ISSN 2039-1676


10 novembre 2014 |

Ridotto da 18 a 3 mesi il periodo massimo di trattenimento in un CIE: la libertà dei migranti irregolari non è più una bagattella?

Modifiche introdotte al T.U. imm. dalla Legge europea 2013-bis (L. 30.10.2014, n. 163, in G.U. del 10.11.2014 suppl. ord.)

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1. Lo scorso 30 ottobre, la Camera ha approvato in via definitiva la Legge europea 2013 bis (L. 30 ottobre 2014, n. 163, pubblicata sulla G.U. del 10 novembre 2014, suppl. ord.), che all'art. 3 contiene una riforma in tema di detenzione amministrativa per gli stranieri irregolari, che, passata sotto pressoché totale silenzio da parte dei media nazionali, rappresenta invece una svolta radicale rispetto ai più recenti indirizzi di politica legislativa in materia. Per la prima volta, da quando nel 1998 il Testo unico sull'immigrazione ha introdotto anche nel nostro ordinamento l'istituto della detenzione amministrativa per gli stranieri, il legislatore è intervenuto non per aumentare i limiti massimi della detenzione nei Centri di identificazione ed espulsione (come accaduto più volte in passato), ma per ridurli, ed in maniera assai significativa. Con la riforma qui in commento si passa da un massimo di 18 mesi, introdotto nel 2011, ad un termine improrogabile di 3 mesi, o addirittura di soli 30 giorni, quando l'espellendo abbia già trascorso almeno 3 mesi in carcere: il termine massimo di detenzione nei CIE è dunque stato ridotto di 6 volte, nelle ipotesi generali, e addirittura di 18 volte nei casi di stranieri già detenuti per altra causa.

Il dato quantitativo, nelle sue proporzioni eclatanti, esprime un mutamento anche teleologico dell'istituto della detenzione amministrativa.

Con la riforma del 2011, che aveva elevato da 6 a 18 mesi la durata massima della detenzione, la finalità sanzionatoria dell'istituto aveva preso il sopravvento su quello che invece, secondo il chiaro disposto della cd. direttiva rimpatri (dir. 2008/115/CE), deve essere il solo scopo del trattenimento, cioè il superamento degli ostacoli che impediscono il rimpatrio. Si ricorderà come l'innalzamento nel 2011 dei limiti massimi da 6 a 18 mesi (il termine massimo previsto dalla direttiva) era stato disposto nell'ambito dell'ampia riforma del sistema di esecuzione dei rimpatri che si era reso necessario dopo la sentenza El Dridi dell'aprile 2011. La Corte di giustizia UE aveva dichiarato incompatibile con la direttiva la pena detentiva prevista all'art. 14 co. 5 ter TU Imm. per lo straniero inottemperante all'ordine di allontanamento, impedendo l'uso della detenzione in carcere come sanzione della condizione di irregolarità; costretto quindi a rinunciare alla sanzione penale detentiva, il legislatore della riforma aveva colto l'occasione della trasposizione della direttiva per aumentare sino al massimo previsto in sede europea (i 18 mesi previsti all'art. 15 dir.) la durata della detenzione nei CIE, che veniva all'evidenza considerata come una sorta di succedaneo della reclusione penale. Il prolungamento a 18 mesi non poteva, infatti, trovare spiegazione in reali esigenze di efficienza del sistema dei rimpatri: le statistiche da anni mostravano come mediamente il rimpatrio dei detenuti nei CIE o avveniva entro i prima 30-60 giorni, oppure era difficilissimo che avvenisse, essendovi ostacoli (come di frequente la mancata cooperazione al rimpatrio del Paese di origine dello straniero) che assai raramente potevano venire superati nei mesi successivi. Una logica efficientista avrebbero dunque sconsigliato un trattenimento prolungato, perché costoso e poco utile ad aumentare il numero dei rimpatri; ma la detenzione amministrativa per il legislatore era anzitutto uno strumento punitivo del migrante irregolare, e doveva durare più a lungo possibile, specie visto che dopo la sentenza El Dridi la condizione di irregolarità non era più sufficiente per la reclusione in sede penale.

Con la riforma qui in commento, la detenzione amministrativa torna alla sua fisionomia originaria[1] di strumento cautelare volto a consentire alla pubblica amministrazione il superamento di ostacoli transitori al rimpatrio. Novanta giorni, secondo le statistiche, sono un termine adeguato per disporre le misure necessarie all'esecuzione effettiva del rimpatrio: oggi, finalmente, oltre non si può più andare.

