1. Com’era ampiamente prevedibile, dopo una
prima favorevole accoglienza da parte di talune procure e giudici di merito, sfociata in
vari provvedimenti taluni dei quali pubblicati su questa
Rivista, la tesi secondo cui la direttiva rimpatri UE dovrebbe condurre il giudice penale alla disapplicazione dell’art. 14 commi 5-
ter e 5-
quater del t.u. - formulata già da alcuni mesi da me e Luca Masera, e riproposta in questa sede in un
intervento dello scorso dicembre - è attualmente oggetto di un
fuoco di critiche da parte di molti magistrati (gli unici, peraltro, che si siano apparentemente accorti della portata potenzialmente dirompente della tesi). Critiche già in parte espresse in contributi (come quello
a firma di Filippo Focardi pubblicato alcuni giorni or sono) e commenti inviati alla
Rivista attraverso le apposite mascherine interattive poste in calce a ciascun documento (si veda ad es. il commento del dott. Palizio alla
sentenza 4 gennaio 2011 del Tribunale di Torino), e in parte ribadite, con varietà di accenti, anche nel corso un incontro di formazione organizzato giusto ieri presso il Tribunale di Milano.
Ampiamente prevedibili - dicevo - simili critiche, stante il carattere almeno apparentemente “eversivo” della tesi rispetto all’attuale impianto del t.u.; né mi stupisce il tono acceso di taluni interlocutori, che li conduce a bollare questa tesi come “manifestamente errata”, e comunque non accompagnata dalla necessaria riflessione che sarebbe stata imposta dal confronto con una materia estremamente complessa.
La posta in gioco è in effetti elevata, non solo in relazione al nudo dato quantitativo relativo al numero di imputati e di procedimenti coinvolti, ma anche a due ulteriori fattori che in vario modo preoccupano i magistrati. Da un lato, il carattere politicamente ‘caldo’ della materia: dal 2002 in poi il legislatore italiano ha sempre più decisamente puntato sul diritto penale, e in particolare sull’incriminazione chiave di cui all’art. 14 co. 5-ter, quale strumento principe di contrasto all’immigrazione clandestina; e reazioni non entusiastiche da parte del potere politico sarebbero certo da attendersi ove si imponesse l’interpretazione qui propugnata, ad aggravare ulteriormente l’attuale patologico contesto di tensione nei rapporti da politica e magistratura. Dall’altro - ed è forse il profilo che più preoccupa anche molti giudici pur fortemente critici contro l’attuale fisionomia del diritto penale dell’immigrazione - il ruolo chiave che questa tesi riconosce al giudice ordinario non solo nell’interpretazione della norma incriminatrice, ma anche nella verifica della sua legittimità al metro della sua compatibilità con fonti di carattere sovraordinato, come quelle - dotate di primazia - del diritto UE. Un ruolo, questo, certamente anomalo in un sistema imperniato su di un controllo di costituzionalità accentrato come quello italiano, che a molti continua a fare paura, in relazione ai rischi per l’uniformità e prevedibilità delle decisioni giudiziarie che ne deriverebbero.
Credo, a questo punto, che qualche precisazione si imponga, giusto per fugare gli equivoci che affiorano da talune obiezioni, e più in generale per meglio focalizzare i termini della questione.
2. Anzitutto, però, un rilievo di carattere metodologico. O meglio, uno sfogo.
Ogniqualvolta si discute di diritto comunitario e di fonti sovranazionali in genere, si sente ormai continuamente evocare espressioni come il “paradigma della complessità”, il “reticolo di fonti”, il diritto “flou” - e l’elenco potrebbe continuare a lungo. L’impressione che gli esperti di questa materia finiscono così per convogliare è che ci si trovi di fronte a una materia riservata ad iniziati, nella quale sarebbe vano cercare di orientarsi senza chissà quale bagaglio di conoscenze preliminari, che sarebbe illusorio pensare possano essere rapidamente acquisite da magistrati oberati dalle urgenze connesse all’esercizio quotidiano delle loro funzioni.
Le cose - bisogna che lo si dica apertamente, una volta tanto - non stanno così: e mi si consenta sul punto un breve riferimento personale. Quando, nel 2005, cominciai ad interessarmi alle interferenze tra diritto comunitario e diritto penale, stimolato dai dibattiti in corso sulle note vicende del falso in bilancio che riguardavano direttamente il Presidente del Consiglio, ero letteralmente a digiuno della materia, avendo compiuto i miei studi universitari - esattamente come molti magistrati oggi in servizio - in un’epoca in cui il diritto comunitario non era neppure materia obbligatoria, e in cui quasi nessun penalista, con pochissime lodevoli eccezioni, si era ancora seriamente posto il problema dell’impatto che quel diritto avrebbe avuto sul diritto penale. Nel 2005, probabilmente, neppure mi era chiara la distinzione tra il Consiglio d’Europa e l’Unione europea - per non parlare di questioni che mi apparivano francamente esoteriche come la separazione tra primo e terzo pilastro, o i compiti rispettivi della Corte di giustizia di Lussemburgo e quelli della Corte europea di Strasburgo.
Come sempre accade, però, il metodo migliore - quanto meno, il metodo più efficace per un giurista per accostarsi a terreni sino a quel momento inesplorati - è quello di partire dallo studio del singolo problema sottoposto alla sua attenzione, approfittando dell’occasione per acquisire gradatamente quel patrimonio minimo di conoscenze che permettano di individuare i termini per la soluzione, anzitutto, di quello specifico problema. Senza avere con ciò la pretesa di diventare improvvisamente degli studiosi a tutto tondo della materia; ma anche con la serena consapevolezza che il bagaglio culturale di qualsiasi giurista di professione consente di afferrare i termini essenziali di qualsiasi problema sottoposto alla sua attenzione, di accademico e a maggior ragione di pratico del diritto (quante volte accade, dopo tutto, che un giudice debba in brevissimo tempo impadronirsi, in funzione di una decisione che è tenuto a rendere in un senso o nell’altro, di questioni mai in precedenza esplorate).
