ISSN 2039-1676


23 ottobre 2017 |

Sugli effetti intertemporali della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma che abroga una precedente incriminazione

Cass. pen., sez. I, sent. 22 settembre 2016 (dep. 18 maggio 2017), n. 24834, Pres. Vecchio, Est. Talerico, Ric. Proc. Bergamo in c. Augussori e a.

Contributo pubblicato nel Fascicolo 10/2017

1. La sentenza qui pubblicata ha ad oggetto l’interessante questione se il principio della necessaria retroattività della lex mitior, così come declinato a livello di legislazione ordinaria dall’art. 2 co. 2 c.p., si applichi anche all’ipotesi in cui il venir meno del reato dipenda da una legge abrogativa poi dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale. La prima sezione della Cassazione risponde affermativamente, con motivazioni che chi scrive ritiene tuttavia non persuasive.

 

2. Nel caso di specie, il pubblico ministero aveva richiesto il rinvio a giudizio di numerose persone imputate di avere partecipato a un’associazione di carattere militare con scopi politici, denominata “camicie verdi”: condotta punita, all’epoca dei fatti, dall’art. 1 del d.lgs. n. 43/1948. La disposizione penale in questione era stata nel frattempo abrogata dall’art. 1 del d.lgs. n. 231/2010, il quale era però stato dichiarato incostituzionale dalla sent. n. 5/2014 della Corte costituzionale[1]: sentenza il cui effetto era stato, dunque, quello di far rivivere la norma incriminatrice in questione.

All’udienza preliminare, celebratasi a valle della sentenza della Consulta, il giudice disponeva comunque il non luogo a procedere, ritenendo che agli imputati dovesse applicarsi il disposto dell’art. 2 co. 2 c.p., a tenore del quale “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato”, a nulla rilevando che la legge posteriore in questione fosse stata nel frattempo dichiarata incostituzionale.

 

3. La Cassazione, investita del ricorso della pubblica accusa, passa anzitutto dettagliatamente in rassegna la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di retroattività della lex mitior, concludendo nel senso che la Consulta ha sì gradatamente riconosciuto il proprio sindacato anche su norme penali di favore, con conseguente possibilità di un ampliamento dell’area della penale rilevanza (o comunque di inasprimento del trattamento sanzionatorio già previsto) per effetto di sentenze di accoglimento; ma non ha mai deciso la questione se la norma di favore espunta dall’ordinamento per effetto di tali sentenze possa o meno produrre effetti nei confronti dell’imputato nel procedimento a quo che abbia commesso il fatto prima dell’entrata in vigore della norma dichiarata illegittima.

Trovandosi dunque per la prima volta a risolvere in via interpretativa la questione in parola, la Cassazione rileva come sia assolutamente pacifico, in dottrina e in giurisprudenza, che l’eventuale ablazione della norma di favore dal parte della Corte costituzionale non possa ripercuotersi negativamente sulla posizione dell’imputato il quale abbia commesso il fatto nel vigore della norma dichiarata incostituzionale, dal momento che l’applicazione nei suoi confronti della norma più sfavorevole ‘risuscitata’ a seguito della sentenza della Corte costituzionale si risolverebbe in sostanza in una applicazione retroattiva, nei suoi confronti, di una legge penale non più in vigore al momento della condotta.

Analoghe considerazioni dovrebbero però valere, secondo la Cassazione, anche rispetto ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della norma poi dichiarata incostituzionale, la quale è pur sempre intervenuta nella realtà giuridica determinando una abolizione del reato precedentemente in vigore, con gli effetti stabiliti in via generale dall’art. 2 co. 2 c.p.; senza che possa in senso contrario argomentarsi sulla base della distinzione tra il fenomeno (fisiologico) dell’abrogazione della norma incriminatrice e quello (patologico) della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma recante l’abolitio criminis.

La contraria opinione determinerebbe d’altra parte, secondo la Cassazione, un intollerabile vulnus allo stesso principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., irragionevolmente discriminando tra coloro che abbiano definito la propria posizione nei confronti della potestà punitiva statale nel periodo in cui la norma abolitiva è rimasta in vigore, e coloro che – in base a legittime scelte di strategia processuale – siano ancora sottoposti a processo successivamente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma abolitiva stessa.

Di qui il rigetto del ricorso della pubblica accusa, e la conferma della statuizione liberatoria nei confronti degli imputati, in forza dell’art. 2 co. 2 c.p.

 

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4. La sentenza, dicevo, non convince.

