26 settembre 2017 |
A. Alessandri (a cura di), Espansione della criminalità organizzata nell'attività d'impresa al Nord, Giappichelli, 2017
Prefazione e presentazione del volume
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Prefazione (di Giovanni Fiandaca)
Che la criminalità organizzata di stampo mafioso si sia ormai da anni infiltrata al Nord e condizioni sempre più il sistema economico e l’attività d’impresa, è diventato quasi un luogo comune. Non è però facile misurare con criteri veramente attendibili la consistenza del fenomeno, e verificare con precisione l’ambito di estensione dell’inquinamento criminale della realtà imprenditoriale. Diversità di punti di vista non di rado emergono fra gli analisti esperti, e financo tra i magistrati, come emerge dalle loro non infrequenti prese di posizione pubbliche (interventi sulla stampa, interviste, audizioni, etc.): non mancano invero noti esponenti della magistratura penale, i quali, pur non disponendo a tutt’oggi di riscontri processuali davvero probanti, avanzano allarmisticamente la tesi che le mafie siano oggi diventate capaci di controllare anche i settori economici più moderni e sofisticati (cfr. ad esempio l’intervista al procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato pubblicata ne L’Espresso del 19 febbraio 2017).
Per accertare in che misura allarmismi siffatti abbiano un reale fondamento, occorre in realtà andare al di là di pur plausibili ipotesi impressionistiche, promuovendo quanto più possibile indagini rigorose a carattere empirico-criminologico. In questa prospettiva di verifica empirica ha il merito di collocarsi la ricerca sull’espansione della criminalità organizzata nell’attività di impresa al Nord, condotta dal gruppo di studiosi diretti dal professor Alberto Alessandri dell’Università Bocconi di Milano e pubblicata in questo volume. Questa ricerca, che si aggiunge alle pochissime finora realizzate, presenta un indubbio profilo di originalità per il fatto di aver assunto ad oggetto di analisi tutti i fascicoli processuali relativi all’arco temporale 1 gennaio 2000 - 31 dicembre 2015 aperti dalla procura della Repubblica di Milano per il reato di associazione mafiosa ed eventuali reati concorrenti talvolta integrati dalla contestazione dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa (in un secondo momento, la ricerca ha meritoriamente incluso anche le misure di prevenzione patrimoniali applicate dal tribunale milanese nello stesso periodo di tempo considerato, con riferimento particolare alla confisca e alla cosiddetta amministrazione giudiziaria).
Certo, gli autori della ricerca sono perfettamente consapevoli che i dati giudiziari sono ben lungi dal potere rispecchiare le proporzioni reali della penetrazione della criminalità organizzata nel contesto milanese; anche perché non solo le indagini e i processi per loro natura non possono che fotografare il passato, e dunque nulla o poco dicono sull’attualità dei fenomeni criminali oggetto di contrasto, ma per di più i reati di mafia presentano – com’è noto – una “cifra oscura” elevata. Ciò non toglie, tuttavia, che l’angolazione giudiziaria rappresenti pur sempre uno dei più importanti terreni d’osservazione empirica.
Tra i risultati di maggiore interesse della ricerca, trova conferma un assoluto predominio in Lombardia della criminalità ‘ndranghetista. Nello stesso tempo, dall’analisi dei dati emerge che non si è più dinanzi a una criminalità importata, la cui presenza affiora sporadicamente; piuttosto, il fenomeno appare ben radicato nel territorio lombardo e nell’hinterland milanese.
Un ulteriore dato da porre in risalto è questo: tra gli obiettivi principali perseguiti dalle organizzazioni ‘ndranghetiste, rientra la partecipazione ad (o il controllo di) attività economico-imprenditoriali lecite, seppur accompagnate dal ricorso a metodi illeciti. Con una peculiarità, peraltro, che va particolarmente evidenziata anche perché sembra riproporre al Nord una linea di tendenza più volte osservata al Sud: cioè – contrariamente a certe aspettative basate finora su congetture astratte, per quanto plausibili – dai dati raccolti sembrerebbe potersi desumere che neppure nell’hinterland milanese la criminalità mafiosa gestisce o controlla attività imprenditoriali di particolare sofisticatezza o complessità; al contrario, i dati emergenti confermerebbero che anche al Nord l’interesse imprenditoriale delle organizzazioni criminali si rivolge soprattutto ad attività di tipo tradizionale, quali l’edilizia, il movimento terra, lo smaltimento di rifiuti, gli investimenti immobiliari, ecc. Sorge, a questo punto, spontaneo questo prevedibile interrogativo: l’assenza di riscontri giudiziari circa la presenza dei mafiosi nell’ambito dell’imprenditoria più sofisticata si spiega col fatto che le mafie non sono oggettivamente in grado di penetrare nei settori più all’avanguardia – ovvero, le mafie sono presenti anche in questi settori, e a tutt’oggi non disponiamo al riguardo dei necessari elementi di prova? L’interrogativo non può che restare aperto.
