ISSN 2039-1676


21 dicembre 2017 |

La violazione dei diritti umani degli stranieri trattenuti in un C.I.E. (oggi C.P.R.) danneggia l’immagine della comunità territoriale dove la violazione è avvenuta

Tribunale di Bari, Sezione I civile, sent. 31 luglio – 10 agosto 2017, Giud. Potito

Contributo pubblicato nel Fascicolo 12/2017

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1. Con la sentenza qui pubblicata, il Tribunale civile di Bari ha condannato la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Interno a risarcire il danno all’immagine cagionato al Comune e alla Provincia di Bari dalle violazioni dei diritti umani avvenute nel Centro di Identificazione ed Espulsione di Bari-Palese.

Pur trattandosi di giudizio estraneo alla materia penale stricto sensu intesa, le riflessioni che questa sentenza propone attingono assai strettamente la tematica della privazione della libertà personale, per quanto concerne le condizioni di trattenimento dei migranti nelle strutture di identificazione[1], rispetto alle quali da più parti vengono da tempo sollevate gravi censure quanto al rispetto della dignità personale dei migranti trattenuti. Del resto e per le medesime ragioni, questa Rivista si era già interessata alle precedenti fasi di tale giudizio, dando conto in particolare dell’esito di una delle fasi cautelari[2].

Vale la pena, oggi come allora, evidenziare al lettore come l’accertamento del fatto illecito dal quale deriva la condanna al risarcimento del danno giunga in un contesto procedurale e motivazionale che, soprattutto al penalista, potrebbe apparire quantomeno singolare: il Giudice civile è infatti chiamato a verificare le condizioni di trattenimento dei migranti al fine di determinare la presenza di un danno risarcibile, non già in capo a questi ultimi, bensì in relazione alle posizioni soggettive degli Enti locali nei cui territori il trattenimento si è verificato.

 

2. Il giudizio conclusosi con la sentenza qui pubblicata trae origine da un atto di citazione notificato da due avvocati del Foro di Bari i quali, agendo come sostituti processuali del Comune e della Provincia di Bari in forza del combinato disposto degli artt. 81 c.p.c. e 9, co. 1, D.Lgs. 267/2000 (“T.U.E.L.”), hanno chiesto al Tribunale di Bari di accertare la natura carceraria del Centro di Identificazione ed Espulsione (d’ora in poi solo “CIE”) di Bari-Palese, di verificare se la detenzione ivi realizzata “integri condotta materiale lesiva dei diritti universali dell’uomo”, nonché degli standard in proposito previsti dalla normativa interna, dell’UE e della CEDU e, per l’effetto, di ordinare la chiusura o la ristrutturazione del CIE in questione, condannando inoltre la Presidenza del Consiglio, il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Bari al risarcimento del danno cagionato al Comune e alla Provincia di Bari, con particolare riguardo al danno all’immagine degli Enti medesimi.

Il processo si è caratterizzato, come già accennato, per due incidenti cautelari: il primo (ai sensi dell’art. 696 c.p.c.) per l’Accertamento Tecnico Preventivo delle condizioni materiali del centro e il secondo (ai sensi dell’art. 700 c.p.c.) per la chiusura d’urgenza del centro o, in subordine, la ristrutturazione del centro medesimo in modo da far cessare le violazioni dei diritti umani ivi in corso. All’esito del primo giudizio, il perito del Tribunale aveva evidenziato molteplici criticità strutturali del centro di Bari-Palese; nel secondo, oggetto dell’ordinanza già richiamata, il Tribunale aveva escluso la possibilità di ordinare tout court la chiusura del centro, ma aveva ordinato l’esecuzione di alcune importanti migliorie atte a riportare il centro al rispetto dei necessari standard.

Questo secondo giudizio, più in particolare, ha poi avuto un ulteriore seguito, poiché le diverse e dettagliate migliorie che il Tribunale barese aveva ordinato fossero eseguite entro novanta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza non sono in effetti mai avvenute, e gli attori si sono visti costretti a proporre giudizio di ottemperanza ottenendo la nomina di un commissario ad acta.

