1. Il dibattito che hanno sollecitato le riflessioni di Francesco Viganò e Luca Masera sulla legittimità comunitaria della vigente disciplina penale in materia di espulsioni ci conduce nel preciso punto di intersezione tra diversi settori del diritto: regolamentazione amministrativa dei flussi migratori, diritto comunitario e diritto penale. Un punto cardinale da cui è possibile osservare, più che – ed oltreché – la complessità dell’attuale panorama delle fonti del diritto penale, la preoccupante e profonda trasformazione che sta ridisegnando, e non solo in Italia, il volto del controllo penale. Non un alibi, dunque, ma una ragione in più per ‘sporcarsi le mani’ con un hard case, come quello proposto dagli autori.
2. Il dibattito si fa ancor più interessante se si considera l’obiettivo dichiarato degli autori e già recepito da alcuni giudici italiani: sollevare una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia al fine di ottenere una pronuncia suscettibile di riverberarsi sulla disapplicazione della vigente disciplina in materia di espulsioni ed in particolare delle fattispecie incriminatrici dell’inottemperanza all’ordine di allontamento del Questore, previste dai commi 5ter e 5quater dell’art. 14 Testo Unico sull’immigrazione. È dunque in questa prospettiva che mi permetto di aggiungere qualche ulteriore considerazione, al fine di poter ‘calibrare al meglio il tiro’ contro una legislazione ignobile che, pur tuttavia, ha già dimostrato una particolare capacità di resistenza ai principi riconosciuti dalla nostra Costituzione.
3. Non è infatti escluso – ed anzi è piuttosto probabile – che la Corte di giustizia si muoverà con estrema cautela nell’interpretazione della normativa comunitaria in materia di immigrazione, cercando di limitare al minimo le conseguenze del proprio intervento sulle procedure di rimpatrio previste negli ordinamenti nazionali. D’altronde, se le Corti costituzionali nazionali (penso a quella italiana, ma anche al Conseil constitutionnel francese) hanno già dato prova di estrema cautela negli interventi sulla torsione repressiva delle legislazioni nazionali in materia di immigrazione irregolare, è verosimile ipotizzare che con ancor maggior cautela si muoverà la Corte di giustizia. E non solo per la sua tradizionale reticenza ad entrare ‘nel merito’ delle scelte punitive adottate dagli Stati membri, ma anche per la particolarità del settore dell’immigrazione che, nonostante la sua comunitarizzazione, si caratterizza per una delicata ripartizione di competenze tra Unione e Stati membri. Tuttavia, tra il «pessimismo della ragione», peraltro già manifestato da alcuni commentatori, e l’«ottimismo della volontà», di cui si son fatti portatori Viganò e Masera, mi sembra che una sintesi sia, oltreché auspicabile, anche possibile.
a) Sulla diretta applicabilità della direttiva comunitaria.
4. Una prima considerazione riguarda il carattere auto-applicativo della ‘direttiva rimpatri’, ossia la sua idoneità a spiegare effetti diretti nell’ordinamento degli Stati membri all’indomani della scadenza del termine previsto per il suo recepimento e a costituire un parametro di legalità della norma interne, determinandone la disapplicazione in caso di contrasto. In ragione dei diversi significati che la dottrina comunitarista attribuisce al concetto di diretta applicabilità, nonché delle molteplici nuances applicative che la stessa Corte di giustizia ha elaborato nella sua copiosa giurisprudenza in merito, non mi sembra necessario, né tantomeno utile al dibattito, aggiungere ulteriori argomenti a favore del carattere auto-applicativo o non auto-applicativo della direttiva. Su tale punto non resterà pertanto che sollecitare una pronuncia della Corte di giustizia, che peraltro non dovrebbe essere pregiudicata dalla previa risoluzione della questione.
5. In attesa di tale pronuncia e per rimanere nel ‘perimetro’ del dibattito, si può tuttavia assumere come postulato il carattere non auto-applicativo della direttiva comunitaria. Si accoglieranno così le tesi prospettate da Focardi ed Epidendio, i quali non hanno di certo torto quando affermano che le norme contenute nella direttiva mancano di chiarezza e precisione e, come tali, non possono essere direttamente applicate negli ordinamenti nazionali senza la mediazione normativa degli Stati membri. D’altronde, anche volgendo lo sguardo oltralpe, è possibile rilevare come il progetto di legge che modifica il Code de l'entrée et du séjour des étrangers et du droit d'asile (CESEDA) – che tra l’altro già prevedeva l’adempimento volontario dell’obbligo di rimpatrio come regola – in attuazione della direttiva in esame introduca una normativa estremamente dettagliata proprio in recepimento degli articoli 7 e 15 della direttiva (dalla individuazione delle situazioni in cui è possibile prorogare il termine per la partenza volontaria e delle situazioni ostative alla concessione del termine per la partenza volontaria alla introduzione di misure meno coercitive rispetto al trattenimento, come l’assignation à résidence avec surveillance électronique).