Ancora, dai procedimenti analizzati emerge una presenza mafiosa a tutti i livelli della società civile, connotata tuttavia da una più rara, diretta assunzione da parte dei membri delle cosche di ruoli-chiave nelle istituzioni e nelle pubbliche amministrazioni.
Infine, riceve conferma anche il ruolo determinante assunto dagli esponenti della c.d. zona grigia, disposti a collaborare a vario titolo con la criminalità organizzata secondo la consueta logica della “reciprocità dei vantaggi”. In proposito, emerge però come dato interessante la peculiare inclinazione della magistratura milanese a fare poco uso della controversa categoria penalistica del “concorso esterno” (in quindici anni contestata pochissime volte, nonostante l’ampio numero di soggetti esterni indagati) e a qualificare come “partecipi” tout court la maggior parte dei soggetti contigui che realizzano condotte di fiancheggiamento alle organizzazioni mafiose.
Ancorché, per le ragioni già dette, non sia in grado di fornire una rappresentazione esaustiva del fenomeno, la ricerca diretta da Alessandri fornisce nondimeno una riprova del fatto che parlare di “infiltrazione” mafiosa è verosimilmente riduttivo: siamo piuttosto in presenza di un fenomeno di vero e proprio radicamento, e ciò peraltro secondo forme di manifestazione complesse e articolate, nel senso che si assiste sia alla gemmazione di gruppi ‘ndranghetistici che mantengono un collegamento con le originarie associazioni-madri tradizionalmente insediate al Sud, sia di associazioni criminali di nuovo insediamento che ambiscono invece a operare in modo autonomo (non a caso, rispetto ai sodalizi di questo secondo tipo è nella prassi giudiziaria più volte affiorato il dubbio relativo alla avvenuta maturazione dei presupposti di fatto, soprattutto sotto il profilo della prova di una raggiunta capacità di intimidazione diffusa, necessari a fini dell’applicabilità dell’art 416 bis del codice penale).
Un ultimo rilievo. Anche in base ai risultati complessivi della ricerca pubblicata in questo volume, è forte in verità la tentazione di dare ragione a un sociologo come Carlo Trigilia, il quale esprime una convinzione che peraltro non è solo lui a nutrire: la convinzione cioè che oggi nel nostro paese – non solo al Sud , ma anche al Nord – si assista a una contrapposizione tra gli imprenditori che cercano ancora di competere sul mercato e sul merito, e quegli altri imprenditori che vanno alla ricerca di rendite protette dalla politica o sempre più spesso dalla criminalità. Questo secondo tipo di imprenditori, che parrebbe essere sempre più in aumento, profitta dei perversi vantaggi di un capitalismo che si potrebbe definire “politico-criminale”. Se tutto ciò è vero, è forse superfluo esplicitare che la possibilità che una efficace strategia di contrasto ai perniciosi intrecci tra criminalità organizzata e mondo delle imprese non può essere prevalentemente affidata alla magistratura penale: prima ancora dell’azione giudiziaria, che indubbiamente rimane irrinunciabile, hanno un ruolo determinante la cultura, il senso di responsabilità collettiva e il livello di moralità del ceto imprenditoriale.
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Presentazione (di Alberto Alessandri)
1. Il gruppo dei ricercatori e dei collaboratori
1.1. La ricerca[1] che ho ideato e diretto è stata svolta all’interno del Dipartimento di Studi Giuridici “Angelo Sraffa”, con il patrocinio del Credi (Centro di studi europei in diritto dell’impresa “Ariberto Mignoli”, fin che esso è stato attivo presso l’Università Bocconi di Milano).
[omissis]
2. Le ragioni della ricerca
La ricerca parte da una constatazione oggi da tutti condivisa: la presenza della criminalità organizzata nel tessuto dell’economia del Nord Italia.
Fino a pochi anni fa, invece, solo alcuni studiosi e operatori del settore avvertivano e segnalavano l’infiltrazione della mafia nell’economia del Nord.
Numerosi sociologi, penalisti e criminologi hanno svolto approfondite indagini sul fenomeno e hanno constatato, avvalendosi dei risultati dell’attività di accertamento compiuta dalla magistratura, l’affermarsi e il consolidarsi delle organizzazioni criminali in luoghi diversi da quelli d’origine. È stata osservata e studiata l’avvenuta migrazione di Cosa Nostra, ’ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita nel Centro e nel Nord Italia.
La magistratura, in numerose, complesse indagini e istruttorie, ha, inoltre, accertato che le consorterie mafiose si servono, talora, della collaborazione o dell’aiuto di organizzazioni nuove, provenienti dall’estero, che operano nel territorio nazionale anche in forma autonoma.
La gravità e la pericolosità del fenomeno, passato ormai da infiltrazione a radicamento, sono state oggetto per diverso tempo di una consapevolezza limitata ad alcuni operatori del settore, poiché ha resistito a lungo la convinzione diffusa, e spesso sostenuta anche da esponenti delle istituzioni, che la mafia fosse un problema esclusivamente meridionale, da affrontare solo sul terreno dell’ordine pubblico. In ogni caso confinato nelle regioni del Sud.
