SOMMARIO
1. La rilevanza penale interna della direttiva rimpatri
Come ormai noto, con l’entrata in vigore (1.12.2009) del Trattato di Lisbona, si prevede la possibilità di emanare direttive e regolamenti (con tutte le conseguenze relative al carattere di tale normativa europea e ai suoi effetti negli Stati membri) in materia di diritto penale e di polizia nei limiti delle competenze stabilite dagli artt. 69 A (82), 69 B (83), 69 C (84), 69 D (85), 69 E (86), 69 F (87), 69 G (88) e 69 H (89) con conseguente estensione al riguardo delle competenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (già della Comunità europea). Tuttavia, ai sensi degli artt. 9 e 10, titolo VII del Protocollo n. 36 sulle disposizioni transitorie del medesimo Trattato di Lisbona,
gli atti adottati anteriormente continueranno ad applicarsi secondo la valenza ad essi attribuita prima all’entrata in vigore del Trattato citato.
[1]
Orbene, la cd. direttiva rimpatri (direttiva 2008/115/CE) è stata adottata anteriormente al citato Trattato di Lisbona
[2], con la conseguenza che, in forza della citata disposizione transitoria,
a tale direttiva potrà riconoscersi, in ambito penale, la valenza attribuita a tali atti prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, almeno sino a che le istituzioni comunitarie non si avvarranno delle nuove competenze loro attribuita direttamente in materia penale.
Secondo l’assetto anteriore al Trattato di Lisbona – quale delineato nelle note sentenze emanate dalla Grande Sezione della Corte nel 2005:
Corte di Giustizia CE, Grande Sezione, 13 settembre 2005, Commissione c. Consiglio, che aveva annullato la
decisione quadro del Consiglio UE 27 gennaio 2003 (2003/80/GAI) relativa alla
protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale, accogliendo il ricorso della Commissione che aveva rivendicato le competenze comunitarie in materia ambientale, quali enunciate negli artt. 3, n.1 lett. I), 174 e 176 Trattato CE;
Corte di Giustizia CE, Grande Sezione 3 maggio 2005 Berlusconi e altri; Corte di Giustizia CE Grande Sezione 16 giugno 2005 Pupino – le istituzioni comunitarie non hanno competenza ad emanare atti dotati di diretta efficacia penale nell’ordinamento dello Stato membro (quali regolamenti o direttive auto applicative). Tuttavia, norme comunitarie direttamente efficaci, emanate in materia di competenza comunitaria (come ad esempio la protezione dell’ambiente), in forza del principio di prevalenza del diritto comunitario su quello interno, possono influire sulle norme penali interne quando la fattispecie in esse prevista comprenda elementi normativi di fattispecie inclusi nelle norme incriminatrici statali, cioè elementi per definire i quali è necessario applicare norme stabilite per altre materie (civile, amministrativa, commerciale, ecc…). Quando la norma interna che consente di definire l’elemento normativo di fattispecie non può essere applicata (cd. “in applicazione” o più impropriamente “disapplicazione” comunitaria) per contrasto con normativa comunitaria direttamente efficace (che, in quanto tale, si deve applicare in sua vece), il precetto penale non può ritenersi integrato, di tal che l’imputato deve essere assolto perché il fatto non sussiste (ad esempio, l’abrogazione dei dazi intracomunitari impedisce di integrare il contrabbando di merci importate in ambito comunitario). Occorre peraltro fare attenzione al fatto che la norma extrapenale integratrice non è di per sé illegittima, ma semplicemente non viene in rilievo nell’ambito di competenza comunitaria, residuando la sua applicazione fuori da tale ambito, ciò che distingue l’istituto della cd. “disapplicazione comunitaria” dal diverso istituto della disapplicazione da parte del giudice ordinario dell’atto amministrativo (che implica invece un giudizio di illegittimità dell’atto).
[3] Simile distinzione tra i due istituti della “in applicazione” e della “disapplicazione” non rappresenta una mera sottigliezza teorica, in quanto consente di capire perché la Corte costituzionale abbia potuto riconoscere anche al giudice comune tale potere di “in applicazione” (o “disapplicazione comunitaria”), proprio in quanto esso non implica un giudizio di illegittimità della legge interna (che la nostra Costituzione riserva alla Corte), ma solo un riconoscimento (interpretativo, tipico del giudice comune) di diversi ambiti applicativi di differenti disposizioni normative (comunitaria e interna).