Nella propria lunga analisi della giurisprudenza costituzionale rilevante, la Cassazione riassume estesamente la sent. n. 394/2006, omettendo però di menzionare il seguente passaggio, cruciale ai nostri fini: “il principio di retroattività della norma penale più favorevole in tanto è destinato a trovare applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, di per sé, costituzionalmente legittima. Il nuovo apprezzamento del disvalore del fatto, successivamente operato dal legislatore, può giustificare – in chiave di tutela del principio di eguaglianza – l’estensione a ritroso del trattamento più favorevole, a chi ha commesso il fatto violando scientemente la norma penale più severa, solo a condizione che quella nuova valutazione non contrasti essa stessa con i precetti della Costituzione. La lex mitior deve risultare, in altre parole, validamente emanata: non soltanto sul piano formale della regolarità del procedimento dell'atto legislativo che l’ha introdotta e, in generale, della disciplina delle fonti (v., con riferimento alla mancata conversione di un decreto-legge, sentenza n. 51 del 1985); ma anche sul piano sostanziale del rispetto dei valori espressi dalle norme costituzionali. Altrimenti, non v'è ragione per derogare alla regola sancita dai citati art. 136, primo comma, Cost. e 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953, non potendosi ammettere che una norma costituzionalmente illegittima – rimasta in vigore, in ipotesi, anche per un solo giorno – determini, paradossalmente, l'impunità o l'abbattimento della risposta punitiva, non soltanto per i fatti commessi quel giorno, ma con riferimento a tutti i fatti pregressi, posti in essere nel vigore dell'incriminazione o dell'incriminazione più severa[2].

I principi enunciati dalla Corte costituzionale in quell’occasione sono stati, del resto, già puntualmente applicati dalla giurisprudenza di merito. All’indomani della sent. n. 28/2010, con cui la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittima una norma dalla quale discendeva la non punibilità di fatti previsti come reato al tempo della loro commissione, il giudice di merito che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale ha in effetti dichiarato la prescrizione dei reati addebitati agli imputati, sulla base del presupposto della inoperatività, nei loro confronti, della legge dichiarata incostituzionale, ritenuta inidonea – proprio in quanto espunta dall’ordinamento con efficacia ex tunc dalla sentenza della Corte costituzionale – a determinare un fenomeno di abolitio criminis rilevante ai sensi dell’art. 2 co. 2 c.p.[3]

 

5. Non solo. La Corte di cassazione, nella sentenza qui all’esame, dichiara apoditticamente irrilevante, rispetto al quesito che la occupava, la distinzione tra abrogazione della norma incriminatrice ad opera di una scelta legittima del legislatore, che appartiene alla fisiologia dell’ordinamento, e dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma stessa, che appartiene invece alla patologia dell’ordinamento: distinzione che le Sezioni Unite avevano invece limpidamente enunciato nella sentenza Gatto al precipuo scopo di escludere dall’ambito di applicazione dell’art. 2 c.p. (in quel caso, del suo co. 4) le vicende di successione normativa determinate, appunto, da dichiarazioni di illegittimità costituzionale delle norme succedetesi[4].

Avevano osservato in quell’occasione le Sezioni Unite, in stretta aderenza rispetto ai passaggi essenziali di una lontana ma mai smentita pronuncia della Corte costituzionale: “la declaratoria di illegittimità costituzionale, determinando la cessazione di efficacia delle norme che ne sono oggetto, impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che le norme stesse siano comunque applicabili ad oggetti ai quali sarebbero state applicabili alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo. Il mutamento di disciplina stabilito per motivi di opportunità politica, liberamente valutata dal legislatore, costituisce, pertanto, fenomeno diverso dall’accertamento, ad opera dell’organo a ciò competente, dell’illegittimità costituzionale di una certa disciplina legislativa: in questa seconda ipotesi, a differenza che nella prima, è perfettamente logico che sia vietato a tutti, a cominciare dagli organi giurisdizionali, di assumere le norme dichiarate incostituzionali a canoni di valutazione di qualsivoglia fatto o rapporto, pur se venuto ad essere anteriormente alla pronuncia della Corte (Corte cost., sent. n. 49 del 1970)”.

La sentenza della Cassazione ora analizzata appiattisce invece su di un unico livello valutativo due fenomeni completamente distinti, uno dei quali soltanto determina l’eliminazione radicale, con effetto ex tunc, di una norma dall’ordinamento. Una norma, quella dichiarata incostituzionale, che non v’è alcuna ragione di continuare ad applicare nei confronti di un imputato che abbia commesso il fatto prima della sua stessa entrata in vigore, quando la norma medesima non era in grado di ingenerare alcun legittimo affidamento da parte sua[5].