Crediamo che oggi non vi sia nessuno che, in buona fede, possa sostenere una simile opinione. Le indagini della magistratura, gli interventi delle forze dell’ordine, i servizi giornalistici, l’ampia letteratura sociologica e la mole degli studi di ogni tipo hanno ormai definitivamente sfatato il mito di una mafia (e con questo termine intendiamo riferirci a tutte le organizzazioni “di tipo mafioso”, come indica la formula dell’art. 416-bis c.p.) attiva e operante solo in una parte dell’Italia, nel depresso e arretrato Mezzogiorno d’Italia.
Al contrario, sono sempre più evidenti le connessioni tra la criminalità organizzata di stampo mafioso e l’attività imprenditoriale ed economica del Nord. Per un verso l’organizzazione mafiosa si propone per, o impone di, svolgere servizi a favore delle imprese, come mostra emblematicamente la vicenda dei rifiuti nel territorio campano, e non solo; per altro verso, l’enorme quantità di denaro liquido accumulato dalle varie organizzazioni criminali, principalmente dalla ’ndrangheta, quale profitto di attività illecite – primo fra tutte il traffico di stupefacenti –, ha necessità di essere riciclato e reinvestito, per la parte che resta in Italia, in attività economiche almeno all’apparenza lecite.
Le cronache più recenti mostrano un altro momento dinamico nel pericoloso connubio tra la criminalità organizzata mafiosa e, questa volta, la politica o l’attività delle istituzioni pubbliche: compaiono episodi di aiuto e sostegno tra le attività corruttive (per assumere un tipo per tutte) e i servizi offerti dalla criminalità organizzata anche in ambito internazionale. Si supera sovente il modello dello scambio elettorale, pure da poco normativamente rivisto, per approdare a forme operative di coinvolgimento ben più strette, di controllo di gangli essenziali nei servizi pubblici, quale, ad esempio, la sanità, che offre cospicue occasioni di condizionamento del potere amministrativo e di arricchimento.
2.1. Fin qui nulla di nuovo, anzi solo un riassunto, manchevole e impreciso, di un fenomeno complesso e, come detto, variamente e ampiamente indagato.
D’altro canto, lo si precisa con chiarezza, l’intento della ricerca non è mai stato quello di realizzare un altro studio da aggiungere a quelli già disponibili, alcuni di gran valore, che hanno offerto contributi per la valutazione sociologica, criminologica, economica e storica del fenomeno del radicamento mafioso nel nord d’Italia.
Il punto di partenza e la prospettiva della ricerca sono stati diversi.
Dalla percezione della gravità del fenomeno e della sua capacità espansiva, discussa e condivisa da alcuni docenti e ricercatori dell’Università Bocconi, è affiorata l’opportunità di offrire un contributo empirico e quantitativo – con le precisazioni di cui si dirà – alla conoscenza del fenomeno, che d’ora in poi sarà per semplicità chiamato dell’“infiltrazione mafiosa al Nord”.
Come già osservato, si dispone di una vasta e crescente letteratura, non solo sul fenomeno mafioso in generale, ma anche più specificamente sull’infiltrazione e sulle fasi successive. Vi sono stime delle dimensioni economiche, indagini sul territorio, analisi sulle relazioni e sui rapporti tra i vari soggetti, network analysis, inchieste di taglio giornalistico, alcune svolte con rigore di metodo.
A fronte di questo quadro di studi, l’impressione che è stata condivisa dal gruppo di ricerca bocconiano è stata quella di un’ancora parziale incompletezza, complessivamente considerata, dei dati a disposizione.
La scarsa conoscenza dei fenomeni, colti nella loro crudezza empirica, costituisce peraltro un tratto purtroppo diffuso nello studio propedeutico alle scelte di contrasto ai fenomeni criminali e all’uso del diritto penale: più in generale, alla gestione delle cose pubbliche in Italia. Per limitarsi ai fatti che hanno rilievo giuridico penale, tutti gli studiosi di questo settore sanno quanto poche siano le statistiche; quelle ufficiali, dell’Istat o del Ministero di Giustizia, sono per lo più orientate a fini specifici, di tipo organizzativo o di misurazione dell’efficienza. Per di più, si tratta non poche volte di statistiche capricciosamente aggregate, con modelli risalenti nel tempo o che addirittura non considerano aspetti rilevanti del fenomeno da indagare.
È un male diffuso che costituisce il risultato della mancata considerazione dell’importanza, assolutamente decisiva, della conoscenza empirico-criminologica dei fenomeni che s’intenderebbe fronteggiare o combattere. La politica e per essa il legislatore, quando intervengono, si accontentano di valutazioni approssimative, delle sensazioni diffuse in alcuni ambienti, delle esigenze esternate, a vario titolo, da gruppi o categorie. Si rinuncia, o si costringe a rinunciare togliendo le risorse indispensabili, al faticoso quanto prezioso lavoro della ricognizione, da diversi punti di vista, del gruppo o della categoria di comportamenti economici e sociali che costituiscono la sostanza del fenomeno da disciplinare o contenere.