 

2. Venendo rapidamente ad una analisi più di dettaglio delle modifiche introdotte alla disciplina del trattenimento amministrativo, la riforma ha riscritto il testo dell'art. 14 co. 5 TU imm., che contiene l'indicazione dei presupposti e della durata delle proroghe del trattenimento dopo il primo periodo di 30 giorni (la cui disciplina è rimasta invariata). La disciplina della prima proroga è rimasta anch'essa invariata: può essere disposta dal giudice di pace, su richiesta del questore, "qualora l'accertamento dell'identità e della nazionalità ovvero l'acquisizione dei documenti per il viaggio presenti gravi difficoltà", ed ha una durata fissa di 30 giorni.

La riforma ha invece completamente riscritto il sistema delle proroghe successive. Prima era previsto che il giudice, al ricorrere delle condizioni previste all'art. 14 co. 1 per il primo trattenimento (il sussistere di "situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l'effettuazione dell'allontanamento"), potesse disporre per due volte una proroga di durata fissa di 60 giorni (per un totale complessivo di 180 giorni);  dopo tale primo periodo, erano possibili ancora proroghe successive di durata non superiore a 60 giorni, per una durata totale complessiva non superiore a 18 mesi, "qualora non sia stato possibile procedere all'allontanamento nonostante sia stato compiuto ogni ragionevole sforzo, a causa della mancata cooperazione al rimpatrio del cittadino del Paese terzo interessato o di ritardi nell'ottenimento della necessaria documentazione dai Paesi terzi".

Oggi, dopo la prima proroga di 30 giorni, e quindi dopo i primi 60 giorni complessivi, "il questore può chiedere al giudice di pace una o più proroghe qualora siano emersi elementi concreti che consentano di ritenere probabile l'identificazione ovvero sia necessario al fine di organizzare le operazioni di rimpatrio. In ogni caso il periodo massimo di trattenimento dello straniero all'interno del centro di identificazione ed espulsione non può essere superiore a novanta giorni".

I punti salienti della riforma sono almeno tre. Il primo e più evidente è la riduzione del termine massimo da 18 a 3 mesi, della cui importanza abbiamo già parlato sopra. Il secondo è l'eliminazione, almeno per le proroghe successive alla prima, di una durata fissa del trattenimento, e l'affidamento alla valutazione del questore e del giudice di pace del tempo che in concreto risulti necessario per l'esecuzione del rimpatrio: modifica certamente coerente con lo spirito della direttiva, che in materia di trattenimento rifugge da automatismi ed insiste sulla necessità di una valutazione caso per caso delle effettive esigenze della procedura di rimpatrio. La terza novità consiste nell'indicazione della necessità di indicare "elementi concreti" che rendono probabile l'identificazione, sancendo così l'illegittimità della prassi corrente presso molti uffici dei giudici di pace, che concedono le proroghe anche in mancanza di qualsiasi elemento che renda plausibile il superamento degli ostacoli al rimpatrio.

 

3. Ancora più significative sono poi le modifiche relative al trattenimento nei CIE di stranieri che abbiano già trascorso dei periodi di detenzione penale in strutture carcerarie. Sino alla riforma, tali soggetti non erano destinatari di alcuna disciplina ad hoc riguardo alla durata del trattenimento amministrativo, che dunque si poteva cumulare integralmente alla pena detentiva già scontata. Era tutt'altro che infrequente che lo straniero irregolare destinatario di un provvedimento di espulsione (non importa se a titolo di sanzione penale o di misura amministrativa), dopo avere scontato una pena detentiva magari anche di lunga durata, al momento del rilascio, se non era possibile eseguire subito il rimpatrio, venisse nell'attesa trasferito in un CIE, nel quale poteva restare trattenuto sino al massimo di 18 mesi previsto in generale per la detenzione amministrativa. L'inerzia dell'autorità amministrativa nel preparare il rimpatrio durante la detenzione in carcere andava quindi a danno dello straniero, che una volta scontata la pena si trovava sottoposto ad un'ulteriore limitazione di libertà all'interno dei CIE. Per superare almeno parzialmente questa forma di "doppia detenzione", il d.l. 146/2013, conv. in l.10/2014, aveva previsto che, almeno nelle ipotesi di espulsione come sanzione alternativa alla detenzione di cui all'art. 16 TU imm., già dal momento dell'ingresso in carcere la direzione dell'istituto di pena e la questura collaborassero alla organizzazione del rimpatrio, così da renderlo immediatamente eseguibile una volta terminato il periodo di detenzione (co. 5 bis e 5 ter dell'art. 16 TU imm., introdotti nel 2014).