Già nell’ordinanza che aveva disposto l’accertamento tecnico preventivo, lo stesso Presidente del Tribunale di Bari aveva chiaramente puntualizzato che i CIE “sono da considerare idonei se le strutture, l’organizzazione-gestione della permanenza degli stranieri, l’indice di occupazione siano tali da assicurare a coloro che vi sono trattenuti necessaria assistenza e rispetto pieno della loro dignità”: i migranti, infatti, sono titolari di un vero e proprio diritto “a permanere nei centri godendo della necessaria assistenza e senza mortificazione della loro dignità[3].

Questa prospettiva è rimasta quale criterio guida tanto nelle valutazioni connesse con l’accertamento peritale, quanto nell’ordinanza che ha parzialmente accolto il ricorso d’urgenza, quanto infine nella sentenza definitiva del primo grado del giudizio di merito qui annotata: al di là delle etichette e di ogni altro profilo formale, così sembra voler affermare il Tribunale, è la sostanza del trattenimento a risultare decisiva, dovendosi garantire sempre e comunque, in qualsiasi condizione e contesto, quel livello minimo di garanzia della dignità personale e del rispetto dei diritti umani ormai dettagliatamente identificato dal diritto internazionale e dalla giurisprudenza sovranazionale.

 

3. Molteplici sono state le questioni affrontate nel corso del giudizio, e fra queste la giurisdizione, la legittimazione attiva e passiva, le caratteristiche dello strumento processuale impiegato. Poiché la maggior parte di esse ricalca fedelmente quanto già trattato nell’ordinanza decisiva del ricorso ex art. 700 c.p.c., si ritiene opportuno rinviare al relativo commento, limitandosi qui ad approfondire gli aspetti nuovi e diversi trattati in sentenza. A ciò sembra del resto “autorizzare” la sentenza medesima, la quale fa ampio e ricorrente uso delle medesime argomentazioni già spese in sede cautelare e in numerosi luoghi della sentenza ne ricalca fedelmente il testo.

Prima di procedere è opportuno dare conto del fatto che nelle more del giudizio il CIE era stato chiuso, nel marzo 2016, a seguito di un incendio appiccato dagli stessi ospiti per protesta contro le condizioni di trattenimento: da quanto riferito nella stessa sentenza qui pubblicata, il provvedimento di chiusura adottato dal Ministero aveva tuttavia natura solo temporanea, tanto che nel novembre 2017 la struttura ha ricominciato ad essere attiva, con la nuova denominazione di CPR.

 

4. Per evidenti ragioni sistematiche, il Tribunale prende le mosse dall’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario sollevata dalle parti resistenti. Ribadito che tale eccezione era già stata rigettata in tutte le precedenti fasi cautelari, il Tribunale richiama sinteticamente gli argomenti già spesi in proposito, in particolare affermando che: a) “le Sezioni Unite della Corte Suprema hanno stabilito che la domanda di risarcimento del danno da detenzione illegale per illegittima proroga del trattenimento dello straniero appartiene alla giurisdizione del Giudice ordinario (Cass. sez. un., 13.6.2012, n. 9596)[4]; b) anche la Corte costituzionale, con la nota sentenza n. 105 del 2001, ha chiarito che, “se si ha riguardo al suo contenuto, il trattenimento è quantomeno da ricondurre alle ‘altre restrizioni della libertà personale’, di cui … si fa menzione nell’art. 13 della Costituzione”, determinandosi dunque nel trattenimento, “anche quando non sia disgiunto da una finalità di assistenza, quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale[5]; c) “anche nel settore “parallelo” del sistema penitenziario opera pacificamente la cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria[6].