L’approccio che ho personalmente seguito, e che mi pare francamente vincente - al di là naturalmente della condivisibilità o meno dei risultati cui sono pervenuto nelle mie ricerche -, è dunque quello della precisa focalizzazione del singolo problema, se vogliamo della riduzione di scala dell’angolo visuale alla singola questione che si sia volta in volta chiamati ad affrontare. In altre parola, ho sempre cercato nei miei modesti studi in materia di semplificare il problema, piuttosto che di sottolinearne ossessivamente la complessità, riducendolo a coordinate facilmente afferrabili che consentissero di metterne in luce chiaramente i pochi snodi davvero rilevanti per la decisione.
Ebbene, quella qui in esame - come molte altre questioni che concernono il rapporto tra diritto comunitario (oggi UE) e diritto penale - non presenta davvero elementi di complessità tali da non poter essere agevolmente affrontati da qualsiasi magistrato che si trovi quotidianamente ad affrontare questioni, quelle sì, in grado di far girare la testa un profano - dalla disciplina delle contestazioni a catena ex art. 297 c.p.p. all’attuale disciplina della recidiva, così come dettagliatamente scandagliata da un’imponente relazione di Guido Piffer pubblicata un paio di settimane fa su questa stessa Rivista.
Il nucleo della tesi proposta da me e Masera, in effetti, non chiama in causa questioni ancora controverse come il rango dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta di Nizza dopo il Trattato di Lisbona e il loro rapporto con la CEDU; ed anzi prescinde totalmente dalle modifiche apportate all’ordinamento UE e al suo sistema di fonti dallo stesso Trattato di Lisbona, limitandosi ad utilizzare principi consolidati da decenni nella giurisprudenza della Corte di giustizia nonché nella nostra giurisprudenza costituzionale e ordinaria sull’efficacia delle direttive nell’ordinamento italiano. Principi che il recente Trattato non ha in alcun modo modificato, rispetto ai profili che qui vengono in considerazione.
3. Assai pianamente, la tesi assume l’esistenza di un contrasto tra la disciplina di una direttiva, della quale la tesi assume altresì l’idoneità a esplicare effetti diretti nell’ordinamento italiano in relazione al suo contrasto con una norma di legge, della quale si invoca coerentemente - secondo principi pacifici presso la nostra stessa giurisprudenza - la disapplicazione.
Più precisamente ancora, il duplice nodo problematico immediato che oggi i giudici delle direttissime - e prima ancora i pubblici ministeri ai quali vengono messi a disposizione gli arrestati ex art. 24 comma 5-quinques t.u. immigrazione - si trovano ad affrontare concerne non tanto il contrasto tra l’intera disciplina dettata dalle direttiva rimpatri e l’intera disciplina del t.u. immigrazione, bensì (ecco l’esigenza di riduzione di scala e di precisa focalizzazione della quaestio!) a) l’esistenza o meno di un contrasto tra due disposizioni della direttiva - gli articoli 15 e 16, letti alla luce dello scopo della direttiva - e le specifiche disposizioni di cui ai commi 5-ter, 5-quateri e 5-quinquies del t.u., e b) l’ulteriore questione relativa a chi ( solo il legislatore, ovvero il giudice? e in questo secondo caso, il giudice ordinario, ovvero - su sollecitazione di quest’ultimo - la Corte costituzionale o piuttosto la Corte di giustizia?) debba accertare ed eventualmente rimuovere tale contrasto.
4. Due parole allora, a integrazione di quanto già osservato in precedenti occasioni (alle quali rinvio comunque per ogni dettaglio), sul primo nodo problematico.
La rilevazione di un contrasto tra due fonti presuppone, ovviamente, un’operazione preliminare di interpretazione delle fonti in supposto conflitto.
Le norme interne (che pure hanno dato e danno continuamente la stura a infinite questioni interpretative) sono chiare e univoche per quanto qui rileva: lo straniero che abbia violato l’ordine di allontanamento del questore senza giustificato motivo deve essere arrestato e finire in galera. Mi scuso per la brutalità, ma questo è proprio tutto quanto rileva ai nostri fini.
Passiamo allora agli articoli 15 e 16 della direttiva - perché, mi scuso ancora per l’insistenza, solo di queste due norme conviene in questa sede parlare. Si tratta di norme partorite in sede europea in seguito a un difficile e sofferto compromesso tra due opposte esigenze, delle quali la direttiva si fa contemporaneamente carico (come emerge evidente dalla lettura del considerando introduttivo n. 2, la cui lettura di prima mano raccomando a tutti): assicurare in tutto lo spazio giuridico UE l’effettività delle procedure di rimpatrio (in claris: assicurare che gli stranieri irregolari vengano davvero allontanati dalle frontiere UE), e al tempo stesso far sì che le procedure di allontanamento si svolgano senza un pregiudizio sproporzionato dei diritti fondamentali dello straniero, in particolare della sua libertà personale.
L’art. 15 della direttiva è la norma chiave che opera questo delicatissimo bilanciamento - non a caso, è stata la norma su cui maggiormente si è appuntato il dibattito in sede europea, e che più aspramente è stata criticata dai sostenitori dei diritti civili degli immigrati proprio perché eccessivamente sbilanciata a favore del primo interesse (l’effettività dei rimpatri) a danno della libertà personale dello straniero. Tale norma stabilisce che, nel corso della procedura amministrativa di rimpatrio, lo straniero possa essere privato della propria libertà personale, in chiave strumentale rispetto al raggiungimento della finalità della procedura, che è quella di garantire l’effettivo allontanamento dello straniero dal territorio nazionale (e più in generale dai confini dell’UE). Al tempo stesso, tuttavia, l’art. 15 stabilisce in maniera tassativa requisiti, garanzie giurisdizionali e durata massima di questa possibile limitazione di libertà, fissando così il confine ultimo oltre il quale allo Stato membro non è più lecito comprimere la libertà personale dell’immigrato; lasciando libero, beninteso, lo Stato membro unicamente di prevedere un trattamento più favorevole per lo straniero rispetto a quanto sancito dalla direttiva.
