A distanza di poco più di un mese dalla scadenza, prevista per il 24 dicembre 2010, del termine per l’attuazione della direttiva 2008/115/CE recante «norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare» (di seguito: “direttiva rimpatri”), il legislatore italiano non ha ancora apportato (né sembra voler procedere nelle poche settimane rimaste) le modifiche necessarie per adeguare ai nuovi obblighi di fonte europea l’attuale disciplina delle espulsioni, così come configurata dal vigente t.u. immigrazione di cui al D.lgs. n. 286/1998 e successive modifiche. Insomma, c’è da aspettarsi che tale termine debba trascorrere invano. Ne consegue l’importanza (anche) pratica della riflessione degli A. sugli obblighi che discenderebbero dalla direttiva europea in capo alla pubblica amministrazione e ai giudici italiani nell’ipotesi – non solo “accademica” – in cui il legislatore non intervenga, entro il prossimo Natale, a sanare i profili di illegittimità comunitaria della normativa vigente in materia di espulsioni. Nel caso di inerzia del legislatore, infatti, gli A. sottolineano come la pubblica amministrazione e i giudici italiani dovranno, non solo potranno, in forza del principio del primato del diritto dell’Unione europea su quello nazionale, essi stessi dare attuazione alle norme della direttiva dotate di effetto diretto, disapplicando le norme interne con essa incompatibili.
Centrale nella riflessione degli A. è la considerazione che la direttiva rimpatri persegua un duplice scopo: non solo garantire l’effettività delle procedure di rimpatrio, ma anche assicurare standard minimi di tutela dei diritti dello straniero irregolare nell’ambito di tali procedure. Come è noto, tuttavia, essa non si occupa programmaticamente degli stranieri sottoposti a respingimento alla frontiera (art. 2, co. 2 lett. a direttiva) né degli stranieri sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale (art. 2, co. 2 lett. b direttiva). Inoltre, è vero che la direttiva in sede europea ha costituito per alcuni una delusione proprio sotto il profilo dell’insufficiente tutela dei diritti umani dello straniero, ad esempio con riferimento al termine massimo di diciotto mesi previsto per il trattenimento nei centri di permanenza temporanea. Eppure, non va sottovalutato l’impatto che la nuova disciplina europea potrebbe avere in concreto nell’ordinamento italiano, la spinta in avanti che essa – come sostenuto dagli A. – potrebbe determinare proprio nella tutela dei diritti fondamentali dello straniero, in particolare della sua libertà personale, anche in assenza di un intervento diretto del legislatore.
Come evidenziato nella prima parte del saggio, infatti, sono numerose le difformità tra la vigente disciplina in materia di immigrazione del d.lgs. n. 286/1998 e gli obblighi discendenti dalla direttiva, cui occorre porre rimedio.
Le criticità riguardano anzitutto la procedura di espulsione e la disciplina del trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione (CIE), dal momento che il t.u. vigente stabilisce come regola l’espulsione coattiva immediata dello straniero (art. 13, co. 4 d.lgs. n. 286/1998) e contempla il trattenimento come unica misura coercitiva adottabile nelle more dell’allontanamento coattivo (art. 14, co. 1 d.lgs. n. 286/1998); mentre la direttiva impone di concedere allo straniero espulso un termine congruo, compreso tra sette e trenta giorni, per lasciare volontariamente il territorio (art. 7 § 1 della direttiva) e concepisce il trattenimento come misure coercitiva di ultima ratio, utilizzabile quando altre misure meno afflittive siano inadeguate ad assicurare l’obiettivo del rimpatrio (art. 15 § 1), e sempre che le condizioni che giustificano l’avvio del trattenimento (come ad es. il rischio di fuga) sussistano per la durata intera del medesimo (art. 15 § 4 direttiva).
Ma soprattutto gli A. mettono in discussione l’intero ruolo affidato dal nostro legislatore al diritto penale quale strumento di contrasto all’immigrazione clandestina, sottolineando l’incompatibilità rispetto alla direttiva rimpatri dei delitti di inosservanza dell’ordine di allontanamento del questore (art. 14 co. 5-ter e 5-quater d.lgs. 286/98), che hanno una grande importanza quantitativa nella prassi giudiziaria dei nostri tribunali. Tali incriminazioni – che puniscono con la reclusione da sei mesi a cinque anni la mera inottemperanza all’ordine di lasciare il territorio emesso dal questore nell’ambito di un procedimento amministrativo di rimpatrio – comportano una sostanziale elusione delle garanzie della direttiva europea, consentendo di prolungare la privazione della libertà personale dello straniero oltre il termine massimo di 18 mesi previsto dalla direttiva attraverso un’alternanza potenzialmente illimitata di periodi di detenzione amministrativa nei CIE e di privazioni della libertà personale conseguenti alla commissione dei suddetti delitti. È vero che la direttiva europea disciplina esclusivamente il trattenimento dello straniero nelle more del procedimento di espulsione e non si occupa, invece, della tutela della libertà personale quando la privazione della libertà medesima consegua a una sentenza penale. Tuttavia, secondo gli A., i delitti di cui all’art. all’art. 14, co. 5-ter e quater comportano una privazione della libertà personale dello straniero che è solo formalmente riconducibile a una condanna penale in quanto, sotto il profilo sostanziale, tale privazione non consegue a un fatto dotato di un disvalore autonomo e distinto rispetto alla presenza illecita nel territorio nazionale e alla mancata collaborazione dello straniero al suo rimpatrio. Conseguentemente – secondo l’approccio dei giudici europei che guarda alla sostanza più che all’inquadramento formale degli istituti – essa deve essere ricondotta nell’ambito della direttiva, pena la violazione dell’obbligo di fedeltà comunitaria che incombe sugli Stati membri.
