5 ottobre 2015 |
I giudici di legittimità ancora alle prese con la "mafia silente" al nord: dicono di pensarla allo stesso modo, ma non è così
Osservazioni su Cass., sez. V pen., 3 marzo 2015 (dep. 21 luglio 2015), n. 31666, Pres. Lapalorcia, Rel. Bruno, Imp. Bandiera e a. (sul processo c.d. "Alba Chiara") e Cass., sez. II pen. 21-30 aprile 2015 (dep. 4 agosto 2015), n. 34147, Pres. Esposito, Est. Beltrani, Imp. Agostino e a. (sul processo c.d. "Infinito")
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Per scaricare la sentenza relativa al processo "Infinito" (sulla quale cfr. anche A. Esposito, Ritornare ai fatti. La materia del contendere quale nodo narrativo del romanzo giudiziario, in questa Rivista, 2 ottobre 2015), clicca qui.
1. Con il recente deposito delle motivazioni di due importanti sentenze della Cassazione che hanno chiuso i rispettivi processi celebrati a Torino ("Alba chiara") e a Milano ("Infinito") nei confronti di decine di imputati accusati di far parte di associazioni di tipo mafioso di matrice 'ndranghetista, lo scenario giurisprudenziale sul tema si arricchisce di un ulteriore capitolo problematico.
Come rilevato altrove (C. Visconti, Mafie straniere e 'ndrangheta al nord. Una sfida alla tenuta dell'art. 416 bis c.p.?, in questa Dir. pen. cont. - Riv. trim., n. 1, 2015, 357 e ss) la giurisprudenza formatasi in materia di 416 bis c.p. nell'ambito specifico della repressione delle "mafie al nord" ha dato vita a orientamenti non poco differenziati e - per dir così - "fotografati" dalla stessa prassi, tanto che una sezione della Cassazione aveva provato soltanto qualche mese addietro a sollecitare un intervento delle sezioni unite per dirimere il contrasto (Cass., sez. II pen., ord. 25 marzo 2015, 815, Pres. Petta, Rel. Rago, imp. Nesci). Dal canto suo, il Primo presidente della Corte, con provvedimento del 28 aprile 2015, ha deciso di non avallare tale richiesta, ritenendo che in realtà il contrasto evidenziato non fosse così rilevante e comunque ricomponibile senza l'intervento delle sezioni unite.
La lettura delle motivazioni delle sentenze in questione, tuttavia, fa ritenere l'esatto contrario: al di là delle "rime obbligate" adoperate dai giudici di legittimità, infatti, il contrasto sussiste, eccome. A meno che non si voglia ritenere plausibile che il delitto di associazione mafiosa debba esibire una fisionomia sostanziale di volta in volta diversa a seconda della tipologia criminale presa in considerazione o addirittura in relazione al contesto territoriale ove trova applicazione.
Ma qual è il punto diviso? In sintesi: mentre alcuni orientamenti ritengono sufficiente per integrare gli estremi dell'art. 416 bis c.p. la prova che il sodalizio presenti evidenti connotati di "mafiosità" sul piano organizzativo "interno", in particolare quando il gruppo criminale risulta insediato in aree di non tradizionale radicamento mafioso; altri, invece, considerano ineludibile in ogni caso anche la prova dell'esteriorizzazione del "metodo mafioso", quale riflesso dell'avvalersi "della forza di intimidazione del vincolo associativo e dell'assoggettamento e omertà che ne deriva" postulato dal terzo comma del medesimo articolo.
2. Procediamo con ordine, prendendo le mosse dal provvedimento del Primo presidente della Corte di cassazione e in particolare dalla ricognizione ivi operata dei principi di diritto ritenuti indiscussi e indiscutibili nella giurisprudenza di legittimità. Ora, all'esito di tale ricognizione, il Primo presidente prende atto che "il panorama giurisprudenziale complessivamente considerato sembra convergere nell'affermazione di principio secondo cui l'integrazione della fattispecie di associazione di tipo mafioso implica che un sodalizio criminale sia in grado di sprigionare, per il sol fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obbiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti".