L’art. 16 della direttiva completa il quadro, fissando un principio che concerne le modalità esecutive della possibile privazione di libertà, ed enunciando la regola secondo cui essa non potrà avvenire in un istituto penitenziario: regola a cui lo Stato potrà in casi eccezionali derogare avendo cura, però, di assicurare la separazione degli stranieri sottoposti alla procedura di rimpatrio dai detenuti comuni.
Si pone, allora, il quesito se le norme italiane di cui all’art. 14 commi 5-ter, quater e quinquies del testo unico siano o meno in contrasto con gli artt. 15 e 16 della direttiva.
Anche qui, non sarà inutile una piccola premessa metodologica, giusto per rammentare principi magari non proprio ovvi. Nel sistema del diritto UE, il giudice in prima battuta chiamato a vagliare la compatibilità tra una norma di legge interna e una fonte di diritto UE è il giudice interno - e più precisamente, come meglio dirò tra qualche istante, il giudice ordinario se si tratti di fonte dotata di effetto diretto, il giudice costituzionale nel caso contrario. D’altra parte, però, spetta al giudice comunitario (e segnatamente alla Corte di giustizia) assicurare l’esatta e uniforme applicazione del diritto UE; sicché, laddove la valutazione di compatibilità o incompatibilità di una norma interna con una norma UE presupponga lo scioglimento di un dubbio circa l’esatta interpretazione della fonte UE, è alla giurisprudenza della Corte di giustizia - l’unico “interprete autentico” del diritto UE - e ai criteri interpretativi adottati usualmente da quest’ultima che il giudice interno (poco importa ora se ordinario o costituzionale) sarà chiamato a fare riferimento, eventualmente sollecitando un suo intervento attraverso lo strumento del ricorso pregiudiziale di interpretazione.
5. Ciò premesso, immaginiamoci - in via di mero esperimento intellettuale - che alla Corte di giustizia venga domani prospettata in via pregiudiziale la questione se gli artt. 15 e 16 della direttiva ostino a che lo Stato italiano continui a mantenere nel proprio ordinamento, anche dopo la scadenza del termine di attuazione della direttiva, un meccanismo che consente- continuo a essere volutamente brutale nell’esposizione, certo che i giudici sapranno essere assai più raffinati nelle loro formulazioni - di mandare in galera a titolo di reclusione conseguente a una condanna penale, per periodi in ipotesi ben superiori ai termini massimi previsti dall’art. 15 della direttiva, lo straniero che non abbia spontaneamente cooperato alla procedura di rimpatrio, non ottemperando all’ordine di allontanamento emanato dall’autorità amministrativa.
La prevedibile obiezione del governo italiano di fronte alla Corte sarebbe certamente la stessa che ho sentito continuamente evocare nei dibattiti di questi giorni da parte di molti magistrati italiani: la tesi prospettata dal giudice remittente è “manifestamente errata”, perché gli artt. 15 e 16 della direttiva si occupano soltanto del trattenimento amministrativo durante la procedura di espulsione, non già della reclusione conseguente ad una sanzione penale. Nessun dato testuale della direttiva, sosterrebbe ancora scandalizzato il nostro governo, impedisce allo Stato membro di adottare sanzioni penali contro lo straniero inottemperante all’ordine di espulsione. L’ordinamento italiano, addirittura, assicura allo straniero garanzie maggiori di quelle previste dall’art. 15, prevedendo che il trattenimento nei CIE possa durare al massimo sei mesi (contro i diciotto consentiti dalla direttiva). La direttiva non vieta però che lo straniero possa essere nel frattempo condannato in sede penale se, come accade anche al di fuori del diritto penale dell’immigrazione, abbia violato un ordine legittimo della pubblica autorità, e si sia reso così colpevole di un fatto avente un autonomo disvalore, al quale l’ordinamento interno riconnette discrezionalmente una sanzione detentiva del tutto eterogenea rispetto al trattenimento, e la cui funzione è unicamente quella di sanzionare una condotta inosservante dello straniero - non già quella di assicurare l’effettività della procedura di rimpatrio.
Immaginiamoci però - proseguendo il nostro esperimento intellettuale - quale possa essere la reazione dei giudici della Corte di fronte a simili argomenti. Signori miei, sbotterebbero verosimilmente i giudici, cerchiamo di non prenderci in giro. Gli articoli 15 e 16 della direttiva stabilisce garanzie minime per la libertà personale dello straniero durante la procedura di espulsione amministrativa che lo Stato, volente o nolente, è tenuto a rispettare, consentendo che - in caso di “mancata cooperazione dello straniero” alla procedura (art. 15 § 6) - lo Stato possa trattenere lo straniero in un apposito centro, alle condizioni e con le garanzie stabilite dalla direttiva. Se lo Stato italiano, genialmente, stabilisce che quella stessa mancata cooperazione costituisce reato, e per l’effetto manda in galera lo straniero anche in assenza dei requisiti minimi previsti dalla direttiva, senza controlli periodici sulla perdurante necessità della misura, per lassi di tempo che (isolatamente considerati o per effetto della sommatoria delle diverse condanne reiterate) possono risultare ben più lunghi di diciotto mesi, senza alcuna separazione dello straniero dai detenuti ordinari, etc.; ebbene, lo Stato italiano sta cercando in questo modo di eludere tutte le garanzie previste dagli articoli 15 e 16, frustrandone platealmente l’effetto utile di tutela di quel minimum di libertà personale dello straniero, che la direttiva medesima pretende venga inderogabilmente tutelato dallo Stato membro.
Ci dispiace, concluderebbero allora i nostri giudici euopei, ma questi trucchetti non funzionano, perché integrano una violazione del principio di leale cooperazione tra Stato membro e Unione europea, che non può essere tollerata a meno di non gettare a mare qualsiasi valenza garantistica della direttiva – già tanto criticata dalle ONG che tutelano i diritti umani dei migranti proprio per la sua eccessiva condiscendenza rispetto alle ragioni della tutela del controllo dei flussi migratori nell’UE.