È pacifico che la migliore conoscenza del fenomeno costituisca il primo indispensabile passo per costruire barriere adeguate, strumenti di contrasto e, se possibile, di neutralizzazione: allora un contributo alla rilevazione del fenomeno, ricavato su basi oggettive, può avere un suo autonomo pregio, naturalmente non risolutivo ma da affiancare alle altre fonti informative e alle successive analisi.
È nata quindi l’idea, anche sulla base dell’esperienza accumulata in occasione di una precedente ricerca empirica in campo affatto diverso[2], di rivolgere l’attenzione al fenomeno dell’infiltrazione mafiosa al Nord da un osservatorio particolare, circoscritto: quello dell’attività della magistratura, inquirente e giudicante, presso il Tribunale di Milano.
2.2. Si è deciso, in sintesi, di esaminare tutti i fascicoli processuali relativi all’arco temporale, che va dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2015, aperti dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano per il delitto previsto dall’art. 416-bis c.p. – “Associazioni di tipo mafioso anche straniere”[3] –, ed eventuali altri reati concorrenti, con attenzione specifica a quei fascicoli che contengono la contestazione dell’art. 7, d.l. n. 152/1991[4], poiché esso richiama appunto la commissione di delitti “avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo”.
In una prima fase della ricerca, essa era limitata ai procedimenti dell’arco temporale 2000-2010. Sono poi sopravvenuti importanti provvedimenti che hanno reso opportuno estendere l’indagine fino al 31 dicembre 2015. Ciò è stato possibile grazie a un contributo specifico dell’Università Bocconi e, per proseguire, dall’autofinanziamento.
Con la cortese e sollecita autorizzazione del Presidente del Tribunale di Milano, prima la dottoressa Pomodoro e poi il dottor Bichi, e la costante collaborazione della dottoressa Boccassini, si è aperto uno sterminato, quanto accidentato, campo di ricerca. Ovviamente è stato possibile accedere solo a una parte dei fascicoli aperti per l’art. 416-bis c.p.: non sono stati accessibili quelli in corso d’indagine, coperti dal segreto istruttorio. Si ha però motivo di ritenere che i procedimenti non accessibili siano in numero modesto (fino al 2015).
All’insieme dei procedimenti avviati presso la Procura di Milano, nel periodo 2000-2015, è stato applicato un filtro. Nel senso che, per intuitive ragioni, sono stati considerati tutti i procedimenti rispetto ai quali fosse stato emesso, nell’arco temporale indicato, un provvedimento decisorio: o con l’esercizio dell’azione penale, con la richiesta di rinvio a giudizio; oppure con la richiesta di archiviazione.
Più in dettaglio, il campione oggetto della ricerca è costituito:
A) da tutti i fascicoli processuali (accessibili) aperti dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, nel periodo dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2015, nei quali è stato all’origine contestato il delitto previsto dall’art. 416-bis c.p.
i) All’interno di questi fascicoli sono stati oggetto di rilevazione e di analisi anche i reati contestati in concorso a quello previsto dall’art. 416-bis c.p. o i reati diversi contestati a indagati presenti nello stesso fascicolo processuale (ma non per l’ipotesi dell’art. 416-bis c.p.);
ii) è stata oggetto di analisi specifica la contestazione dell’aggravante di cui all’art. 7 l. 201/1991, la quale ricorre quando un delitto è commesso “avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo”;
iii) il totale dei procedimenti accessibili ed esaminati è 105 (numero riferito ai procedimenti “madre”, rispetto ai quali, in diversi casi, vi sono stati stralci);
iv) nell’insieme dei procedimenti così individuati sono stati estratti e analizzati tutti i procedimenti nei quali – nel periodo considerato – è stato emesso un provvedimento decisorio conclusivo delle indagini: a) richiesta di archiviazione; oppure b) richiesta di rinvio a giudizio;
v) di questi, 58 sono stati archiviati; 10 avevano, al termine del periodo, una richiesta di archiviazione ancora pendente; 37 sono stati definiti con sentenza di primo grado, sempre nell’arco temporale indicato;
vi) nel numero dei reati complessivamente contestati, pari a 4293, le contestazioni dell’art. 416-bis c.p. sono 1.251;
vii) il numero degli indagati è 2.058 e, tra essi, gli indagati per l’art. 416-bis c.p. sono 1251, il 60,79% del totale (grafico 1.1.3.A);
viii) il numero dei reati contestati con l’aggravante di cui all’art. 7 è 327.
B) La ricerca ha inoltre considerato il sistema delle misure di prevenzione, rilevando, nell’ambito delle misure di prevenzione patrimoniali antimafia, quelle della confisca e dell’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche, ora disciplinate dagli artt. 23 e 34, d.lgs. n. 159/2011 (codice antimafia). L’arco temporale nel quale sono stati considerati i provvedimenti, emessi dal Tribunale di Milano, Sezione Misure di Prevenzione, è stato ancora quello dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2015.
i) L’analisi è stata limitata ai soli provvedimenti definitivi non impugnabili.
a) Per quel che attiene alla confisca, il campione è stato circoscritto ai provvedimenti riguardanti “gli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose” o persone comunque collegate alle consorterie mafiose;
b) il campione finale è costituito da 67 provvedimenti di confisca.