La riforma qui in commento si spinge molto più in là nella direzione di evitare allo straniero che ha già scontato una pena l'ulteriore periodo di detenzione in un CIE. Riprendendo sollecitazioni che già erano emerse nel corso della discussione parlamentare della l. 10/2014[2], si prevede oggi all'art. 14 co. 5 che "lo straniero che sia già stato trattenuto presso le strutture carcerarie per un periodo pari a quello di 90 giorni indicato al periodo precedente, può essere trattenuto presso il centro per un periodo massimo di 30 giorni". E' durante il periodo di detenzione in carcere che l'autorità amministrativa deve attivarsi perché, terminata l'esecuzione della pena, l'espulsione sia immediatamente eseguibile; se così non è, l'ulteriore privazione di libertà nei CIE non può superare i 30 giorni, rispetto ai 18 mesi cui si poteva arrivare prima della riforma.

 

4. Un'altra modifica di rilievo è stata inserita all'art. 14 co. 5 bis, dove è contenuta la disciplina della procedura per intimazione, cioè delle situazioni in cui l'espulsione viene eseguita mediante intimazione allo straniero di lasciare lo Stato entro il termine di sette giorni. Prima della riforma la norma prevedeva che a tale procedura il questore facesse ricorso "qualora non sia stato possibile trattenere lo straniero in un CIE, ovvero la permanenza presso tale struttura non ne abbia consentito l'allontanamento dal territorio nazionale"; oggi è stato previsto che l'ordine di allontanamento venga altresì pronunciato quando "dalle circostanze concrete non emerga più alcuna prospettiva ragionevole che l'allontanamento possa essere eseguito e che lo straniero possa essere riaccolto dallo Stato di origine o di provenienza".

La nuova disposizione riprende pressoché testualmente il contenuto dell'art. 15 § 4 dir., secondo cui "quando risulta che non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi, il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata". Se il trattenimento non è uno strumento per sanzionare lo straniero irregolare, ma serve solo a rendere possibile l'esecuzione del rimpatrio, è giocoforza che esso debba immediatamente cessare allorché l'esecuzione appaia per qualsiasi ragione impossibile: con la riforma l'ordinamento italiano si adegua al disposto della direttiva, venendo a risolvere uno degli aspetti in cui, anche dopo la legge di trasposizione del 2011, l'ordinamento italiano appariva più palesemente in contrasto con la normativa europea. La nuova disposizione non è in verità inserita, come nella direttiva, nella norma relativa al trattenimento nei CIE, ma in quella relativa ai requisiti della procedura per intimazione; e tuttavia, al di là della discutibile scelta topografica, è evidente che essa rilevi ai fini della determinazione dei requisiti per il trattenimento, posto che tale procedura è applicabile solo quando lo straniero non possa essere più trattenuto in un centro, e dunque l'affermazione per cui a tale procedura bisogna fare ricorso quando il rimpatrio risulti impossibile, equivale ad affermare, come fa in modo esplicito la direttiva, che in tale ipotesi debba essere immediatamente posto fine al trattenimento. 

 

5. Merita poi un cenno una novità non inerente alla detenzione amministrativa, ma ai reati legati alla condizione di irregolarità del soggiorno.

Nella sentenza Sagor della Corte di giustizia UE del 6 dicembre 2012, relativa alla compatibilità con la direttiva rimpatri del reato di ingresso e soggiorno irregolare di cui all'art. 10 bis TU Imm., si era posto il problema se il meccanismo di sostituzione della pena pecuniaria ineseguita con la permanenza domiciliare, previsto in generale dagli artt. 53 e 55 d.lgs. 274/2000 per i reati di competenza del giudice di pace, rappresentasse un ostacolo all'esecuzione del rimpatrio, nel qual caso sarebbe dovuto essere dichiarato illegittimo per violazione del principio dell'effetto utile della direttiva. La Corte aveva affermato che l'obbligo di permanenza domiciliare risulta d'ostacolo all'esecuzione del rimpatrio, qualora la disciplina interna "non preveda che l'esecuzione dell'obbligo di permanenza domiciliare debba avere fine a partire dal momento in cui sia possibile realizzare l'allontanamento" (§ 45), ed aveva poi lasciato "al giudice del rinvio di esaminare se esista, nella normativa nazionale, una disposizione che fa prevalere l'allontanamento sull'esecuzione dell'obbligo di permanenza domiciliare" (§ 46); in assenza di una tale disposizione, concludeva la Corte, bisognerebbe ritenere che "la direttiva osta a che un meccanismo di sostituzione della pena dell'ammenda con l'obbligo di permanenza domiciliare, del tipo previsto agli artt. 53 e 55 d.lgs. 274/2000, sia applicato a cittadini di paesi terzi in soggiorno irregolare" (§ 46).

