati Generali?

Anzitutto, l’eredità degli Stati Generali non è soltanto  quel giacimento di documentazione, analisi e proposte che è lì, agli atti. E’ un lievito  che non smette di fermentare, come dimostra la contagiosa mobilitazione culturale che non si è certo arrestata un anno fa e che si è espressa in tante iniziative sbocciate spontaneamente, di taglio, fattura e destinatari diversi, ma tutte nel solco di una diversa idealità della pena.

Il copioso materiale prodotto, poi, sarà presto insostituibile punto di riferimento per il legislatore delegato che dovrà dare attuazione e contenuti alla Delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, che nelle prossime settimane dovrebbe ottenere il suggello finale dalla Camera dei deputati. I risultati degli Stati Generali saranno particolarmente importanti perché i criteri direttivi del Delegante, a voler tacere di alcune modifiche peggiorative subìte nel corso dei lavori parlamentari, mantengono il vizio originario: una formulazione a maglie troppo lasche, così che a molti di essi si potrebbe dare attuazione, in modo formalmente legittimo, con contenuti quasi antitetici: una bussola come quella offerta dai risultati e dalle proposte degli Stati Generali potrebbe risultare preziosa e rassicurante.

Ma prima di concludere  vorrei richiamare l’attenzione su un settore nel quale si deve fare molto di più e meglio: la comunicazione. Innanzitutto la comunicazione “interna” , cioè tra amministrazione e componenti degli Stati Generali. Sarebbe importante essere aggiornati regolarmente su alcune importanti iniziative prese dai due Dipartimenti. Ad esempio, soltanto spigolando qua e là nei documenti prodotti nell’ultima riunione, si apprende della convenzione sottoscritta nell’agosto scorso con Federsanità con l’obbiettivo di attivare un servizio di telemedicina su tutto il territorio nazionale, per assicurare tempestività e continuità di cura ai pazienti detenuti; dell’avvio del progetto “la Casa di Leda”, finalizzato alla realizzazione di una Casa Famiglia Protetta per genitori agli arresti domiciliari o in misura alternativa; dei numeri della cospicua crescita delle sanzioni alternative e delle misure di comunità; dell’ avvio della  procedura di assunzione di 60 assistenti sociali; delle misure per assicurare strutture di accoglienza agli immigrati meritevoli di misure alternative; del progetto “Toscana in prova”, che ha consentito l’inserimento di volontari in servizio civile negli UEPE; della circolare “Comunicazioni audiovisive con modalità skype”; della circolare del gennaio scorso diretta a far crescere la cultura della giustizia riparativa all’interno dei servizi del Dipartimento minorile, ecc. Sarebbe nell’interesse dell’amministrazione renderci tempestivamente informati delle novità seguite agli Stati Generali, per poter costruttivamente discuterle, valorizzarle e diffonderle.

Come pure sarebbe estremamente utile da parte nostra che ci impegnassimo a comunicarci sempre le tante iniziative, talune bellissime, che vengono promosse per avvicinare la gente alla realtà della pena (film, dibattiti, mostre, incontri con gli studenti, esperienze di giustizia riparativa, impegno di detenuti per la collettività, ecc.). E’ importante poter essere informati di simili eventi per poter partecipare, per instaurare sinergie, per poterli pubblicizzare.

Una attenzione particolare dovrebbe  essere dedicata appunto alla comunicazione “esterna”, verso la società, nella consapevolezza che ogni conquista sarà precaria ed esposta alle intemperie politiche se non affonderà solide radici nel sentire collettivo. Bisogna far ricorso ad ogni strumento utile per riuscire a sensibilizzare l’opinione pubblica avvicinandola alla complessa, difficile  e dolorosa realtà dell’esecuzione penale. Andrebbe ad esempio coltivata la proposta, a suo tempo avanzata dall’osservatorio delle Camere penali, di curare forme di pubblicità-progresso. Si potrebbe anche dar corso all’idea, che mi ero permesso di sottoporre al Ministro ricevendo favorevole attenzione, di istituire una “giornata del carcere”, in cui la collettività dovrebbe essere  ammessa ad entrare nei penitenziari per conoscere come vi si vive e soprattutto ciò che coloro che vi sono ristretti sanno produrre, si tratti di una rappresentazione teatrale,  di manufatti, di un concerto, di una mostra fotografica, della proiezione di un docufilm, di un mini-campionato di calcio con squadre “esterne”. La conoscenza avvicina le persone ed allontana le paure.

Fondamentale sarebbe inoltre sensibilizzare alla  tematica dell’esecuzione penale gli operatori dell’informazione, come ad esempio da molto tempo vanno meritoriamente facendo ad esempio, con ottimi risultati, Ristretti Orizzonti e Carte Bollate. Per parte mia, insieme ad una giornalista, ho stipulato un accordo con l’Ordine dei giornalisti per organizzare un ciclo di seminari su “Carcere e informazione”, ai quali chiamare di volta in volta, a seconda dell’argomento, gli esperti degli Stati Generali. Il primo, sulla radicalizzazione, si è svolto qui a Roma in due giornate, la seconda delle quali nel carcere di Regina coeli. Mi sembra che l’esito sia stato più che confortante. Una bozza di convenzione è all’esame del ministero della giustizia e dell’ordine dei giornalisti per favorire incontri di formazione e di informazione comune.

Insomma, non dobbiamo dimenticare il boato di silenzio che ha fatto seguito all’incontro di Rebibbia. Erano presenti, tra gli altri, il Capo dello Stato in carica, quello uscente, Ministri, Presidenti della Commissione giustizia, Sottosegretari, Giudici ed ex giudici della Corte costituzionale, Commissaria europea, Presidente della Rai  e all’indomani l’unica vera traccia mediatica lasciata dall’evento è stata la simpatica performance di Checco Zalone.

In questa società in cui esiste solo ciò che appare sui media bisogna cercare ogni modo per uscire dal cono d’ombra in cui da sempre è relegato il carcere e prodigare ogni sforzo per favorire un’informazione responsabile e documentata, in modo, come ha mirabilmente sintetizzato il premio Nobel,  Elie Wiesel, di «trasformare l’informazione in conoscenza, la conoscenza in coscienza».

Grazie.