C) Sono stati inoltre richiesti i dati, poi elaborati, concernenti i flussi dei procedimenti penali, relativi al periodo 2000-2015, delle Procure distrettuali. Per le ragioni già esposte, non avendo ottenuto i dati di tutte le procure distrettuali, la ricerca ha concentrato la sua attenzione sulle procure – oltre che di Milano – di Roma, Napoli, Reggio Calabria e Palermo. Non sempre è stato possibile ottenere dati omogenei e comparabili: sul punto si rinvia alla “Premessa”, Capitolo V, Sezione II.
Tutte le informazioni ricavate dall’analisi dei fascicoli sono state fatte confluire su un database.
Esso si divide in quattro sezioni:
– la prima è dedicata alla registrazione delle caratteristiche del procedimento esaminato nella sua interezza, prendendo ad esempio in esame quali associazioni siano coinvolte o con quali modalità di intimidazione abbiano operato;
– la seconda è dedicata alle persone che compaiono nei procedimenti esaminati e comprende le caratteristiche proprie delle persone indagate (i dati anagrafici, l’attività svolta, l’eventuale ruolo all’interno dell’associazione criminale, ecc.);
– la terza ha a oggetto la responsabilità degli enti ex d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231;
– la quarta riguarda l’iter processuale di ogni singolo reato contestato ai soggetti coinvolti nel procedimento.
Per quel che attiene alla prima parte del database, un fascicolo d’indagine aperto dalla Procura presso il Tribunale di Milano corrisponde ad una riga della “tabella procedimento”.
Per la seconda parte della rilevazione dati, quella inerente ciascun indagato, sono state raccolte informazioni per ciascun soggetto al fine di poterne delineare un profilo il più possibile completo.
Nella terza sezione sono state registrate le informazioni relative alle persone giuridiche coinvolte nei procedimenti.
Nella quarta, infine, si è seguito e tracciato il percorso processuale di ogni capo d’imputazione: dalla contestazione iniziale al giudizio in Cassazione, fino all’irrevocabilità della sentenza di condanna (dove è stato possibile). Ne consegue, pertanto, che la “tabella procedimento” rimanda alla “tabella soggetto” e dunque vi sono tante righe quanti sono i soggetti coinvolti; la “tabella soggetto” rinvia poi alla “tabella reato” e vi si trovano tante righe quanti sono i reati contestati.
Preme rilevare che il lavoro d’indagine non si è limitato alla considerazione dei numeri di registrazioni o alle sentenze.
I primi sono stati solo un punto di partenza per individuare i fascicoli processuali, che sono stati consultati nella loro interezza e, per le parti d’interesse ai fini della ricerca, scannerizzati integralmente, in modo da costituire una banca dati che sarà messa a disposizione dei ricercatori.
È stata poi compiuta una lettura critica della documentazione raccolta, estraendo dalla stessa i dati ritenuti significativi e riversandoli in una scheda elettronica appositamente (e faticosamente) predisposta, grazie anche al prezioso aiuto di collaboratori con professionalità informatiche e statistiche.
È stata in seguito effettuata l’elaborazione dei dati così ottenuti, con l’ausilio di un software specifico, che ha consentito di generare grafici, tabelle, istogrammi, in modo da esporre analiticamente il contenuto – in termini quantitativi – dei fascicoli.
In coerenza con l’obiettivo della ricerca, sono stati privilegiati i dati relativi alle attività economiche, intese in senso ampio. Questo sia per quanto riguarda i procedimenti e i processi penali ordinari, ove particolare attenzione è stata riservata all’attività dei soggetti coinvolti e all’ambito economico in cui, di volta in volta, ha operato l’organizzazione criminale, quanto per i decreti emessi dal Tribunale di Prevenzione. In quest’ultimo caso l’attenzione, come detto, è stata concentrata sulle misure di natura patrimoniale e sui provvedimenti che hanno disposto l’“amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche”, ai sensi dell’art. 34 del “codice antimafia” (d.lgs. n. 159/2011).
Si precisa che tutte le qualificazioni, aggettivazioni, individuazioni sono ricavate direttamente dai provvedimenti giudiziari. Il gruppo di ricerca non ha apportato modifiche né ha compiuto interpretazioni autonome dei dati così come rilevati. Le aggregazioni e le disaggregazioni sono di natura puramente statistica.
2.5. In termini operativi, l’attività di ricerca empirica svolta sui fascicoli del Tribunale di Milano è stata preceduta da numerosi altri passaggi.
Oltre alla raccolta e all’esame della bibliografia disponibile, sono state individuate e selezionate le statistiche Istat ufficiali, relative alla criminalità, alla delittuosità e alle condanne irrevocabili.