Attenzione: l’argomento, così rozzamente (ma spero efficacemente) presentato, non mira a sostenere che la reclusione conseguente alla condanna penale per i delitti di cui all’art. 14 comma 5-ter o quater t.u. sia in realtà un trattenimento mascherato, né per converso che nella logica della direttiva il trattenimento possa essere concepito come sanzione per la mancata cooperazione - e chiedo qui scusa per avere forse io stesso alimentato questo fraintendimento, parlando di “truffa delle etichette”.
L’argomento è molto più semplice e lineare: l’effetto della reclusione conseguente alla condanna per i delitti in parola è quello di privare della libertà personale lo straniero durante la procedura di espulsione amministrativa - e dunque durante una procedura che rientra appieno nell’ambito di applicazione della direttiva -, in conseguenza di una sua condotta (l’inosservanza dell’ordine di allontanamento, e cioè della sua pura e semplice mancata cooperazione alla procedura medesima), che è eventualità del tutto fisiologica nell’ambito della procedura medesima, e che l’art. 15 della direttiva menziona anzi quale presupposto (§ 6) per il prolungamento sino a complessivi diciotto mesi della misura del trattenimento. Il che è esattamente quanto l’art. 15 non può tollerare: anche nel caso di mancata cooperazione dello straniero, le uniche forme di legittima limitazione della libertà personale della libertà dello straniero legittime devono essere quelle disciplinate dalla direttiva. Ogni altra limitazione è illegittima.
6. Contro questa tesi, taluno ha evocato la stessa
sentenza Kadzoev della Corte di giustizia da me e da Masera in origine citata, rilevando come quella pronuncia non consideri computabile nel termine massimo di diciotto mesi il periodo eventualmente trascorso dallo straniero in un centro di permanenza temporanea durante la
procedura di asilo politico; ricavandone l’inferenza che,
a fortiori, la Corte non computerebbe, un domani, nel periodo massimo di diciotto mesi il periodo trascorso in carcere dallo straniero per effetto di una condanna per i delitti qui in esame.
L’obiezione sarebbe certamente vincente se parlassimo di una detenzione conseguente, che so, ad un furto o a una rapina, e cioè a condotte del tutto avulse dalla procedura espulsiva in corso; ma il nostro caso concerne una condotta (quella di mancata cooperazione alla procedura espulsiva) espressamente contemplata dalla direttiva come eventualità - ripeto - fisiologica, e alla quale la direttiva consente di reagire con i soli strumenti da essa prevista. L’elemento differenziale, sotto questo profilo, rispetto al caso Kadzoev è d’altra parte ovvio: in quel caso si discuteva di una diversa procedura, quella per l’appunto di richiesta di asilo politico, la quale ha scansioni e logica tutt’affatto differente rispetto a quella di rimpatrio, che qui viene unicamente in considerazione.
7. Ci si è poi chiesto da più parti se la tesi qui sostenuta miri a sostenere la radicale incompatibilità con il sistema della direttiva di qualsiasi sanzione penale contro lo straniero “irregolare”; sottolienandosi in chiave critica da parte di taluno che una simile inferenza, già oggetto di dibattito durante i lavori preparatori della direttiva in sede europea, si scontrerebbe inevitabilmente con le legislazioni di vari Stati membri che prevedono simili incriminazioni, e sarebbe pertanto destinata a suscitare varie resistenze da parte degli stessi nel corso di un eventuale giudizio innanzi alla Corte.
Il punto è delicato, e necessita - mi pare - di qualche ulteriore precisazione.
Il problema della possibile incompatibilità con la direttiva dell’uso tout court del diritto penale quale strumento di controllo dell’immigrazione clandestina fu in effetti sollevato proprio da alcuni parlamentari italiani a Strasburgo nel corso della procedura di adozione della direttiva; e la Commissione diede in quell’occasione una risposta interlocutoria, rinviando a una possibile futura decisione sul punto da parte della Corte di giustizia. La questione fu però formulata, in quell’occasione, in relazione all’incriminazione - di allora recentissimo conio - di cui all’art. 10-bis t.u., della quale con tanta veemenza si discuteva, come se si trattasse della futura norma cardine nel contrasto all’immigrazione clandestina nell’ordinamento italiano. Una norma, quella, che prevede però una mera sanzione pecuniaria e, in alternativa, la sanzione sostitutiva dell’espulsione - un’espulsione alla quale l’immigrato irregolare sarebbe comunque già stato soggetto in via amministrativa. L’art. 10-bis non prevede, dunque, alcuna sanzione detentiva a carico dello straniero, e non interferisce pertanto in alcun modo con la disciplina di cui agli artt. 15 e 16, che qui unicamente viene in considerazione.
Certo, a questo punto ci si potrebbe chiedere - in astratto - se gli artt. 15 e 16 della direttiva ostino a che lo Stato membro possa o meno prevedere una sanzione detentiva per il mero fatto della permanenza irregolare nello Stato, ovvero una sanzione detentiva contenuta entro il massimo di diciotto mesi in conseguenza della mancata cooperazione alla procedura espulsiva, in alternativa ad es. al trattenimento amministrativo ivi disciplinato. Ma si tratterebbe di questioni aventi una rilevanza meramente speculativa, dal momento che il problema attuale - che pubblici ministeri e giudici penali italiani devono affrontare qui ed ora - concerne la compatibilità o incompatibilità con la direttiva della specifica disciplina di cui all’art. 14 commi 5-tere quater (oltre che quinquies) del t.u., che nella formulazione oggi vigente prevede pene detentive ben al di sopra di diciotto mesi, sulla base di presupposti e a condizioni del tutto eterogenee rispetto a quelle imposte dagli artt. 15 e 16 della direttiva. Questo soltanto, allora, è il problema che conviene oggi discutere.