Questa è l’impostazione adottata dalla nostra Corte costituzionale - all’esito del suo cd. “cammino comunitario” che, in relazione al contrasto tra norme interne e norme comunitarie, l’ha portata ad abbandonare successivamente le vie del criterio cronologico, della illegittimità costituzionale della norma interna per giungere appunto quello della non applicazione della norma interna da parte del giudice comune, con la nota sentenza emessa nel caso Granital nel 1984 (Corte cost. n. 170/1984), secondo cui:
- l’ordinamento comunitario e quello dello Stato sono separati e autonomi, con la conseguenza che la normativa comunitaria non entra a far parte dell’ordinamento dello Stato, ciascuna norma restando valida ed efficace nel proprio ordinamento secondo le condizioni poste dall’ordinamento stesso (cd. teoria dualistica, sgradita alla giurisprudenza della Corte di Giustizia);
- gli eventuali conflitti tra norme interne e norme comunitarie direttamente efficaci devono essere risolti secondo il criterio della competenza, nel senso che, ove la norma comunitaria abbia effetto diretto e venga riconosciuto l’ambito di competenza comunitaria, la norma interna contrastante non viene abrogata (come avverrebbe in applicazione del criterio cronologico) e neppure dichiarata illegittima (in forza del criterio di gerarchia), ma semplicemente non applicata in forza del criterio di competenza, posto che, con la ratifica ed esecuzione del Trattato, lo Stato ha consentito ex art.11 comma 2 Cost. a quelle limitazioni di sovranità che consentono alla sola norma comunitaria di venire in rilievo, ritirandosi in modo corrispondente l’ambito di applicazione della norma interna;
- la norma comunitaria priva di effetti diretti, invece, ove contrasti con il diritto interno, legittimerà solo il giudice comune a sollevare incidente di costituzionalità, il quale dovrà sempre procedervi (denunciando l’ordine di esecuzione del Trattato) ove ritenga che la norma comunitaria violi i principi fondamentali dell’ordine costituzionale (cd. teoria dei contro-limiti).
La cd. direttiva rimpatri è stata adottata nell’ambito delle competenze comunitarie in punto di armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di espulsione, con la conseguenza che essa, ove venissero rispettate le condizioni a ciò necessarie, potrebbe astrattamente avere diretta efficacia solo in tale materia (di rilevanza comunitaria): infatti, posto che l’art. 14 d.lgs. n. 286/1998 sanziona a titolo penale l’inottemperanza a provvedimenti amministrativi adottati nella procedura di espulsione prevista dalla legge italiana, l’eventuale incidenza diretta della normativa comunitaria su tale procedura amministrativa, può riverberarsi sulla norma penale, anche in forza degli assetti anteriori all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, seppure in modo piuttosto articolato e niente affatto perspicuo, tanto da poter essere fonte di facili equivoci.
Invero, se (e si ribadisce se) la direttiva rimpatri avesse diretta efficacia e si ritenesse che le norme di legge interna contrastino con tale direttiva, allora tali norme di legge interna sull’espulsione non dovrebbero essere applicate (disapplicazione comunitaria) dovendosi in loro vece applicare le norme contenute nella direttiva: a questo punto il provvedimento amministrativo potrebbe essere considerato illegittimo per violazione delle norme comunitarie che l’autorità amministrativa (quale organo dello Stato tenuto a rispettare il diritto comunitario) deve applicare in vece di quelle interne, e, conseguentemente, il provvedimento amministrativo di allontanamento potrebbe essere disapplicato (disapplicazione amministrativa) dal giudice penale per illegittimità conseguente a violazione della legge (comunitaria) da applicarsi in vece di quella statale interna contrastante (“inapplicata”).
Pertanto, anche ove si riconoscesse diretta efficacia alla direttiva comunitaria, questa comporterebbe “solo” la disapplicazione dell’atto amministrativo di allontanamento e mai la inapplicazione diretta della norma penale di cui all’art. 14 d. lgs. n.286/98, trattandosi di norma che, in quanto penale, prima del Trattato di Lisbona e in base al citato Protocollo sulle disposizioni transitorie, non rientra direttamente nell’ambito di rilevanza comunitaria.
[4]
Deve solo rimarcarsi come la disapplicazione della norma penale non potrebbe neppure giustificarsi ove si ritenesse che la direttiva rimpatri codifichi un principio di proporzione sulle limitazioni massime della libertà personale riguardanti il soggetto che si oppone all’allontanamento, così concretizzando il corrispondente principio dell’art. 49 della cd. Carta di Nizza.