Quanto alla contravvenzione di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato (art. dieci bis d.lgs. 286/98, introdotto dalla recente l. 94/2009), non è messa in discussione la compatibilità con la direttiva di tale incriminazione, che si limita a prevedere una pena pecuniaria o, in alternativa la sanzione sostitutiva dell’espulsione. Piuttosto, il problema è rappresentato dal tentativo del legislatore di eludere le garanzie previste dalla disciplina europea sui rimpatri, attraverso il riconoscimento della possibilità di fondare l’intero procedimento di espulsione dello straniero irregolare su un provvedimento di espulsione pronunciato da un giudice penale all’esito di una condanna ed espressamente qualificato nel diritto nazionale come sanzione penale. Secondo gli A., tuttavia, devono ritenersi esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva ai sensi dell’art. 2 § 2 lett. b solo gli stranieri che, oltre a trovarsi in condizione di irregolarità, siano stati condannati per un fatto diverso dal mero ingresso o soggiorno illecito nel territorio nazionale, ancorché tale fatto sia qualificato come reato dalla legislazione nazionale, altrimenti dovendosi escludere qualsiasi effetto utile alla direttiva medesima.
Nell’ultima parte del saggio gli A. esaminano le conseguenze che deriverebbero, nell’ordine, per la pubblica amministrazione, per i giudici di pace e per la magistratura penale nel caso in cui il legislatore non provveda entro il 24 dicembre a porre rimedio ai profili di illegittimità sopra evidenziati. L’intento perseguito, dunque, è quello di proporre un modello decisionale alle istituzioni che giocano un ruolo fondamentale nelle procedure di espulsione così come disciplinate attualmente dal t.u. in materia di immigrazione.
Le autorità amministrative avranno, anzitutto, l’obbligo di assicurare allo straniero nello stesso provvedimento prefettizio o, in mancanza, nel successivo ordine del questore, un congruo termine per la partenza volontaria. In assenza di un intervento legislativo, invece, non sarà possibile applicare, in pendenza del termine per la partenza volontaria, le misure cautelari previste dalla direttiva. Infine, secondo gli A., la radicale illegittimità della disciplina italiana in tema di trattenimento dello straniero nei CIE comporta l’obbligo per il questore di disapplicare l’art. 14 del d.lgs. n. 286/98 e conseguentemente di non disporre il trattenimento dello straniero, fino a quando il legislatore non abbia provveduto a introdurre delle misure in senso lato cautelari che rendano possibile una valutazione dell’adeguatezza al caso concreto del trattenimento medesimo.
I giudici di pace, dal canto loro, avranno il dovere di accogliere i ricorsi contro i provvedimenti di espulsione difformi dagli standard imposti dalla direttiva e di negare la convalida dei conseguenti provvedimenti del questore di accompagnamento immediato alla frontiera nonché di trattenimento nei CIE.
Infine, i giudici ordinari con riferimento ai delitti di inosservanza dell’ordine di allontanamento del questore, di cui agli art. 14 co. 5-ter e 5-quater, avranno la seguente alternativa: rilevare in via incidentale l’illegittimità di tutti i provvedimenti amministrativi presupposti emanati successivamente alla scadenza del termine di attuazione della direttiva per cui non sia stato concesso un congruo termine per la partenza volontaria, e quindi assolvere l’imputato per l’insussistenza di un presupposto del fatto; oppure disapplicare le disposizioni citate per le ragioni sopra evidenziate o, comunque, rimettere alla Corte di Giustizia la questione della compatibilità della disciplina italiana vigente rispetto alla direttiva europea.
In definitiva è evidente come, usando le parole degli stessi A., nel caso di inerzia del legislatore, la direttiva attribuisce alla magistratura «una grande opportunità» e cioè quella «di contribuire a riconquistare al rispetto dei diritti fondamentali (…) un settore dell’ordinamento [quello dell’immigrazione] in cui tali diritti – a cominciare da quello alla libertà personale – pure conclamato come inviolabile dall’art. 13 Cost. – sono rimasti per troppo tempo sullo sfondo».