6. Tale postulato non impedisce però di rilevare il carattere chiaro, preciso e dettagliato delle norme comunitarie che disciplinano sia i limiti assoluti ed esterni sia la funzione o lo scopo del trattenimento del cittadino di uno Stato terzo in situazione irregolare. Dalla lettura combinata dell’articolo 15, nn. 5 e 6 della direttiva e del considerando n. 16, emerge infatti un dato difficilmente confutabile: il diritto comunitario legittima il trattenimento di uno straniero irregolare «soltanto per preparare il rimpatrio o effettuare l’allontanamento» e per un periodo massimo di sei mesi, eventualmente prorogabile per un ulteriore periodo di dodici mesi in ragione della mancata cooperazione da parte del cittadino di un paese terzo interessato o dei ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai paesi terzi. Il carattere precettivo, e non programmatico, di tali norme appare evidente. Come ha correttamente rilevato Viganò, si può giungere a tale conclusione, oltre che sulla base del dato testuale, attraverso la lettura della sentenza Kadzoev, prima - e ad oggi unica - pronuncia della Corte di giustizia sulla direttiva in esame.
7. Con tale sentenza, alla quale i primi commentatori hanno non a caso riconosciuto un rilievo politico ed istituzionale che va ben al di là della stretta interpretazione delle disposizioni oggetto delle questioni preliminari, la Corte di giustizia ha infatti stabilito in termini perentori anzitutto il carattere imperativo del limite massimo del trattenimento contenuto nell’articolo 15, nn. 5 e 6. Ed invero, sulla prima questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale amministrativo di Sofia ed avente ad oggetto il computo nel periodo di diciotto mesi del trattenimento subito prima che divenisse applicabile il regime introdotto dalla direttiva, la Corte ha affermato che «se il periodo di trattenimento ai fini dell’allontanamento subìto prima divenisse applicabile il regime previsto dalla direttiva 2008/115 non fosse preso in considerazione ai fini del calcolo della durata massima del trattenimento, le persone che si trovassero in una situazione come quella del sig. Kadzoev potrebbero formare oggetto di un trattenimento che supera i periodo massimi previsti dall’art. 15, nn. 5 e 6». Richiamando anche in materia di immigrazione la nota giurisprudenza sugli effetti delle direttive, in virtù della quale gli Stati hanno l’obbligo ancor prima dello spirare del termine di recepimento di astenersi dal comprometterne la finalità, la Corte arriva così a censurare l’interpretazione proposta, perché «non conforme alla finalità perseguita dalle citate disposizioni della direttiva 2008/115, che consiste nel garantire, in ogni caso, che il trattenimento ai fini dell’allontanamento non ecceda i diciotto mesi (§§ 34-37, corsivo nostro)».
8. Anche in merito alla funzione o allo scopo del trattenimento previsto dalla direttiva, l’orientamento della Corte sembra piuttosto univoco, nel momento in cui afferma che «l’assenza di ragionevoli prospettive di allontanamento caduca il fondamento giustificativo del trattenimento». Con la conseguenza che lo straniero in situazione irregolare dovrà essere rimesso immediatamente in libertà. Su tale punto, la posizione dei giudici di Lussemburgo sembra convergere con la posizione dei giudici di Strasburgo che, come è noto, subordinano la legittimità di qualsiasi privazione della libertà individuale alle condizioni indicate dall’articolo 5 CEDU. Come affermato anche dall’Avvocato Generale Mazak nella Presa di posizione del 10 novembre 2009, i limiti ed il vincolo di scopo del trattenimento previsti dalla direttiva sono «anche espressione del principio di proporzionalità», con la conseguenza che «il trattenimento preliminare all’allontanamento deve essere quanto più breve possibile e deve essere mantenuto solo per il tempo necessario al diligente espletamento delle modalità di rimpatrio». In virtù dei dettami dell’art. 15 della direttiva, «il trattenimento di una persona ai fini dell’allontanamento deve cessare non appena possibile e diviene illegittimo laddove le condizioni «concrete» del trattenimento definite da tale articolo – in particolare il fatto che il meccanismo di rimpatrio sia in corso e venga eseguito con tutta la diligenza necessaria, e che esista una prospettiva ragionevole di allontanamento – cessano di sussistere o, in ogni caso, al termine della durata massima di trattenimento calcolata ai sensi dell’articolo 15, nn. 5 e 6, di tale direttiva (§ 49-53, corsivo nostro)».