E’ pur vero, infatti, che l’art. 6 comma 1 del Trattato sull’Unione europea prevede ora il riconoscimento de “i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000” (cd. Carta di Nizza), stabilendo che la Carta “ha lo stesso valore giuridico dei Trattati”. Tuttavia la Corte costituzionale ha già precisato, con una fondamentale sentenza in materia di mandato di arresto europeo, che neppure la contrarietà con un principio del Trattato possa sempre essere considerata di per sé sufficiente a giustificare la disapplicazione (
rectius “inapplicazione”) della norma penale interna configgente.
[5] Infatti, si è affermato nella
sentenza Corte cost. 12 maggio - 21 giugno 2010 n.196, che “il contrasto della norma [statale interna] con il principio [nella specie di non discriminazione di cui all’art. 12] del Trattato CE, non è sempre di per sé sufficiente a consentire la non applicazione della configgente norma interna da parte del giudice comune”, in quanto “pur essendo in linea di principio di diretta applicazione ed efficacia, non è dotato di una portata assoluta tale da far ritenere sempre e comunque incompatibile la norma nazionale che formalmente vi contrasti” essendo consentito al legislatore nazionale di derogarvi: in altre parole, la natura “defettibile” che connota i principi non consente la disapplicazione, ritenuta ugualmente preclusa dal fatto che si verta in materia penale, cioè in materia non regolata da norme comunitarie di efficacia diretta prima del Trattato di Lisbona e per la quale, in forza della normativa transitoria, si continuerà ad applicare il regime previgente sino a che l’Unione non interverrà con disposizioni dotate di efficacia diretta penale.
2. L'efficacia diretta o indiretta della direttiva rimpatri
Deve peraltro dubitarsi che la direttiva rimpatri abbia efficacia diretta. Infatti, perché un atto normativo comunitario possa considerarsi dotato di efficacia diretta occorre che:
- la direttiva sia dettagliata, intendendosi con ciò che sia
-
chiara, vale a dire non ambigua od equivoca
-
precisa, sufficientemente specifica e tale da non necessitare di ulteriori interventi per poter essere applicata;
-
incondizionata, cioè prevedere una disciplina non sottoposta a condizioni per poter essere applicata;
- sia
scaduto il
termine di attuazione per lo Stato.
[6]
Orbene, se appare chiaramente integrato il requisito della scadenza del termine per l’attuazione (effettivamente scaduto il 24 dicembre 2010)
[7], la parziale puntualità della disciplina della direttiva non consente di trascurare il fatto che la medesima non può ritenersi affatto incondizionata e precisa, per gli spazi lasciati alla discrezionalità del legislatore nazionale, in particolare da:
l’art.2.2 che prevede la possibilità di non applicare la direttiva ai soggetti già “fermati” o “scoperti” in sede di attraversamento irregolare delle frontiere, con difetto di chiarezza anche del termine “scoperto”, che potrebbe legittimare l’esclusione dell’applicazione della direttiva anche per l’accertamento successivo del transito irregolare, conclusione coerente con la regola generale dell’allontanamento volontario (certamente ragionevole in caso di ingresso regolare sul territorio nazionale ma assai meno fuori da questa ipotesi);
l’art. 7 che prevede l’intervento del legislatore nazionale per stabilire deroghe essenziali al funzionamento del sistema di espulsione delineato nella direttiva, tale da implicare un precisa definizione di regole ed eccezioni, ad esempio, in punto pericolo di fuga (i cui parametri di commisurazione devono essere stabiliti dal legislatore nazionale ai sensi dell’art. 2 della medesima direttiva), di esistenza di legami familiari e sociali, alla concessione di un termine solo su richiesta, ecc.
La bontà delle conclusioni di cui sopra è facilmente verificabile alla luce del fatto che, ove si ritenesse la diretta efficacia, occorrerebbe anche ritenere che l’autorità amministrativa possa adottare i provvedimenti relativi alla procedura di espulsione sulla base delle sole prescrizioni contenute nella direttiva, senza bisogno di nessun altra integrazione, dovendo la medesima applicare tale normativa comunitaria al posto di quella interna contrastante.
E’ pur vero che la Circolare del Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza – prot. 400/B/2010, ipotizzando una problematica compatibilità della procedura di espulsione regolata dalla legge nazionale con la direttiva comunitaria, ha inteso attribuire alle Prefetture e alle Questure il compito di adeguarsi mediante l’adempimento di adeguati oneri motivazionali. Ciò nondimeno non si vede come il Questore possa, sulla sola base della direttiva, creare dal nulla provvedimenti privi di qualsiasi disciplina di dettaglio, quali l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità o di costituire adeguate garanzie finanziarie, ovvero individuare il pericolo di fuga in assenza dei parametri legislativi che la stessa direttiva comunitaria ritiene indispensabili, oltre tutto rovesciando la natura del provvedimento esistente (ordine di allontanamento, che presuppone la motivazione sull’assenza del pericolo di fuga e richiede la motivazione sull’impossibilità di trattenimento in CIE).