Proprio per tale ragione, a me pare essenziale che una eventuale questione pregiudiziale rivolta alla Corte venga il più possibile pensata e formulata con riferimento alla specifica situazione normativa italiana, allo scopo di metterne in luce i macroscopici effetti elusivi della direttiva poc’anzi ricapitolati; evitando in ogni caso formulazioni troppo ampie e generiche, che giungano ad es. a postulare una radicale incompatibilità dell’uso del diritto penale nel controllo dell’immigrazione clandestina. Onde minimizzare le (prevedibili) reazioni difensive da parte di altri Stati membri, converrà insomma ben contestualizzare la questione nel quadro normativo italiano, che consente oggi di mandare in galera lo straniero “non cooperante” potenzialmente all’infinito durante la procedura espulsiva, sino a che lo Stato non sia in grado di eseguirne materialmente l’allontanamento coattivo o sino che lui stesso non si decida ad andarsene con i propri mezzi. Questo soltanto, ripeto, è il dato che occorrerà portare all’attenzione della Corte, nell’eventualità in cui si intendesse sollecitarla ad una presa di posizione sulla portata degli artt. 15 e 16 della direttiva, e sul loro “effetto utile” nell’ordinamento degli Stati membri.
8. Facciamo a questo punto un passo in avanti, e ipotizziamo che qualche lettore si sia lasciato convincere dell’incompatibilità tra gli artt. 15 e 16 della direttiva con le incriminazioni di cui all’art. 14 t.u. Il passo successivo, poc’anzi preannunciato, consiste nel domandarsi chi, nell’ordinamento italiano, debba rimuovere tale contrasto.
Una prima risposta suona tanto evidente, quanto inutile ai nostri fini. Il primo soggetto obbligato è, ovviamente, il legislatore, che è il destinatario primario degli obblighi discendenti dalla direttiva. Ma è fin troppo chiaro come il legislatore non abbia oggi granché a cuore la tutela della libertà personale degli stranieri “irregolari”, e che il primo passo che verosimilmente compirà per adeguare (tardivamente) il nostro ordinamento alla direttiva sarà semmai quello di prolungare sino a diciotto mesi il termine massimo di permanenza nei CIE, attualmente confinato a sei mesi.
Della Corte di giustizia si è sostanzialmente già detto. Il suo ruolo è quello di interpretare autoritativamente le fonti di diritto UE, non già quello di rimuovere o neutralizzare le norme interne degli Stati membri in contrasto con tali fonti. Naturalmente, una sua pronuncia sul tema sarebbe della massima importanza, perché potrebbe - se le precedenti osservazioni si rivelassero fondate - porre premesse cogenti perché i giudici italiani possano rimuovere tale contrasto; ma il completamento dell’opera resterebbe, per l’appunto, affidato a questi ultimi.
E allora, il problema si riduce a valutare se nell’ordinamento italiano competente a rilevare (eventualmente con l’ausilio di una pronuncia interpretativa della Corte di giustizia) il contrasto, e per l'effetto a rimuoverlo. sia soltanto e direttamente il giudice ordinario, ovvero in ultima istanza (su sollecitazione, ovviamente, dello stesso giudice ordinario) la Corte costituzionale.
L’alternativa è semplice, ed è stata schizzata benissimo proprio da Guglielmo Leo nel suo intervento di ieri presso il Tribunale di Milano cui ho fatto cenno all’inizio. Se agli artt. 15 e 16 della direttiva (insisto sino alla nausea, chiedendo scusa al lettore, sull’esigenza di circoscrivere il campo a queste due sole norme!) si riconosce idoneità a spiegare effetti diretti nell’ordinamento degli Stati membri, allora il compito spetterà direttamente e unicamente al giudice ordinario, risultando in radice inammissibile una questione di legittimità costituzionale avente un simile oggetto; e ciò in forza dei principi costantemente enunciati dalla Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 170/1984. Se, invece, si ritenesse di negare effetto diretto alla norme della direttiva in questione, allora la risoluzione del conflitto tra una norma di legge e la norma comunitaria dovrebbe essere sottoposta alla Corte costituzionale, sulla base del doppio parametro rappresentato dagli artt. 11 e 117 co. 1 Cost., secondo il modello recentemente adottato - ad es. - dalla sentenza n. 28/2010.
9. Ho già ampiamente motivato, in altra sede, le ragioni per le quali a mio giudizio alle norme della direttiva in questione deve riconoscersi effetto diretto; e a tali considerazioni mi limito qui a rinviare, soffermandomi solo su talune delle obiezioni che sono state nel frattempo formulate. Non senza precisare, in limine, che l’idoneità a spiegare effetto diretto non deve necessariamente afferire alla direttiva nel suo complesso, ma può pacificamente riguardare (ed anzi normalmente riguarda) singole disposizioni della direttiva medesima, che risultino chiare, incondizionate, e attributive di una posizione giuridica soggettiva favorevole all’individuo nei confronti dello Stato (caratteristica, quest’ultima, che ad es. mancava nel caso deciso dalla sentenza C. cost. 28/2010 appena menzionata, dove si discuteva del contrasto tra una norma interna che sottraeva dalla generale disciplina penale dei rifiuti una particolare categoria di sottoprodotti, che secondo la pertinente direttiva UE doveva invece a pieno titolo essere considerata come rifiuto: con effetto dunque sfavorevole per l’imputato nel giudizio a quo rispetto alle scelte compiute dal legislatore italiano).
L’obiezione fondamentale che è stata rivolta alla tesi dell’effetto diretto degli artt. 15 e 16 della direttiva concerne la loro pretesa natura “non autoapplicativa”: tali norme presupporrebbero infatti necessariamente, per la loro applicazione al caso concreto, un intervento del legislatore che disciplini nel dettaglio la misura del trattenimento e la relativa procedura; tant’è vero che le norme in questione lascerebbero libero il legislatore nazionale di esercitare la propria discrezionalità tra più opzioni disponibili, tutte compatibili con la direttiva.
L’obiezione cela a mio avviso un possibile fraintendimento, che è bene dissipare al più presto.