 

6. D’altra parte, la soluzione alla fine adottata dalla Cassazione risulta del tutto incoerente con la logica dell’ormai risalente sent. n. 51/1985 della Corte costituzionale, che dichiarò illegittimo l’art. 2 c.p. “nella parte in cui rende applicabili le ipotesi da esso previste le disposizioni contenute nei commi secondo e terzo [ora quarto] dello stesso art. 2”, proprio sulla base dell’esigenza di evitare che il potere esecutivo potesse determinare, attraverso un decreto legge, l’impunità di reati in precedenza commessi, anche nell’ipotesi in cui lo stesso decreto legge non fosse poi convertito in legge dal Parlamento. Ciò che non è consentito mediante la decretazione d’urgenza dovrebbe ora – secondo la Cassazione – essere consentito al governo mediante lo strumento del decreto legislativo: anche nell’ipotesi in cui la delega sia esercitata palesemente al di fuori delle condizioni che ne segnano la legittimità.

 

7. Che, poi, negare spazio a un’abolitio criminis in un’ipotesi come quella in esame possa determinare una disparità di trattamento tra coloro che abbiamo la sorte di essere giudicati in via definitiva prima della sentenza di illegittimità costituzionale della norma abrogratrice e coloro che siano giudicati dopo tale sentenza, è un effetto inevitabile della prevalenza, nei confronti dei primi, del diritto (convenzionalmente riconosciuto dall’art. 4 prot. 7 CEDU, e dunque costituzionalmente rilevante ex art. 117 co. 1 Cost.) a non essere sottoposti a un secondo giudizio per lo stesso fatto, rispetto al principio ordinamentale dell’annullamento ex tunc della norma dichiarata incostituzionale (e della sua conseguente inidoneità, in linea di principio, a produrre qualsivoglia effetto a partire dal giorno della dichiarazione di illegittimità: art. 30 co. 3 l. 87/1953). Mutatis mutandis, la situazione è analoga a quella di chi abbia commesso il fatto nel periodo compreso tra l’entrata in vigore della norma abrogratrice e il suo annullamento: nei confronti di costui, il principio di legalità penale (sub specie di necessaria prevedibilità della condanna penale, evidentemente carente nel momento in cui la norma penale sia stata, sia pure illegittimamente, eliminata dall’ordinamento) prevarrà esso pure sul principio dell’effetto retroattivo della dichiarazione di illegittimità costituzionale. Ma né l’una né l’altra conseguenza, derivanti eccezionalmente da una logica di favor per i diritti individuali in gioco rispetto al principio della restaurazione della legalità costituzionale violata dal legislatore ordinario, potranno giustificare, in nome del principio di eguaglianza, ulteriori eccezioni al principio di retroattività della dichiarazione di illegittimità costituzionale, che non siano necessarie al fine di tutelare i diritti fondamentali di chi a) abbia commesso il fatto nel vigore della norma incriminatrice (prima dell’entrata in vigore della norma abrogratrice), ben potendo dunque conoscere la rilevanza penale della propria condotta, e b) non sia ancora stato giudicato in via definitiva prima della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma abrogratrice (e non abbia pertanto maturato alcun diritto al ne bis in idem).

 

8. Né la soluzione del necessario effetto retroattivo della norma di favore dichiarata incostituzionale risulta imposta dalle esigenze di rispetto dell’art. 7 CEDU (e dunque dell’art. 117 co. 1 Cost.): la Corte di Strasburgo, semplicemente, non si è infatti mai confrontata specificamente con il problema, che avrebbe ad avviso di chi scrive meritato  una soluzione diametralmente opposta – e in linea con le chiare indicazioni provenienti dalla stessa giurisprudenza della Cassazione e della Corte costituzionale – da parte della nostra S.C.

 

 


[1] C. cost., 23.1.2014, n. 5, con nota di Scoletta, La sentenza n. 5/2014 della Corte costituzionale: una nuova importante restrizione delle "zone franche" dal sindacato di legittimità nella materia penale, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2/2014, 242 ss.

[2] Considerato in diritto n. 6.4.

[3] Trib. Venezia, sez. dist. di Dolo, 13 maggio 2010, in questa Rivista,  13 maggio 2010.

[4] Cass., Sez. un. pen., 29 maggio 2014 (dep. 14 ottobre 2014) n. 42858, Pres. Santacroce, Rel. Ippolito, ric. Gatto, in questa Rivista, 17 ottobre 2014, con nota di Romeo, Le Sezioni unite sui poteri del giudice di fronte all'esecuzione di pena "incostituzionale". Sulla sentenza, cfr. anche Caianiello, Giudicato costituzionale, processo penale, diritti della persona, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., n. 1/2015 p. 31 ss.

[5] Sul punto, si consenta anche il rinvio a Viganò, Retroattività della legge penale più favorevole, in Il libro dell’anno del diritto, 2012, 156 s. Analoghe conclusioni avevamo raggiunto in un contributo a quattro mani in relazione alle ricadute sul piano intertemporali della sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale in materia di stupefacenti: cfr. Della Bella, Viganò, Sulle ricadute della sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale sull'art. 73 t.u. stup., in questa Rivista, 27 febbraio 2014.