9. In conclusione su tale primo punto, mi sembra che sussistano allo stato sufficienti elementi per sostenere il carattere auto-applicativo almeno dei limiti assoluti e della funzione del trattenimento previsti dall’articolo 15, nn. 5 e 6 della direttiva. Tali norme introducono infatti a livello comunitario un vero e proprio diritto soggettivo che potrà essere direttamente applicato negli Stati membri ed invocato nei giudizi nazionali come parametro per la review of legality della norma interna, così da determinarne in caso di contrasto la disapplicazione. Così individuato a minina il nucleo auto-applicativo della direttiva, è possibile passare all’analisi dei rapporti tra la disciplina comunitaria e la vigente disciplina amministrativa e penale prevista nell’ordinamento italiano, decisamente più rilevante ai fini della proposizione tanto di una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia quanto di una questione legittimità dinanzi alla Corte costituzionale.
b) Sui rapporti tra la disciplina amministrativa di rimpatrio vigente nell’ordinamento italiano e la direttiva comunitaria.
10. Non essendovi alcun dubbio sul rapporto di interferenza tra le due discipline, si può passare direttamente all’analisi del loro rapporto di compatibilità/incompatibilità.
11. Come è ormai noto, alla luce dell’art. 7 della direttiva il rimpatrio deve essere disposto, di norma, non con misure coercitive, ma attraverso l’adempimento volontario da parte del cittadino straniero. A tale scopo gli Stati membri devono fissare un periodo congruo, che il legislatore comunitario individua in un periodo variabile da sette a trenta giorni e che può essere eventualmente concesso anche solo su richiesta dell’interessato. Il termine per la partenza volontaria può essere prorogato in situazioni specifiche, come la presenza di bambini che frequentano la scuola o di altri legami familiari e sociali. Nel caso in cui venga concesso il periodo di partenza volontaria, lo Stato potrà imporre allo straniero l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria adeguata, la consegna di documenti o l’obbligo di dimorare in un determinato luogo.La direttiva non esclude l’adempimento forzato dell’obbligo di rimpatrio, ma esso sarà possibile, oltreché nel caso di mancato adempimento dell’obbligo di rimpatrio entro il periodo fissato per la partenza volontaria, solo in presenza di concreto rischio di fuga dello straniero, quando la sua domanda di soggiorno sia stata respinta perché manifestamente infondata o fraudolenta, o quando questi costituisca un pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale. La direttiva non esclude infine neanche il trattenimento dello straniero. Tuttavia, come si è già detto, il legislatore comunitario ne ha fissato in termini imperativi i limiti esterni ed il vincolo di scopo, subordinando il trattenimento al principio di proporzionalità per quanto riguarda i mezzi impegnati e gli obiettivi perseguiti. Sarà pertanto possibile disporre il trattenimento dello straniero irregolare solo nel caso in cui misure meno coercitive non siano applicabili. Infine, il trattenimento dovrà essere quanto più breve possibile, dovrà essere mantenuto solo per il tempo necessario al diligente espletamento delle modalità di rimpatrio e dovrà terminare qualora non sussistano più ragionevoli prospettive di rimpatrio.
12. Passando alla procedura di rimpatrio attualmente vigente nell’ordinamento italiano, la legge Bossi-Fini ha fatto dell’adempimento forzato dell’obbligo di rimpatrio la regola della procedura di rimpatrio, prevedendo l’adempimento volontario unicamente come ipotesi residuale. L’espulsione è infatti «sempre eseguita dal questore con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, ad eccezione dei casi di cui al comma 5» del T.U. (art. 13, comma 4 T.U.) che, come è noto, sono stati ulteriormente estesi per opera della giurisprudenza. Quando non sia possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante l’accompagnamento alla frontiera, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea più vicino per trenta giorni. Tale periodo di trattenimento, che dovrà essere convalidato dal giudice di pace territorialmente competente, potrà essere prorogato per un periodo di ulteriori trenta giorni, «qualora l’accertamento dell’identità e della nazionalità, ovvero l’acquisizione di documenti per il viaggio presenti gravi difficoltà». Una proroga di sessanta giorni potrà essere concessa in caso di mancata cooperazione al rimpatrio del cittadino del paese terzo interessato o di ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai paesi terzi; il trattenimento sarà infine ulteriormente prorogabile par altri sessanta giorni nel caso in cui persistano tali condizioni, nonostante sia stato compiuto ogni ragionevole sforzo per dare esecuzione all’espulsione. Va tuttavia rilevato come nella prassi la procedura di rimpatrio prevista dal legislatore italiano abbia subito una torsione: nella stragrande maggioranza dei casi non viene data esecuzione all’espulsione mediante il trattenimento, ma mediante la notifica allo straniero di un ordine di allontanamento, la cui inottemperanza è sanzionata, salvo giustificato motivo, con pene draconiane.