In assenza dei predetti requisiti la direttiva comunitaria non può ritenersi direttamente efficace, ma resta pur sempre un atto normativo comunitario dotato di efficacia indiretta che, in caso di contrasto della normativa interna, determina altri obblighi per il giudice. Oltre all’obbligo di tentare l’interpretazione conforme, si sono in particolare quelli:
- di sollevare pregiudiziale interpretativa dinanzi alla Corte di Giustizia (rimessione obbligatoria per il giudice di ultima istanza in caso di atto non chiaro ovvero in assenza di precedenti pronunciamenti della medesima Corte di Giustizia, avente il monopolio interpretativo sulle norme comunitarie);
- di sollevare questione di legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117 Cost. quale integrato dalla direttiva (eventualmente quale interpretata dalla Corte di Giustizia).
Sotto quest’ultimo profilo, peraltro, deve rilevarsi come possa addirittura dubitarsi di un effettivo contrasto delle specifiche previsioni penali contenute nell’art. 14 d.lgs. n.286/98 con quelle della direttiva rimpatri.
Infatti il meccanismo presupposto dall’incriminazione ex art. 14 cit., è un meccanismo fondato proprio sulla partenza volontaria, come espressamente stabilito dalla direttiva e lo spazio lasciato allo Stato (in forza dell’art. 8 della direttiva comunitaria) per l’adozione di tutte le misure necessarie per eseguire la decisione di rimpatrio dopo l’omesso allontanamento volontario, deve ritenersi in ogni caso tale da legittimare pienamente la previsione di un delitto come l’art. 14 cit. che, attraverso la minaccia di sanzioni penali per il soggetto inottemperante, favorisce indubbiamente tale allontanamento volontario. D’altro canto la previsione di simili misure dimostra, altresì, come lo stesso legislatore comunitario distingua nettamente le privazioni della libertà personale finalizzate all’espulsione coatta dalle privazioni della libertà personale stabilite come punizione per inottemperanza all’allontanamento volontario (fatte salve, appunto, dall’art. 8 della direttiva), con conseguente impossibilità di utilizzare ai fini della concretizzazione del principio fondamentale di proporzionalità della pena (ritenuto ripetutamente non violato dalla nostra Corte costituzionale nei precedenti scrutini di costituzionalità), la durata della restrizione della libertà per l’esecuzione coattiva dell’espulsione (già stabilita, dalla legge interna, in un periodo di tempo nettamente inferiore a quello massimo previsto dalla direttiva).
Il fatto che non appaia corretto comparare la detenzione disposta per sanzionare un delitto (di inottemperanza all’allontanamento volontario) alle restrizioni della libertà personale finalizzate all’espulsione coatta lo si evince anche dalla seguente pronuncia della stessa Corte di Giustizia della CE proprio in materia interpretativa della stessa Direttiva rimpatri. Con sentenza della Corte (Grande Sezione) del 30 novembre 2009 (domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Administrativen sad Sofia-grad — Bulgaria) — Said Shalimovich Kadzoev (Huchbarov) (Causa C-357/09 PPU) è stato affermato che un trattenimento disposto nell’ambito di una procedura di asilo, diversa dalla procedura di trattenimento finalizzato all’espulsione, non può essere equiparato al trattenimento ai fini dell’allontanamento disciplinato dall’art. 15 della direttiva.
La stessa Corte costituzionale italiana, nell’esaminare, prima ella scadenza del termine della direttiva, il contrasto tra la direttiva stessa e l’art. 10 bis del d.lgs. n. 286/1998 che punisce la semplice condizione di clandestino, ha voluto anticipare che eventuali contrasti della normativa interna non riguarderebbero il reato oggetto di scrutinio quanto piuttosto le norme interne che individuano nell’accompagnamento coattivo alla frontiera la modalità normale di esecuzione dei provvedimenti espulsivi. E quella dell’accompagnamento coattivo è norma diversa da quelle qui in esame che puniscono l’inottemperanza all’obbligo di allontanamento nel termine dato proprio in luogo dell’accompagnamento coattivo.
Il contrasto tra norma comunitaria e norme interne deve, quindi, ritenersi con la procedura amministrativa di accompagnamento alla frontiera, senza che la direttiva impedisca che lo Stato, dato un termine per la partenza volontaria, sanzioni penalmente chi non ottemperi.