Riassumendo con alcune parole chiave: per integrare il tipo criminoso descritto nell'art. 416 bis c.p., secondo il vertice della Cassazione, occorre accertare in capo al sodalizio una capacità di intimidazione "effettiva e attuale", nonché "obbiettivamente riscontrabile" e in grado di "piegare la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti".
Viene da sé che un simile approccio si iscrive nel solco dell'orientamento meno estensivo sul piano applicativo, e più fedele alla lettera della legge quanto alla ricostruzione ermeneutica dei requisiti oggettivi della fattispecie criminosa. In termini teorici, esso si colloca nell'alveo di un robusto e condivisibile orientamento dottrinale che tende a configurare il delitto di associazione di tipo mafioso quale reato associativo "a struttura mista", ossia bisognoso per il suo perfezionamento di un quid pluris rispetto al solo dato organizzativo pluripersonale, elemento aggiuntivo identificato, appunto, nel concreto riscontro di un dispiegarsi effettivo della forza di intimidazione; con ciò segnando una marcata differenza dal modello di reato associativo "puro", suscettibile di perfezionarsi alla sola presenza di un'organizzazione diretta a commettere reati.
3. La prima sconfessione del tranquillizzante approccio del Primo Presidente arriva dalla sentenza della sezione V nel processo "Alba Chiara". I giudici di legittimità, infatti, dopo aver delineato in seno alla giurisprudenza più recente della Cassazione i contorni di un "contrasto - all'apparenza evidente" - lo ritengono in realtà superabile grazie - tra l'altro - a una doverosa "puntualizzazione delle precondizioni fattuali del relativo ragionamento". E così, secondo il collegio, occorre distinguere a monte due ben distinti fenomeni criminali. Un conto è aver di fronte una "neoformazione delinquenziale" che "si proponga di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche"; altro conto è se si tratta di giudicare una "mera articolazione di tradizionale organizzazione mafiosa, in stretto rapporto di dipendenza o, comunque, in collegamento funzionale con la casa madre".
Nel primo caso, affermano i giudici, risulta "imprescindibile la verifica la verifica in concreto dei presupposti costitutivi della fattispecie di reato di cui all'art. 416 bis c.p. (...). Così, è assolutamente necessario che si accerti se la neoformazione delinquenziale si sia già proposta nell'ambiente circostante, ingenerando quel clima generale di soggezione"; e ciò perché, soggiunge la Corte, "è sin troppo palese per via della forza semantica della locuzione 'si avvalgono' (...) che il metodo mafioso debba essersi manifestato all'esterno producendo nell'ambiente circostante, in termini di causa ed effetto, la condizione di assoggettamento e omertà".
Nel secondo caso, invece, una volta accertato che l'organizzazione criminale costituisca una effettiva articolazione territoriale insediatasi fuori dai confini tradizionali di una sodalizio mafioso radicato e operativo nel territorio d'origine, diventerebbe un "fuor d'opera" pretendere che in una "simile caratterizzazione delinquenziale (...) sia necessaria la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento e omertà"; piuttosto, soggiunge la Corte, in tali frangenti "il baricentro della prova deve spostarsi sui caratteri precipui della formazione associativa" sbarcata in aree non tradizionali e, soprattutto, sul suo "collegamento esistente - se esistente - con l'organizzazione di base" operante nella regione di provenienza, visto che "l'impatto oppressivo sull'ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo" da quest'ultima consorteria. E con specifico riferimento al caso di specie scrutinato, i giudici di legittimità concludono in un modo che tradisce senza veli la valutazione di politica criminale o giudiziaria tout court che ha ispirato la decisione: "può senz'altro ritenersi che, una volta raggiunta la prova dei connotati distintivi della 'ndrangheta e del collegamento con la casa madre, la nuova formazione associativa sia, già in sé, pericolosa per l'ordine pubblico, indipendentemente dalla manifestazione di forza intimidatrice nel contesto ambientale in cui è radicata. I singoli partecipanti, che erano, di certo, ben consapevoli di non aderire ad un circolo ricreativo o ad un'associazione no-profit, sono stati giustamente chiamati a rispondere del reato di cui all'art. 416 bis c.p.".