Era stato assunto il dato della criminalità e della delittuosità nazionale rapportandolo a quello riguardante l’art. 416-bis c.p. e, come mero punto di riferimento di comportamenti criminali violenti, a quello dell’omicidio volontario.
Le statistiche Istat avevano inoltre offerto la possibilità di inserire anche il confronto con gli omicidi volontari che sono stati rintracciati nelle denunce e in queste qualificati di “tipo mafioso”.
L’indagine statistica era stata estesa ad alcune regioni, singolarmente considerate e tra loro confrontate: la Lombardia, regione assunta quale particolarmente significativa per la conoscenza dell’infiltrazione mafiosa; Campania, Sicilia e Calabria, quali regioni di radicamento originario delle organizzazioni criminali.
Si è usato il verbo all’imperfetto nel descrivere la predetta attività, poiché non è stato possibile completare l’indagine sui dati Istat per tutto l’arco temporale considerato. Anzi, essendo in corso un cambiamento radicale dell’elaborazione delle statistiche da parte dell’Istat, non è al momento possibile accedere a un complesso di dati omogeneo e aggiornato riguardo alla criminalità e alla delittuosità. Pertanto, questa parte della ricerca è stata purtroppo espunta dalla presente versione.
2.6. Sono state poi considerate le relazioni della Divisione Investigativa Antimafia (DIA), ricavando da esse spunti interessanti ai fini della ricognizione del fenomeno dell’infiltrazione mafiosa al Nord.
2.7. Negli ultimi mesi la ricerca è stata completata e aggiornata con la raccolta di nuove informazioni e con il perfezionamento metodologico degli strumenti d’analisi.
Grazie alla collaborazione della DDA, è stato possibile completare l’analisi dei 105 procedimenti che costituiscono il campione esaminato. Il completamento è consistito, in particolare, nella rilevazione dell’iter processuale completo delle persone originariamente sottoposte a indagini.
Questa integrazione ha arricchito le analisi in precedenza elaborate, essendo state acquisite informazioni che ora consentono di seguire i processi in tutti i gradi di giudizio, fino all’irrevocabilità della sentenza.
In tal modo è stato completato, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, il c.d. imbuto che ricostruisce l’evoluzione del procedimento: dall’iscrizione nel registro degli indagati fino all’esito del ricorso alla Corte di Cassazione.
Da un diverso, complementare punto di vista, è stata ridotta al minimo la percentuale dei dati “non ricostruibili” e affinata l’analisi delle categorie generiche, fornendo in questo modo un quadro più dettagliato possibile: ne è esempio l’elaborazione riguardante l’attività professionale delle persone indagate per l’art. 416-bis c.p. Ci si è concentrati sui casi in cui le persone svolgevano attività imprenditoriale.
Sono state, inoltre, elaborate le informazioni relative ai reati aggravati dall’art. 7, d.l. n. 152/1991. È dunque possibile ricostruire l’evoluzione e gli esiti dell’aggravante dalla contestazione in sede d’indagini preliminari all’applicazione da parte del giudice, durante ogni fase del procedimento. Ciò consente di stabilire quali siano le tipologie di reato e le categorie di soggetti riguardo alle quali l’aggravante del metodo mafioso è stata contestata e applicata con maggior frequenza.
Le informazioni acquisite hanno permesso di realizzare numerose correlazioni, che evidenziano, ad esempio: i rapporti tra i ruoli ricoperti all’interno dell’associazione mafiosa dalle persone indagate, l’età e le attività professionali svolte o le ipotesi di reato-scopo contestate in concorso con l’art. 416-bis c.p. e il tipo di organizzazione criminale.
Tra gli approfondimenti volti a conoscere meglio il quadro generale delle indagini sull’infiltrazione mafiosa nell’attività d’impresa, un prezioso apporto è stato fornito dalle interviste che il gruppo di ricerca ha svolto con magistrati e forze dell’ordine.
Le interviste (semi-strutturate) sono avvenute con la dottoressa Ilda Boccassini, procuratore aggiunto presso il Tribunale di Milano, coordinatrice della DDA (2 ottobre 2014); il dottor Paolo Storari, sostituto procuratore presso il Tribunale di Milano (11 settembre 2014); la dottoressa Alessandra Dolci, sostituto procuratore presso il Tribunale di Milano (20 ottobre 2014); la dottoressa Giuliana Merola, già Presidente della Sezione Misure di Prevenzione presso il Tribunale di Milano (29 settembre 2014); la dottoressa Maria Luisa Balzarotti, giudice penale presso il Tribunale di Milano (13 febbraio 2015); il dottor Fabio Roia, Presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano (25 settembre 2014); il dottor Alberto Nosenzo, al tempo dell’intervista giudice della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano (30 settembre 2014); il dottor Giuseppe Gennari, al tempo dell’intervista giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano (22 settembre 2014); il dottor Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica di Roma, e dottor Michele Prestipino, procuratore aggiunto presso il Tribunale di Roma (29 gennaio 2015); il Tenente Colonnello Giovanni Sozzo, Comandante del Reparto Anticrimine di Milano, Raggruppamento Operativo Speciale Carabinieri (24 settembre 2014); il dottor Alessandro Giuliano, all’epoca dell’intervista Dirigente della Squadra Mobile di Milano (25 settembre 2014); il Colonnello Alfonso di Vito, Direzione Investigativa Antimafia, Capo centro operativo di Milano e il Tenente Colonnello Michele Randolfi, dello stesso Centro (9 ottobre 2014); il Tenente Colonnello Alessio Carparelli, Comandante del Nucleo Investigativo di Milano (22 settembre 2014).