Questi semplici cenni consentono quindi di concludere che il vigente sistema costituzionale si fa portatore di una netta posizione nel senso di escludere che le condizioni di trattenimento dei migranti possano essere ridotte ad un “affare amministrativo”, riaffermando con decisione la centralità dell’incidenza del trattenimento stesso sui diritti soggettivi e sulla dignità del migrante, costituzionalmente valorizzati e protetti dalla tutela del giudice dei diritti, ossia l’autorità giudiziaria ordinaria. Del resto, la giurisprudenza in proposito è pacifica: tra tutte, si confronti in particolare Cass. civ., sez. VI, 14.05.2013, n. 11451, richiamata anche dalla sentenza qui in commento (p. 27), ove si afferma a chiare lettere che “il trattenimento dello straniero, …, costituisce una misura di privazione della libertà personale” e che in proposito “l’autorità amministrativa è, pertanto, priva di qualsiasi potere discrezionale in virtù del rango costituzionale e della natura inviolabile del diritto inciso, la cui conformazione e concreta limitazione è garantita dalla riserva assoluta di legge prevista dall’art. 13 della Costituzione”.

Anche sotto il profilo dei cc.dd. “limiti interni” alla giurisdizione, cioè riguardo alla possibilità per il giudice adito di assumere un determinato provvedimento, il Tribunale ribadisce che, nei casi in cui sia denunciata la lesione di diritti soggettivi e venga quindi in rilievo il generale principio del neminem laedere, il giudice ordinario è titolare del potere tanto di condannare la P.A. al risarcimento del danno quanto di costringerla a uno specifico facere, attivo od omissivo.

Per tali ragioni, il Tribunale di Bari (ri)afferma la propria giurisdizione in relazione a tutte le domande svolte dagli attori.

 

5. Più complesso si rivela invece il secondo profilo esaminato, quello della legittimazione attiva e passiva. Agevolmente superate le diverse questioni già affrontate nelle precedenti fasi (in particolare, la legittimazione attiva degli attori in qualità di sostituti processuali ai sensi del T.U.E.L., e la legittimazione passiva degli Enti locali e non già del concessionario alla gestione del centro), il Tribunale si sofferma sulla specifica legittimazione degli Enti locali, pur sostituiti dagli attori persone fisiche, a richiedere il risarcimento del danno tanto rispetto alle condizioni di detenzione dei migranti trattenuti quanto rispetto alla propria immagine.

Se, infatti, gli attori avevano richiesto condannarsi gli Enti statali convenuti al risarcimento del danno per le condizioni di detenzione dei migranti trattenuti nel centro di Bari-Palese, è evidente che tale domanda poneva un serio problema di individuazione delle sfere soggettive lese e conseguentemente anche di legittimazione ad agire. Sul punto il Tribunale, pur ribadendo che l’istruttoria svolta ha consentito di accertare con una ragionevole certezza la sussistenza di plurime violazioni degli standard interni, sovranazionali e internazionali che regolamentano la detenzione, non può che constatare come i titolari dei conseguenti rimedi risarcitori restino i singoli migranti, nella misura e nei modi in cui ciascuno di essi ha subito quel danno ingiusto, risarcibile ex lege.

In proposito, tuttavia, il Tribunale è costretto a constatare come, se da un lato “ognuno dei singoli “trattenuti” … ben avrebbe potuto adire il giudice ordinario per dolersi del trattamento subito” e se quindi “solo i trattenuti nel CIE avrebbero potuto e dovuto proporre la domanda al giudice ordinario”, dall’altro lato “è evidente che tale casistica è abbastanza rara, in quanto tali soggetti versano in un’evidente situazione di “minorata difesa”, della quale non si può che prendere atto[7].

Questa considerazione, amaramente condivisibile, sfocia in un quesito che resta purtroppo senza risposta: come tutelare concretamente i diritti soggettivi dei migranti trattenuti quando essi e soltanto essi sono (pacificamente) titolari dei diritti di azione verso lo Stato e quando al contempo la giurisdizione si palesa assai restia ad adottare decisioni “forti”, quali ad esempio la chiusura dei centri che non rispettino gli standard umanitari di trattenimento? La realtà di questa casistica sembra quindi priva di esiti concreti, con la giurisdizione ordinaria che si palesa tiepidamente disponibile a tutelare i diritti de quibus solo ex post, nella forma del risarcimento di un danno ormai già pienamente integrato e realizzato, e con i migranti che, una volta cessata la violazione e con essa la detenzione, hanno comprensibilmente preoccupazioni e risorse ben diverse da quella di avviare un (lungo, oneroso e aleatorio) contenzioso civile avverso lo Stato italiano per ottenere il risarcimento del danno subito.