Sino alla riforma in commento, non era in effetti chiaro, in mancanza di alcuna disposizione ad hoc relativa ai rapporti tra permanenza domiciliare ed espulsione, se la permanenza dovesse cessare quando l'espulsione risultasse eseguibile, o se invece l'espiazione della pena in oggetto impedisse l'esecuzione del rimpatrio, ponendosi così in contrasto con la direttiva. Il legislatore interviene ora a risolvere definitivamente la questione, introducendo all'art. 13 TU imm. il nuovo co. 3 septies, secondo cui "nei confronti dello straniero sottoposto alle pene della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità per i reati di cui all'art. 10 bis o all'articolo 14 co. 5 ter e 5 quater, l'espulsione prevista dal presente articolo è eseguita in ogni caso e i giorni residui di permanenza domiciliare o di lavoro di pubblica utilità non eseguiti si convertono nella corrispondente pena pecuniaria secondo i criteri di ragguaglio indicati nei co. 2 e 6 dell'art. 55 del d.lgs. 274/2000".

 

6. Le modifiche appena analizzate non solo le sole apportate dall'ultima legge comunitaria alla disciplina dell'immigrazione. La riforma ha in particolare interessato la materia del rimpatrio dello straniero irregolare verso o da altro Paese membro di provenienza (nuovi co. 7 bis, ter e 7 quater dell'art. 7 TU Imm.), e quella della durata del divieto di reingresso in caso di espulsione applicata come sanzione sostitutiva per i reati di competenza del giudice di pace (divieto di reingresso da tre a cinque anni) o del giudice ordinario (divieto non inferiore a cinque anni).

La legge europea ha quindi rappresentato per il legislatore  l'occasione per intervenire su più punti della disciplina dell'immigrazione, in alcuni casi in diretta applicazione di una disposizione europe, in altri (come quello dei termini massimi del trattenimento) senza una precisa esigenza di trasposizione. Certo non si tratta di un intervento organico, ed in verità non è facile individuare un disegno di politica legislativa comune alle diverse e disparate modifiche.

La novità che connota in maniera politicamente significativa l'intervento legislativo è sicuramente quella relativa alla riduzione del tempo massimo di trattenimento nei CIE, sulla quale già ci siamo soffermati sopra. Dopo anni in cui la libertà personale dei migranti irregolari era stata ridotta a bagattella[3], finalmente il legislatore torna a porre in primo piano le esigenze di garanzia di tale diritto fondamentale, consentendone la limitazione solo ove strettamente funzionale all'esecuzione del rimpatrio. Il cambio di direzione è netto, e certo non era imposto dalla necessità di rispettare gli impegni internazionali dello Stato, posto che, come abbiamo già visto, la direttiva rimpatri  consente il trattenimento sino ad un massimo di 18 mesi; non resta che attendere per verificare se esso è altresì significativo di un nuovo approccio globale alla materia dell'immigrazione (meno demagogicamente rigoristico e più attento alla tutela dei diritti), o se invece si tratta di un "accidente" destinato a rimanere senza seguito. Il silenzio mediatico che ha accompagnato l'approvazione della riforma induce a ritenere che la maggioranza si sia determinata a tale intervento per provare indirettamente a risolvere il problema sempre più increscioso delle condizioni dei nostri CIE, riducendone drasticamente il periodo di permanenza, ma non avesse intenzione di fare di tale intervento l'inizio di un nuovo programma di politica legislativa in materia, posto che altrimenti ben altra sarebbe stata l'enfasi attorno al provvedimento: comunque è stato compiuto un passo avanti in chiave di tutela dei diritti dei migranti irregolari, e davvero non è poca cosa visto il clima che si respira in questi mesi in Italia riguardo a tale tematica.

 


[1] Si ricorderà che, nella versione originaria del TU imm., la detenzione ammnistrativa non poteva durare più di 20 giorni, prorogabili al massimo di ulteriori 10 giorni.

[2] Per un'analisi di tale intervento normativo, cfr. A. Della Bella, Emergenza carceri e sistema penale, 2014, p. 91 ss.

[3] L'espressione è di A. Caputo, Diseguali, illegali, criminali, in Quest. Giust., 2009, n. 2, 85, che parla di « bagattellarizzazione » della libertà dei migranti.