Ci si limita a osservare che tutti gli intervistati, seppure con diversità di accenti, hanno riconosciuto nei risultati della ricerca un’immagine attendibile del fenomeno, rispetto alla loro esperienza.
2.8. Tutti i ricercatori sono pienamente consapevoli della limitatezza – non fosse altro di tipo territoriale – di assumere l’osservatorio indicato, ossia costituito dai provvedimenti generati dall’attività d’indagine della DDA di Milano.
Se il territorio del distretto di Milano costituisce un ambito di grande interesse, per la sua importanza economica e per la rete di imprese presenti, non vi è dubbio che sarebbe stato opportuno estendere la ricerca agli altri distretti della Lombardia e, più in generale, al Nord dell’Italia.
Le ragioni della limitazione sono banali.
Ben altre risorse, purtroppo non disponibili, sarebbero state necessarie per allargare il campo di indagine ad altre regioni ugualmente significative, quali, almeno la Liguria, il Piemonte e l’Emilia-Romagna.
Per completezza si aggiunge che tra gli obiettivi originari della ricerca vi era quello di esaminare l’attività della Prefettura di Milano, nell’arco temporale assunto. Sfortunatamente ciò non è stato possibile.
3. Alcune riflessioni conclusive
Il gruppo di ricerca è consapevole che il lavoro realizzato costituisce soltanto un parziale contributo alla conoscenza del fenomeno, essendo limitato dal fatto di essere condotto sui provvedimenti giudiziari accessibili dell’Autorità Giudiziaria di Milano, in un determinato arco temporale.
3.1. Ne deriva, ovviamente, che l’indagine ha riguardato fatti oggetto d’indagine o di giudizio nel periodo 2000-2015, e che quindi si tratta di fatti compiuti, in grande prevalenza, in anni precedenti, come mostra anche l’analisi dei tempi processuali.
La fotografia che emerge è quindi inesorabilmente datata e retrospettiva, ci offre l’immagine – o tratti d’immagine – di fenomeni avvenuti nel passato, rispetto ai quali è possibile e plausibile che possono essere attualmente non più presenti con la stessa intensità o frequenza o essere affiancati da altre forme di infiltrazione, probabilmente più insidiose e minacciose.
Questa sfasatura temporale è diretta conseguenza di aver assunto come terreno d’indagine quello costituito dai provvedimenti giudiziari, che vedono solo una parte del fenomeno, quella finita sotto indagine e per la quale sono state raccolte prove sufficienti al giudizio (salvo quanto si dirà per le misure di prevenzione).
L’attività della Magistratura costituisce però, a nostro avviso, una parte essenziale e irrinunciabile per la conoscenza del fenomeno, anche perché l’analisi della stessa consente di misurare l’entità e i risultati dell’attività di contrasto più avanzata e penetrante. È impossibile, come ben sanno gli studiosi della “cifra oscura” dei reati, ossia quelli che non emergono, stabilire un ipotetico confronto tra l’estensione reale dell’infiltrazione mafiosa con quanto accertato giudizialmente o oggetto di provvedimento di prevenzione. Di questo sono ben consapevoli i magistrati e le forze dell’ordine, che sanno di vedere solo la punta del tradizionale iceberg, non solo in termini quantitativi, ma anche quanto a ramificazione delle attività e diversificazione delle stesse.
Il fatto, ad esempio, che pressoché la totalità delle attività economiche in cui è stata accertata l’infiltrazione sia a basso contenuto tecnologico (come l’edilizia e lavori connessi) non esclude per nulla che vi siano attività diverse, più raffinate, e parimenti contaminate. Vi sono problemi di accertamento di notevole spessore, poiché le attività di riciclaggio o le attività finanziarie sono assai meno visibili di quelle tradizionali, fisiche e ingombranti. Al momento, se ne può intuire la presenza, sia per l’esigenza di riciclare i proventi del traffico degli stupefacenti, sia perché sovente affiorano notizie di condizionamenti e metodi mafiosi applicati per infiltrarsi in gangli nevralgici della Pubblica Amministrazione, prediligendo, ovviamente, quelli in cui transitano cospicue risorse economiche, come la sanità.