 

6. Superate, pur con le descritte perplessità, le questioni preliminari, il Tribunale passa ad affrontare le singole domande nel merito. Esse consistevano nella richiesta di chiusura del centro, una volta accertata la sua qualità di centro detentivo e acclarate le violazioni degli standard di trattenimento, oppure, in via subordinata, nella richiesta di ordinare gli interventi strutturali necessari per riportare il centro al rispetto degli standard suddetti, e nella domanda di condannare le Amministrazioni statali convenute al risarcimento del danno all’immagine sopportato dalle comunità locali coinvolte.

Quanto alle prima domande (la chiusura del centro e, in subordine, il suo adeguamento) il Tribunale dichiara, con una scarna motivazione, il difetto sopravvenuto dell’interesse ad agire: afferma infatti la sentenza che, poiché il centro di Bari-Palese risulta chiuso e “nonostante … risulti … chiuso soltanto temporaneamente”, “in ogni caso ciò che rileva è il suo stato attuale”. Siccome quindi il centro non è in attività e non si ha notizia di una sua programmata riapertura, allora le domande di chiusura e di realizzazione di interventi devono considerarsi prive di concreta utilità, “concreta utilità” che rappresenta proprio la condizione dell’azione dell’interesse ad agire, conseguentemente dichiarato insussistente.

La soluzione non convince: non può infatti condividersi l’individuazione del venir meno dell’interesse ad agire a fronte di una chiusura dichiaratamente soltanto temporanea, quando tale chiusura non era stata determinata dal mutamento della destinazione della struttura ma da contingenti ragioni legate alla sua parziale distruzione nel corso di una rivolta, tanto che, come già riferito, attualmente la struttura ha ripreso ad essere utilizzata come centro di trattenimento, con la nuova denominazione di CPR. Al contrario, la domanda di chiusura del centro ben avrebbe potuto essere mutata in una domanda di “divieto di riapertura o di riutilizzo” in assenza di adeguamenti strutturali, ma soprattutto agevolmente avrebbe potuto essere accolta la domanda di effettuazione dei lavori necessari per recuperare il rispetto degli standard di trattenimento. A sommesso parere di chi scrive, quindi, ben avrebbe potuto il Tribunale ordinare in via definitiva nel merito gli interventi strutturali peraltro già imposti in fase cautelare, con ciò non solo rispondendo alla legittima domanda di tutela proposta dagli attori, ma cogliendo altresì l’occasione per restituire alla giurisdizione ordinaria quella funzione di sorveglianza e tutela del rispetto dei diritti umani lungamente argomentata nei precedenti passaggi della motivazione.

 

7. Da ultimo, e con ampia motivazione[8], il Tribunale accoglie la richiesta di risarcimento del danno all’immagine subito dal Comune e dalla Provincia di Bari per effetto della presenza nel proprio territorio di una struttura nella quale venivano violati i diritti fondamentali dell’uomo.

La motivazione, che riprende solo in parte i tratti di quella che corredava il parziale accoglimento delle domande svolte ex art. 700 c.p.c., può essere così sintetizzata.

a) I Comuni sono sprovvisti di competenze amministrative dirette non solo in relazione alla gestione dei centri ma anche, a monte, in ordine al processo decisionale che conduce alla scelta della loro collocazione. Il Comune di Bari aveva espresso il proprio dissenso ad ospitare il centro, ma la relativa deliberazione consiliare era nei fatti sostanzialmente priva di reale valore giuridico. Pertanto, gli Enti locali subiscono la presenza dei centri in maniera del tutto passiva.

b) I CIE (nella denominazione del tempo) “sono noti all’opinione pubblica per essere luoghi di detenzione amministrativa degli stranieri ove si perpetrano significative restrizioni della libertà personale” e “non sono poche … le notizie di cronaca che hanno ad oggetto le condizioni assai logoranti in cui versano gli immigrati all’interno di tali Centri”, nei quali “si realizza … una misura di privazione della libertà personale, realizzabile in forma legittima soltanto qualora sussistano le condizioni giustificative previste dalla legge”. In definitiva, “si tratta … di centri … assimilabili sotto molteplici punti di vista a strutture carcerarie”.