Così riassunta la posizione della Corte, è facile rilevare che si tratta di un'impostazione incompatibile con quanto asseverato nel provvedimento del Primo presidente della Cassazione. Né può smorzare tale incompatibilità la scelta di riservare esclusivamente questa sorta di trattamento differenziato in punto di diritto al sotto-tipo criminologico individuato dai giudici di legittimità, ossia alla "neoformazione associativa" insediata in area non tradizionale che però vanti una filiazione diretta con una "casa madre" di tipo mafioso ben radicata nel territorio d'origine. Singolare, infatti, propugnare una fisionomia del delitto di associazione mafiosa "a geometria variabile", i cui requisiti sostanziali mutano in relazione al luogo di applicazione della norma e alla tipologia criminale oggetto di giudizio: una versione - per dir così - light del reato, cioè alleggerita dall'onere di provare un effettivo e non solo potenziale "avvalersi della forza di intimidazione" per le neoformazioni mafiose "in trasferta"; una versione, invece, "integrale" e quindi più impegnativa probatoriamente per le altre neoformazioni sfornite di patronage mafioso "D.O.C.", visto che gli stessi giudici riconoscono l'inequivoca "forza semantica" del termine legislativo "si avvalgono" contenuto nel 3° comma dell'art. 416 bis c.p. che richiama la necessità di avere un preciso riscontro dell'impatto ambientale determinato dal metodo mafioso.
4. La seconda sconfessione arriva dall'altra sentenza qui in commento, quella che ha chiuso il processo "Infinito" celebrato a Milano. La sezione II della Corte, infatti, se per un verso ripropone, con qualche superflua variazione rispetto ai precedenti specifici, il principio di diritto a detta del quale "nel caso in cui un'associazione di tipo mafioso (nella specie, la 'ndrangheta) costituisca in Italia od all'estero una propria diramazione" affinché quest'ultima integri la fattispecie incriminatrice "è necessario che essa sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva, ed obbiettivamente riscontrabile"; per altro verso, ha cura di precisare che "detta capacità di intimidazione potrà, in concreto, promanare dalla diffusa consapevolezza del collegamento con l'associazione principale, oppure dall'esteriorizzazione in loco di condotte integranti gli elementi previsti dall'art. 416 bis c.p.".
A bene vedere, dunque, ci troviamo di fronte a un'apparente adesione all'orientamento che configura il delitto di associazione mafiosa alla stregua di un reato associativo a struttura mista. La Corte, infatti, richiede un "obbiettivo riscontro" di una "capacità intimidatoria" effettiva e non solo potenziale, ma poi mette sulle stesso piano due situazioni inconciliabili quali contesti integranti tale requisito oggettivo, ossia il caso del sodalizio che "esteriorizza in loco" la forza di intimidazione e quello del tutto diverso in cui quest'ultima invece "promana dalla diffusa consapevolezza del collegamento con la casa madre". Il che, davvero, non è logicamente plausibile: il riscontro obbiettivo di un'effettiva capacità intimidatrice in capo al sodalizio, se sganciato da una verifica incentrata su forme di "esteriorizzazione" del metodo mafioso nell'ambiente ove opera, si rivela vuoto di contenuti, un mero affidarsi a presunzioni, a congetture, anche spericolate quando - come fa la Corte - si fa ricorso addirittura a una non meglio precisata "diffusa consapevolezza del collegamento con l'associazione principale". E invero viene da chiedersi: "diffusa" dove? Come? Tra chi? Insomma, si tratta di un consapevole e mal riuscito tentativo di tenere insieme due ricostruzioni ermeneutiche del delitto di associazione di tipo mafioso tra loro antitetiche: quella, si ribadisce, frutto di una consolidata tradizione giurisprudenziale che in ogni caso richiede una forma di "esteriorizzazione obbiettivamente riscontrabile" del metodo mafioso per integrare il reato; l'altra, al contrario, inclinante verso la concezione di reato associativo "puro" che si accontenta del dato organizzativo, seppur in tal caso qualificato dalla "mafiosità" dei soggetti coinvolti.
5. Ma che le due sentenze fin qui criticate costituiscano un vero e proprio revirement giurisprudenziale sotto le mentite spoglie di asseriti piccoli aggiustamenti ermeneutici, lo testimoniano due sentenze sempre della Cassazione depositate soltanto qualche mese prima e riguardanti analogamente vicende giudiziarie, rispettivamente, torinesi e milanesi.