Ciò appare tanto più plausibile, specie riguardo all’immediato futuro, rilevando che l’associazione assolutamente predominante – la ’ndrangheta – ha mostrato capacità di adattamento che le ha consentito di aggredire i territori dell’hinterland milanese, nei quali era presente fin dagli anni Settanta, dimostrandosi pronta ad assumere elasticamente forme diverse, adeguate all’ambiente, pur conservando tenaci legami, oltre che familiari, con le basi di origine in Calabria. Su questo punto, si è registrata la convergenza di opinioni di tutti gli intervistati, magistrati e forze operative, che hanno riconosciuto una capacità di trasformazione delle organizzazioni ’ndranghetiste in grado di adattarsi alle specifiche esigenze poste dalla natura dell’attività e dall’ambiente. Senza peraltro rinunciare in nulla al complesso di pseudo-valori che ha da sempre guidato l’organizzazione originaria.
Un cenno merita il ricorso, sempre più incisivo e diffuso, alle misure di prevenzione, specie patrimoniali, mentre l’apporto della disciplina del d.lgs n. 231/2001, oltre ad essere statisticamente irrilevante, è sovente giudicato infecondo[5].
Si tocca qui un tema che dovrebbe essere ripreso e approfondito, sia per una verifica degli sviluppi che si preannunciano sul versante giudiziario, sia per il tema delle garanzie.
Dalle interviste ai magistrati[6] è apparso chiaro che la via delle misure di prevenzione è privilegiata in quei casi nei quali le prove raccolte non appaiono sufficienti, nella strategia scelta dal Pubblico Ministero, a reggere in giudizio. Si ricorre, in questi casi, all’ampio settore delle misure di prevenzione che esigono standard probatori assai meno stringenti e ottengono il risultato, più celere, di neutralizzare persone e soprattutto ricchezze, congelandole. Che poi queste siano effettivamente rimesse in circolazione a scopi sociali o produttivi è altro e ben più delicato tema.
È uno scenario che, a fronte di un risultato processuale raggiunto in tempi brevi, pone indubbiamente alla comunità dei penalisti più di un motivo di preoccupata riflessione quale conseguenza della compressione delle garanzie, accentuate dal fatto che le misure di prevenzione stanno estendendo il loro campo anche al di fuori della criminalità organizzata per raggiungere forme tipiche della criminalità economica. Tema che ovviamente qui, come gli altri prima toccati, può essere solo enunciato. Altri ne discuteranno.
Per finire queste brevi considerazioni, nelle reazioni dei magistrati intervistati dopo la lettura della ricerca (seppure in un’edizione precedente), è stata unanime l’opinione che la fattispecie descritta dall’art. 416-bis c.p. sia ancora uno strumento utilissimo e sia quindi meglio non intervenire apportandovi modifiche. La norma appare in grado di fronteggiare adeguatamente i nuovi fenomeni, rivelando una felicità d’ispirazione originaria, mentre qualche perplessità è stata registrata solo rispetto al meccanismo del concorso esterno.
3.2. Alcuni collaboratori facenti parte del gruppo di ricerca hanno elaborato riflessioni su temi cruciali, che sono emersi nitidamente nello svolgimento dell’indagine e nelle discussioni preparatorie.
Si tratta di contributi a che gravitano su questioni presenti nella letteratura penalistica e criminologica, che qui hanno potuto contare su un fecondo confronto con i risultati della ricerca, dei quali non sono però da considerare commenti in senso stretto.
3.3. Quello che si presenta oggi è il frutto di un lavoro faticoso, lungo, accidentato. Molte sono state le pause forzate, in attesa di permessi, di dati, di risposte. Molte le difficoltà ad avere le informazioni necessarie e talora queste difficoltà si sono tradotte in una carenza di informazioni. Tutto ciò indipendentemente dalla disponibilità personale degli interlocutori, ma per strozzature burocratiche o limitatezze organizzative e di risorse.
Consapevole dei suoi limiti, l’elaborazione ora offerta alla comunità degli studiosi è considerata dal gruppo di ricerca solo una fase dell’indagine, un work in progress, che si vorrebbe poter integrare, arricchire e migliorare, oltre che eliminarne gli inevitabili errori.
Ci si augura che i dati ora messi a disposizione possano essere di una qualche utilità per la comunità dei ricercatori, anche per proseguire lungo il cammino che è stato ora percorso.
[1] Una sintesi della ricerca è stata pubblicata on line sulla Rivista di Studi e Ricerche sulla criminalità organizzata, grazie alla cortese disponibilità del prof. Nando dalla Chiesa (reperibile sul sito http://riviste.unimi.it/index.php/cross/index).
[2] A. Alessandri (a cura di), Un’indagine empirica presso il Tribunale di Milano: le false comunicazioni sociali, Giuffrè, Milano, 2011.
[3] Norma inserita dalla l. n. 646/1982 (c.d. Rognoni La Torre), più volta modificata, da ultimo con la l. n. 69/2015.
[4] Art. 7, d.l. 13 maggio 1991, n. 203, convertito, con modificazioni, nella l. 12 luglio 1991, n. 203: “1. Per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà. 2. Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’articolo 98 del codice penale, concorrenti con l’aggravante di cui al comma 1 non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante”.
[5] Così il dottor Paolo Storari, nell’intervista citata.
[6] Così Alessandra Dolci, Paolo Storari, Alberto Nosenzo, Fabio Roia, nelle interviste citate.