Tutto ciò”, e qui sta il passaggio forse più rilevante, “ha spesso indotto l’immaginario comune ad associare i CIE in tutto e per tutto a delle carceri”. Addirittura, “il regime di trattenimento previsto per il CIE di Bari sarebbe stato … meno garantistico … di quello previsto da un normale carcere[9].

c) In ogni caso, al di là delle qualificazioni formali, la consulenza tecnica ha acclarato le violazioni dei diritti umani lamentate dagli attori, facendo così emergere “che il quomodo del trattamento dei trattenuti nel Centro trasmodava nell’illegalità[10].

d) Le vicende del centro di Bari-Palese hanno ricevuto una grande eco mediatica: il Tribunale qui fa riferimento ai molteplici episodi di rivolte, sfociate in incendi e danneggiamenti della struttura ma anche in atti di autolesionismo compiuti dai migranti trattenuti.

e) “La città di Bari è nota, invece, per essere da sempre un territorio di accoglienza per gli stranieri”. Il Tribunale motiva questa espressione con un lungo iter argomentativo (pp. 31-34), volto a dimostrare la peculiarità del rapporto tra il Comune (e la Provincia) di Bari e il fenomeno migratorio: si parte dall’analisi degli statuti, ricchi di riferimenti all’ideale dell’accoglienza e dello scambio tra culture, per muovere poi a considerazioni di carattere prima storico (con un excursus delle diverse popolazioni stanziate nella zona dal secondo millennio a.C. ai giorni nostri) e poi statistico (con una ricostruzione del peso della componente straniera della popolazione), per accentuare poi l’importanza del pellegrinaggio interconfessionale che ha meta nella basilica di San Nicola nonché l’importanza del turismo anche economico (ampi riferimenti alla Fiera del Levante e al forse meno noto segretariato per il Corridoio paneuropeo VIII), concludendo poi con la menzione di un paio di episodi di accoglienza concreta posti in essere dalla popolazione locale.

f) Alla luce di tutte le caratteristiche enumerate nei precedenti paragrafi quanto alla popolazione e al territorio baresi, ne “emerge un netto contrasto con la presenza del CIE, così come gestito dall’Amministrazione statale”.

g) Non si devono poi trascurare i profili di ordine pubblico e sicurezza connessi con le gravi rivolte provocate nel centro dalla reiterata violazione dei diritti umani.

In conclusione, il Tribunale determina la necessità di un risarcimento “dell’ingente danno arrecato alla comunità territoriale tutta” sulla base di un raffronto: da un lato il carattere della popolazione barese, storicamente votata all’accoglienza, e dall’altro l’illegittimo trattamento degli stranieri che, in ipotesi, la comunità avrebbe invece voluto accogliere degnamente.

Il Tribunale recupera poi, a consolidamento di quanto già affermato, l’argomento dell’identificazione, già ampiamente utilizzato nell’ordinanza ex art. 700 c.p.c.: “il danno all’immagine si giustifica alla luce di quella che è una normale identificazione, storicamente provata, tra luoghi ove si perpetrano violazioni dei diritti della persona e il territorio che li ospita. … Si pensi ad Auschwitz … a Guantanamo, ad Alcatraz, … a Lampedusa[11].

Posto quindi che è ormai da lungo tempo pacifico che gli Enti locali, godendo di personalità giuridica, sono portatori dei diritti immateriali della personalità che siano compatibili con l’assenza di fisicità, il Tribunale afferma la sussistenza di un danno risarcibile in capo al Comune e alla Provincia di Bari.