L’effetto diretto, che la tesi qui sostenuta ritiene debba attribuirsi alle norme in questione in relazione alle incriminazioni di cui all’art. 14 commi 5-ter e quater t.u., concerne quello che i comunitaristi chiamano effetto “di esclusione” della norma nazionale contrastante con la norma UE, e non già un effetto “di sostituzione” della norma medesima. Mi spiego: ciò che intendo sostenere è, semplicemente, che la norma UE comporti l’obbligo per il giudice italiano di disapplicare la norma incriminatrice contrastante, escludendo per l’effetto che essa venga in considerazione quale parametro di decisione del caso concreto; senza con ciò sostenere che la norma UE debba sostituirsi alla norma interna nel dettare la regolamentazione del caso concreto. Né, del resto, il giudice avrebbe alcuna necessità di applicare direttamente la norma UE sui trattenimenti al caso concreto, posto che - nell’ambito di un giudizio penale per inottemperanza all’ordine di allontanamento del questore - la direttiva UE esaurirebbe i propri effetti diretti nel paralizzare l’applicazione della norma incriminatrice. Con ciò peraltro non si produrrebbe alcuna lacuna, posto che l’impossibilità di applicare la norma incriminatrice comporta semplicemente… il riconoscimento dell’irrilevanza penale del fatto, e la conseguente assoluzione dell’imputato.
Se anche si sostensse, dunque, che la disciplina dei trattenimenti non possa essere considerata “autoapplicativa” nei confronti delle autorità
amministrative competenti ad eseguire il trattenimento (ma non è questa, si noti, l'opinione del nostro governo, come dimostra la
circolare ministeriale del 17.12.2010 del Dipartimento della pubblica sicurezza, prot. 400/B/2010, su cui tra gli altri il sito
www.meltingpot.org ha giustamente richiamato l'attenzione, la quale invita le Prefettura ad adeguarsi alla direttiva nell'emettere i provvedimenti di espulsioni con decorrenza dal 24.12.2010), ciò non osterebbe in alcun modo all’eventuale riconoscimento di un
effetto diretto “di esclusione” della medesima disciplina rispetto ad una norma incriminatrice che si sia riconosciuta con essa contrastante.
Il problema è, piuttosto, se la disciplina degli artt. 15 e 16 possa essere considerata tanto chiara e precisa da consentire al giudice di rilevare immediatamente, senza alcuna necessità di un intervento da parte del legislatore, il suo contrasto con la norma interna.
A quest’ultimo fine, però, non vedo come possa ostare al riconoscimento di un effetto diretto “di esclusione” il fatto che l’art. 15 conceda diverse opzioni al legislatore dello Stato membro. La circostanza che una direttiva lasci simili margini di discrezionalità al legislatore è, anzi, del tutto fisiologica in un sistema che affida istituzionalmente alle direttive il compito di indicare al legislatore gli obiettivi da perseguire, lasciandolo però libero - in linea di principio - sulla scelta dei mezzi; ma l’esistenza di margini di discrezionalità per il legislatore non può in alcun modo essere considerata incompatibile con il riconoscimento di un effetto diretto, ogniqualvolta almeno il legislatore nazionale abbia travalicato i confini della discrezionalità riconosciutagli dalla direttiva, introducendo o mantenendo in vita norme che si pongano al di fuori della cornice di opzioni consentitegli dalla direttiva medesima.
E questo, mi pare, è proprio ciò che accade nel caso di specie.
Limitiamoci al profilo più macroscopico della durata della privazione di libertà (ma un discorso analogo potrebbe farsi per i suoi presupposti, per le sue modalità di esecuzione, etc.). La direttiva consente al legislatore di prevedere un trattenimento sino al termine massimo di diciotto mesi. Il legislatore nazionale sarà, allora, certamente libero di prevedere che il trattenimento possa durare, in caso di mancata cooperazione dello straniero alla procedura espulsiva, sino a dodici, quindici o diciassette mesi, e tutte queste opzioni saranno considerate legittime al metro dell’art. 15 della direttiva; ma se il legislatore prevedesse un termine di diciannove mesi (o, come nel caso che qui rileva, una reclusione sino a cinque anni per tale mancata cooperazione), il suo prodotto normativo - in quanto eccedente rispetto ai margini di discrezionalità fissati in maniera chiara ed inequivocabile dalla direttiva, ed illegittimamente lesivo del diritto fondamentale alla libertà personale dello straniero - potrebbe e dovrebbe essere disapplicato dal giudice in quanto contrastante con la direttiva, che ha rango prevalente rispetto alla norma interna.
Nella misura allora in cui si ritenga che l’art. 15 vieti almeno implicitamente allo Stato membro di sottoporre lo straniero a privazioni di libertà, a qualsiasi titolo, in ragione della sua mera mancata cooperazione alla procedura espulsiva, a condizioni deteriori di quelle imposte dagli standard minimi chiari e incodnizionati dalla direttiva, spetterà al giudice ordinario offrire direttamente allo straniero quella tutela che il legislatore italiano gli ha indebitamente negato. E ciò, per l’appunto, attraverso il consolidato strumento della disapplicazione della norma incriminatrice pertinente, certamente familiare a tutti i giudici penali italiani che da tempo disapplicano norme penali in materia di raccolte di scommesse, contrassegni SIAE, e quant’altro ancora.
10. Vale forse la pena anche di ricordare, a proposito di effetto diretto degli atti comunitari, che nel sistema del diritto comunitario il giudice competente in ultima istanza a decidere sulla idoneità dell’atto a produrre effetti diretti è, ancora una volta, la Corte di giustizia - non già la Corte costituzionale, la quale è semplicemente tenuta, come ogni altra giurisdizione interna dello Stato membro, ad utilizzare allo scopo i criteri impiegati dalla Corte di giustizia per stabilire a quali condizioni l’atto UE abbia effetti diretti, e - nel caso di pronunce in termini - a conformarsi alle sue decisioni.
Nulla vieterebbe, dunque, di sottoporre in via pregiudiziale alla Corte di giustizia la questione se gli artt. 15 e 16 della direttiva abbiano o meno effetti diretti (quanto meno effetti diretti “di esclusione” della normativa interna contrastante); se non fosse che la Corte di giustizia ha in effetti già deciso una simile questione nella sentenza Kadzoev, più volte citata, sulla quale però - in considerazione dei dubbi ancora continuamente sollevati sul punto da parte di molti autorevoli voci - converrà spendere qualche parola più nel dettaglio, rinviando comunque il lettore alla lettura integrale del provvedimento.