In assenza di contrasto sembra, quindi, che non possano ritenersi esperibili in sede penale neppure le vie della pregiudiziale interpretativa o della questione di costituzionalità.
[8]
[1] Cfr. S. PEERS,
The ‘Third Pillar acquis’ after the Treaty of Lisbon enters into force, in
Statewatch Analysis, december 2009.
[2] Occorre, infatti distinguere il momento dell’entrata in vigore della direttiva (in cui si producono gli effetti tipici, quali appunto l’obbligo di produzione normativa per lo Stato) da quello, successivo, in cui si possono verificare ulteriori effetti eventuali (come appunto la diretta efficacia nell’ordinamento interno alla scadenza del termine stabilito per la sua attuazione).
[3] La distinzione è elementare e di livello teorico istituzionale (per una chiara e sintetica esposizione cfr. R. BIN – P. CARETTI,
Profili costituzionali dell’Unione Europea, Bologna, 2005, 130 ss.).
[4] Del resto che la direttiva rimpatri non intendesse occuparsi della materia penale è esplicitato nei “considerando” della direttiva medesima.
[5] In verità queste forme di “non applicazione”, per contrasto a principi fondamentali, sono suscettibili di mettere in crisi il sistema della cd. “inapplicazione” (potendo non residuare, invero, alcuno spazio, esterno a quello comunitario, in cui la norma statale, secondo il criterio di competenza, possa trovare applicazione). Verranno così inevitabilmente al pettine i nodi problematici della differente concezione, monistica e dualistica, dei rapporti tra ordinamento comunitario e statale interno (caratterizzante rispettivamente la giurisprudenza delle Corti sovranazionali e costituzionali dello Stato). Le differenze teorico-concettuali delle due concezioni di fondo, sino ad ora, non avevano impedito nella pratica al sistema di funzionare, ma il delicato equilibrio su cui detto sistema di fondava rischia ora di collassare , senza che la concezione cd. “multilivello” del sistema medesimo riesca a dipanare tutti i problemi pratici che i rapporti tra Stati e Unione comportano e che, forse, sarebbero superabili solo ove si applicassero al tema gli approdi cui è giunta la teoria delle “reti normative” negli studi in corso sui cd. “diritti complessi”: su questo difficile tema, non affrontabile in questa sede, sia consentito rimandare al mio T.E. EPIDENDIO,
Diritto comunitario e diritto penale interno. Guida alla prassi giurisprudenziale, Milano, 2007; nonché ad AA.VV.,
La complessità del diritto. Nuovi itinerari del pensiero giuridico contemporaneo, a cura di CALBUCCI, Napoli, 2009.
[6] I punti di riferimento tradizionali della giurisprudenza comunitaria in materia sono CGCE 4.12.1979 C-41/74,Duyn; CGCE 5.4.1979 C-148/78 Ratti; CGCE 19.1.1982 -8/81 Becker; CGCE 26.2.1986 Marshall C-152/84; CGCE 26.9.2000 C-443/98 Unilever
[7] La mancata scadenza di detto termine aveva determinato la Corte cost. a non prendere in considerazione la direttiva nella recente sentenza n. 250/2010.
[8] Diversamente potrebbe invece valutarsi l’impatto della direttiva rimpatri sull’interpretazione (“conforme”) da dare alla clausola generale del “giustificato motivo” (contenuta nell’art.14 cit.), clausola nella quale occorrerebbe ora certamente ricomprendere le situazioni poste dalla direttiva a base della possibilità di proroga del termine per l’allontanamento volontario, ciò in quanto l’obbligo di interpretazione conforme scatta anche in presenza di norme comunitarie non direttamente efficaci ed occorre, comunque, prevenire il contrasto che si verrebbe a creare, ammettendo di sanzionare penalmente l’inottemperanza da un allontanamento volontario in un termine fisso di cinque giorni che il legislatore comunitario non solo vuole ordinariamente più ampio, ma che stabilisce come da prorogare in tali determinate situazioni: proprio il fatto che il termine ordinario di sette giorni non sia incondizionatamente posto dalla direttiva, che consente deroghe sia in
melius che in
peius, impedisce di ravvisare un contrasto tale da legittimare l’incidente di costituzionalità o dubbi da risolvere con la pregiudiziale interpretativa, oltre tutto incompatibile con la “chiarezza” dell’atto che necessariamente deve sussistere per i sostenitori dell’efficacia diretta della direttiva, ma le proroghe da concedere per l’allontanamento volontario in base alla direttiva, certamente consentono di individuare il contenuto minimo della clausola generale del giustificato motivo, integrando le indicazioni già fornite in proposito dalla Corte costituzionale.