 

8. Affermata l’esistenza del danno risarcibile nei termini suindicati, il Tribunale lo quantifica nella somma di € 30.000 ai sensi dell’art. 1226 c.c. e pertanto con valutazione equitativa motivata dalla comprovata presenza dell’an e dall’assoluta incertezza in ordine all’entità del danno subito. La quantificazione, che alla luce delle solenni argomentazioni spese appare francamente piuttosto risibile, è sinteticamente motivata dal fatto che “il danno all’immagine risulta circoscritto in ambito territoriale ristretto, non essendo stata provata, in alcun modo, la risonanza, ad esempio internazionale, dello stesso[12].

 

9. Concludendo, si deve anzitutto valorizzare positivamente lo sforzo della giurisdizione ordinaria di recuperare spazi processuali idonei a consentire una seria censura dell’illiceità del trattenimento perpetrato dallo Stato in danno dei migranti, dei quali si constata amaramente la condizione di “minorata difesa” già commentata supra.

La decisione appare dunque condivisibile, e tuttavia poco coraggiosa, soprattutto nella parte in cui si evita di assumere provvedimenti idonei a incidere sulle condizioni di detenzione.

Essa, inoltre, forse in ragione della evidente originalità della via processuale prescelta, sconta una difficoltà probatoria non indifferente quando il giudice viene infine chiamato a individuare e apprezzare, dietro alle diffuse argomentazioni sistematiche e socio-culturali, un danno economicamente valutabile, che nella sentenza in commento sembra a tratti coincidere con un’astratta considerazione logico-statistica, in funzione del criterio probabilistico dell’id quod plerumque accidit che non pare idoneo né sufficiente sul piano civilistico a condurre alla concreta individuazione, anche solo nell’an, di un danno concretamente subito dall’Ente locale e dalla comunità di cui esso si fa esponente. La motivazione stessa appare poi ulteriormente problematica quando pone al centro del proprio iter espositivo una indimostrata spiccata tendenza barese all’accoglienza, sottintendendo implicitamente che in mancanza di questa il danno non si sarebbe verificato: il ragionamento, se applicato estensivamente, sembrerebbe richiedere alla comunità locale che vanti un danno all’immagine per violazione dei diritti fondamentali una specifica dimostrazione processuale di una propria oggettiva predisposizione all’accoglienza, richiesta che non ci pare cogliere nel segno se solo si considera come il rispetto della dignità della persona, cittadino o straniero, e dei suoi diritti fondamentali discenda direttamente da alcune tra le più importanti norme della Costituzione repubblicana e non necessiti di una sua più o meno pleonastica espressione in statuti comunali o in trascorsi storici più o meno risalenti.

 


[1] Già Centri di Permanenza Temporanea, poi Centri di Identificazione ed Espulsione, oggi – per effetto dell’art. 19, co. I, D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, conv. il L. 13 aprile 2017, n. 46 (cfr. Masera, I centri di detenzione amministrativa cambiano nome ed aumentano di numero, e gli hotspot rimangono privi di base legale: le sconfortanti novità del Decreto Minniti, in questa Rivista, fasc. 3/2017, p. 278 ss.) – Centri di Permanenza per il Rimpatrio.

[2] Con nota di chi scrive (Giliberto, Quale tutela giurisdizionale della dignità degli stranieri detenuti nei C.I.E.? Una singolare pronuncia del Tribunale civile di Bari, in questa Rivista, 19 febbraio 2014).

[3] Così i passi citati nella sentenza in commento, p. 4.

[4] Cfr. p. 19 della sentenza.

[5] Corte cost., n. 105 del 2001, passim, richiamata dalla sentenza a p. 20.

[6] Così sentenza, p. 21.

[7] Così sentenza, p. 28.

[8] Che corre, con richiami alle motivazioni dei provvedimenti assunti nelle precedenti fasi, da p. 27 a p. 41 della sentenza.

[9] Questa e le precedenti citazioni tutte a pp. 29-30 sentenza.

[10] Così sentenza, p. 30.

[11] Così sentenza, p. 36.

[12] Sentenza, p. 40.