La prima (Cass., sez. II pen., 23 febbraio 2015 (dep. 14 aprile 2015), n. 15412, Pres. Esposito, Rel. Manna, Imp. Agresta e a.), pur confermando le decisioni di condanna inflitte nel merito nel processo c.d. "Minotauro" celebratosi a Torino, non condivide del tutto il costrutto giuridico proposto dai giudici inferiori proprio sulla questione controversa fin qui discussa, in particolare ritenendo non corretto congedarsi da un modello ricostruttivo dei requisiti sostanziali del delitto di associazione mafiosa che faccia perno nulla necessità di riscontrare una obbiettiva "esteriorizzazione" della forza di intimidazione. In tale cornice, i giudici di legittimità si spingono ad osservare che allora "meglio sarebbe ridefinire la nozione di cd. mafia silente non già come associazione criminale aliena dal cd. metodo mafioso o solo potenzialmente disposta a farvi ricorso, bensì come sodalizio che tale metodo adopera in modo silente, cioè senza ricorrere a forme eclatanti (come omicidi e/o attentati di tipo stragistico), ma pur sempre avvalendosi di quella forma di intimidazione - per certi aspetti ancora più temibile - che deriva dal non detto, dall'accennato, dal sussurrato, dall'evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere".
La seconda sentenza (Cass., sez. VI pen., 22 gennaio 2015 (dep. 4 maggio 2015), n. 18459, Pres. Conti, Rel. Di Salvo, Imp. Barbaro e a.) stavolta annulla con rinvio (peraltro dopo un primo annullamento) una decisione di condanna per associazione mafiosa pronunziata dai giudici milanesi nel processo cd. "Cerberus", proprio facendo leva su un doppio registro, sostanziale e probatorio. Per un verso, infatti, la Corte ribadisce che l'elemento a carattere oggettivo che differenzia in termini "specializzanti" il delitto di associazione mafiosa dall'associazione per delinquere semplice risiede nel "metodo utilizzato, consistente nell'avvalersi della forza intimidatrice che promana dalla stessa esistenza dell'organizzazione, alla quale corrisponde un diffuso assoggettamento nell'ambiente sociale e dunque una situazione di generale omertà. L'associazione si assicura così la possibilità di commettere impunemente più delitti e di acquisire o conservare il controllo di attività economiche private o pubbliche, determinando una situazione di pericolo per l'ordine pubblico economico La situazione di omertà deve ricollegarsi essenzialmente alla forza intimidatrice dell'associazione. Se essa è invece indotta da altri fattori, si avrà l'associazione per delinquere semplice". Per altro verso, i giudici di legittimità tornano a rimproverare i giudici del merito per non aver fornito "congrua risposta" ai quesiti posti dalla prima pronunzia di annullamento: in estrema sintesi, si trattava di dimostrare il nesso causale tra la diffusa condizione di assoggettamento e omertà, pur registrata in un determinato ambito territoriale o settore economico, e una vera e propria "esteriorizzazione" del metodo mafioso direttamente riconducibile agli imputati.
Com'è agevole avvedersi, qui la Corte ripropone a tutto tondo l'impianto ermeneutico più fedele al dettato legislativo: non solo occorre registrare un "impatto ambientale" in termini di diffusa soggezione e omertà, ma quest'ultimo dato empirico va ricondotto a precise forme di "avvalimento" della forza di intimidazione del vincolo associativo da parte degli imputati.
6. In conclusione: il contrasto giurisprudenziale in seno alla Corte di cassazione è evidente e permane, nonostante l'autorevole opinione contraria espressa dal Primo Presidente della Cassazione. Applicare il delitto di associazione mafiosa laddove vi sarebbero al più gli estremi per contestare l'associazione per delinquere semplice non può considerarsi un problema di poco conto, magari da tenere "in sordina" per non ostacolare le repressione delle mafie al nord. Spiace doverlo ricordare, ma il rispetto della legalità penale significa anche che "la legge è uguale per tutti", a prescindere dai "tipi d'autore" e dai contesti geografici.