Un tribunale amministrativo bulgaro sollevava questione pregiudiziale di interpretazione avente ad oggetto precisamente l’art. 15 della direttiva rimpatri, in un procedimento avviato dall’autorità amministrativa diretto a mantenere una misura di trattenimento già in corso nei confronti di cittadino apolide sottoposto a procedimento di rimpatrio, e del quale non era stato possibile sino a quel eseguire il rimpatrio forzato in conseguenza dell’indisponibilità ad accoglierlo da parte di tutti i paesi terzi contattati. Il tribunale amministrativo, prendendo atto dell’avvenuta trasposizione della direttiva da parte del legislatore bulgaro (più solerte, sotto questo profilo, del legislatore italiano) dubitava, tuttavia, che tale disciplina fosse conforme all’art. 15 della direttiva, e conseguentemente rinviava gli atti alla Corte di giustizia, sottoponendole una serie di questioni di interpretazione concernenti lo stesso articolo 15 della direttiva, tutte rilevanti per la decisione del procedimento a quo.
In particolare, il tribunale amministrativo sottolineava come la normativa bulgara, che in precedenza non prevedeva alcun termine massimo per il trattenimento durante la procedura di rimpatrio, prevedeva ora un termine massimo di diciotto mesi, senza disporre però (in contrasto con quanto previsto dall’art. 15 § 4 della direttiva) che lo straniero (o apolide, nel caso di specie) dovesse essere comunque immediatamente liberato qualora risultasse l’insussistenza di alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento. Il tribunale chiedeva dunque alla Corte, in sostanza, se dovesse procedere ai sensi dell’art. 15 § 4 della direttiva all’immediata liberazione dell’apolide in questione, le cui prospettive di allontanamento apparivano ormai nulle, ancorché nel caso di specie questi non disponesse non disponga di fissa dimora, tenesse un comportamento aggressivo, non disponesse di mezzi di sussistenza, etc.
All’evidenza, il tribunale amministrativo sarebbe stato incline ad accogliere la domanda di proroga del trattenimento formulata dall’autorità competente: dopo tutto, si trattava di un soggetto assai poco raccomandabile, e certamente pericoloso per la società. Tuttavia il tribunale si poneva il problema dell’eventuale contrasto della legge interna con la clausola di cui all’art. 15 § 4 della direttiva, e chiedeva conseguentemente alla Corte di giustizia di stabilire, in via interpretativa, se tale clausola, posta a salvaguardia della libertà personale della persona sottoposta alla procedura di rimpatrio, valesse anche nel caso di persona, in buona sostanza, pericolosa per l’ordine pubblico. Con ciò il giudice bulgaro dava per scontato ciò su cui noi ci stiamo oggi affannando a discutere: e cioè che l’art. 15 della direttiva ha efficacia diretta, ed è tale da dover essere direttamente applicato dal giudice interno nonostante il silenzio serbato dal legislatore. Piuttosto, il giudice interno chiedeva alla Corte di chiarire se tale norma prevedesse un’eccezione implicita all’obbligo di liberazione immediata della persona interessata, nell’ipotesi in cui questa risultasse pericolosa per l’ordine pubblico.
Netta e inequivocabile la risposta della Corte di giustizia: l’art. 15 § 4 della direttiva ha valenza incondizionata, e non soffre eccezioni, scaduto o meno che sia il termine di diciotto mesi; pertanto, laddove non sussista più alcuna prospettiva di rimpatrio, il giudice amministrativo a quo dovrà procedere all’immediata liberazione dell’interessato laddove non sussita più alcuna prospettiva effettiva di rimpatrio, ancorché questi tenga un comportamento aggressivo e non disponga di mezzi di sussistenza propri né di un alloggio o di mezzi forniti dallo Stato membro.
La Corte di giustizia ha accolto dunque l’idea, già considerata pacifica dal giudice interno, dell’effetto diretto dell’art. 15 della direttiva, chiarendo per l’appunto al giudice che l’art. 15 della direttiva gli impone l’immediata liberazione della persona interessato. Poco importa alla Corte se a tale risultato il giudice possa pervenire anche sulla base della legge interna in via di interpretazione conforme, o se sia necessaria una autentica disapplicazione di tale legge; in ogni caso, è l’art. 15 della direttiva in quanto tale che dovrà costituire la base giuridica della decisione del giudice interno, il quale dovrà così riconoscere all’interessato il diritto che la direttiva gli attribuisce, a prescindere dall’eventuale soluzione difforme adottata dal legislatore interno.
11. Chi abbia condiviso il ragionamento sin qui svolto dovrà a questo punto concludere che il compito di rimuovere il contrasto tra art. 14 co. 5-ter, quater e quinquies e le norme pertinenti della direttiva rimpatri spetta direttamente al giudice ordinario, mentre una eventuale questione di legittimità costituzionale sarebbe, in radice, inammissibile, il contrasto vertendo - per l’appunto - tra una legge ordinaria e una norma di diritto UE dotata di effetto diretto.
Ciò potrà pure provocare il rischio di una applicazione diseguale e in certa misura non prevedibile della direttiva, con giudici di merito inclini a disapplicare le norme incriminatrici in parola e altri invece che ritengano la reciproca impermeabilità tra le due normative. Ma si tratterà a) di una conseguenza inevitabile del sistema di controllo di compatibilità della norme interne con le norme UE ad effetto diretto imposto dalla Corte di giustizia sin dagli anni Settanta con la sentenza Simmenthal, e al quale la nostra Corte costituzionale ha aderito con la già menzionata sent. 170/1984; e si tratterà comunque b) di una fisiologica situazione transitoria, destinata ad essere superata non appena la Corte di giustizia avrà chiarito, su sollecitazione di un giudice di merito o del giudice di legittimità italiano, se il percorso argomentativo qui proposto sia davvero fondato.
Nell’attesa, però, il giudice ordinario - ciascun giudice delle direttissime -, e prima ancora ciascun p.m., dovranno decidere secondo la propria scienza e coscienza, valutando criticamente gli argomenti sul tappeto, magari sollecitando l'intervento dell’interlocutore naturale, che è la Corte di Lussemburgo. Ne va dei diritti fondamentali dell’imputato che oggi ed ora reclamano tutela, e rispetto ai quali il giudice è tenuto ad assumere una posizione in un senso o nell’altro.
12. Due parole ancora, prima di concludere, sui profili di diritto transitorio che concernono le procedure espulsive avviate prima della scadenza del termine di attuazione della direttiva - la totalità di quelle oggi in discussione.
Molto i giudici italiani hanno discusso, in queste settimane, della sorte degli ordini di allontanamento emanati prima di tale scadenza, sulla base di una procedura sotto vari profili difforme da quella disciplinata dalla direttiva. Sul punto, mi pare di poter incidentalmente rilevare come tali provvedimenti appaiano - almeno prima facie - legittimi, essendo stati emanati per l’appunto sulla base di una disciplina che ancora non poteva dirsi paralizzata da una direttiva della quale era ancora pendente il termine di attuazione per lo Stato italiano.
Ma non è questo il punto in discussione. Se si conviene con l’assunto di fondo circa l’effetto elusivo dell’art. 15 e 16 della direttiva prodotto delle incriminazioni di cui all’art. 14 commi 5-tere quater t.u., allora bisognerà riconoscere che oggi - al momento cioè in cui tali incriminazioni dovrebbero essere applicate a carico di uno specifico imputato - esse risultano in insanabile contrasto con una norma di diritto UE dotata di effetto diretto; e per l’effetto quelle incriminazioni (non già i provvedimenti amministrativi presupposti nel singolo caso!) dovranno essere disapplicate.
Giustamente alcuni giudici si sono posti, peraltro, l’ulteriore questione se possa comunque sanzionarsi lo straniero per la condotta omissiva tenuta prima del 25 dicembre, quando ancora l’art. 15 della direttiva non poteva produrre effetti diretti nell’ordinamento italiano. Ma altrettanto correttamente, a mio avviso, hanno concluso che, se il fatto è privo oggi di rilevanza penale, dato il contrasto dell’incriminazione con una fonte UE dotata di primato sul diritto interno, l’inottemperanza in precedente consumatasi non potrà più essere penalmente sanzionata, in forza dei principi di cui all’art. 2 co. 2 c.p.
Si potrebbe in proposito osservare che il fenomeno qui in esame non è riconducibile, in senso tecnico, al paradigma dell’abolitio criminis, non essendo verificatasi alcuna abrogazione di una norma incriminatrice, bensì - al più - la paralisi di una norma incriminatrice esistente per effetto del sopravvenire di una norma dotata di primazia rispetto ad essa, idonea a paralizzarne l’efficacia nel caso concreto (mediante l’effetto “di esclusione” di cui ho parlato poc’anzi).
Ma siamo davvero sicuri che l’art. 2 co. 2 c.p. si riferisca soltanto all’abrogazione della norma incriminatrice? Dopo tutto, la norma suona: “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato”. Se è vero, allora, che il fatto di inottemperanza all’ordine del questore oggi non può più costituire reato, in ragione dell’obbligo a carico del giudice di disapplicare la relativa norma incriminatrice, l’unica difficoltà (apparente) è quella di ricondurre la direttiva UE al concetto di “legge posteriore” utilizzata dall’art. 2 co. 2. Difficoltà apparente, però, perché mi pare pacifico che per “legge” debba intendersi qualsiasi fonte - a fortiori se dotata di primato rispetto alla legge - che abbia per effetto di escludere che un dato fatto, pur previsto da una legge penale ancora in vigore, possa ancora costituire reato. Se non magari la lettera dell’art. 2 co. 2 c.p., almeno la sua ratio risulta pienamente rispettata nel caso di specie; e, trattandosi di interpretazione in bonam partem, nessun ostacolo si opporrebbe ad ammettere persino un’applicazione analogica della norma.
Del resto, un manuale autorevole di diritto penale come quello dei miei Maestri milanesi afferma perentoriamente, addirittura, che “in tutti i casi di incompatibilità tra norma penale e diritto comunitario, se vi è stata sentenza definitiva di condanna per un fatto preveduto dalla norma penale inapplicabile, cessa l’esecuzione della condanna e ne vengono meno gli effetti penali” (Marinucci-Dolcini, Manuale di diritto penale, III ed., 2009, p. 40), in applicazione appunto dell’art. 2 co. 2 c.p.
13. Le osservazioni che precedono sono state scritte di getto, a mo’ di risposta a caldo alle molte obiezioni formulate ad una tesi che sapeva di suonare provocatoria. Mi scuso, pertanto, per le imprecisioni e approssimazioni che il lettore attento potrà certamente scovare, così come per l’insistenza con la quale ritengo di nuovamente intervenire a sostegno di questa tesi.
Sono però personalmente convinto che il giurista, e lo stesso giudice, debbano avere il coraggio di osare, quando siano intimamente convinti della bontà della propria posizione. Le questioni “facili” non fanno evolvere realmente il diritto; sono i “casi difficili” – quelli non risolti univocamente dalla lettera della norma, e per la cui soluzione occorre impugnare non solo le armi della tecnica giuridica, ma anche quelle del coraggio e dell’immaginazione – che danno il sale autentico alla nostra meravigliosa professione. Con la consapevolezza serena da parte mia, e di chi abbia condiviso il mio percorso, che l’errore - specie quando ridondi in bonam partem - potrà poi sempre essere tempestivamente corretto dalle istanze giurisdizionali superiori competenti, qualora si rivelasse davvero tale a una più approfondita riflessione. Ma anche con il desiderio sincero di contribuire, ciascuno nell’ambito dei propri limitati mezzi, a combattere una più vasta battaglia culturale, che miri a restituire al diritto penale un ambito di applicazione più consono alla sua natura di ius terribile: ultima ratio della difesa sociale contro le più intollerabili aggressioni (e quelle sole) ai valori fondamentali della convivenza civile.