13. A completamento della descrizione della normativa italiana di settore, va citata anche la recente Circolare 400/B/2010 del 17 dicembre 2010. Alla luce di tale atto amministrativo, la procedura di rimpatrio prevista dall’ordinamento italiano dovrebbe essere parzialmente ‘corretta’ attraverso l’adesione degli organi amministrativi e di sicurezza deputati alla gestione degli stranieri in situazione irregolare alle ‘direttive operative’ redatte dal Ministero dell’Interno. Nelle intenzioni del Governo italiano, questi ultimi potranno – e dovranno – garantire l’adeguamento della vigente procedura di rimpatrio al dispositivo «ad intensità graduale crescente» previsto dall’ordinamento comunitario. Secondo quanto prescritto nella Circolare, i funzionari di P.S. dovranno infatti valutare attentamente la posizione di ogni straniero che soggiorna illegalmente sul territorio nazionale. Sulla base delle informazioni così assunte, essi dovranno verificare in primo luogo la sussistenza di motivi ostativi alla concessione allo straniero di un termine per la partenza volontaria, quali la presentazione di una domanda di soggiorno infondata o fraudolenta, il pericolo per l’ordine pubblico, ecc., o il rischio di fuga dello straniero. Per quanto riguarda il trattenimento «per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento», esso potrà essere disposto solo «a condizione che non possano essere applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive».
14. Nonostante tutto l’apprezzamento che si può manifestare per lo sforzo compiuto dal Governo italiano al fine di tentare in via amministrativa un adeguamento della vigente disciplina in materia di espulsioni alle garanzie previste dalla direttiva comunitaria, appare dubbio che una siffatta ‘interpolazione’ del testo normativo nazionale sia di per sé possibile, nonché sufficiente a garantire la legittimità comunitaria della procedura di rimpatrio prevista dall’ordinamento italiano. Come è stato correttamente rilevato, la Circolare propone una lettura praeter legem, o addirittura contra legem, della vigente disciplina in materia di espulsioni. I funzionari di P.S. dovrebbero infatti concedere ai cittadini di paesi terzi in situazione irregolare un termine per la partenza volontaria in casi non previsti dall’articolo 13, comma 5 del T.U. e dovrebbero valutare il ricorso a misure finalizzate al rimpatrio meno coercitive del trattenimento di cui non vi è traccia nell’ordinamento nazionale. Infine, anche se tale ‘interpolazione’ fosse possibile, essa non sarebbe di certo sufficiente ad obliterare la patente illegittimità comunitaria del dispositivo nazionale, in quanto la circolare nulla dice in merito ai meccanismi di riesame delle condizioni di trattenimento previste dall’art. 15 della direttiva che costituiscono un ulteriore requisito del carattere proporzionale del dispositivo comunitario.
15. Poiché sulla base di considerazioni analoghe si può altresì escludere la possibilità di un’interpretazione conforme della disciplina vigente da parte degli organi giudiziari, il giudice di pace - in sede di convalida del provvedimento di accompagnamento alla frontiera, di convalida del provvedimento che dispone il trattenimento dello straniero e di proroga del termine per il trattenimento - dovrà sottoporre alla Corte costituzionale la risoluzione del contrasto tra la disciplina nazionale in materia di rimpatrio e la disciplina comunitaria, sollevando una questione di legittimità costituzionale per violazione del parametro interposto costituito dagli articoli 11 e 117 Cost. In ragione di quanto già precisato dalla Corte di giustizia nella sentenza Kadzoev, mi sembra invece che, in caso di richiesta di proroga del termine del trattenimento, il giudice di pace possa disapplicare direttamente la normativa nazionale, ordinando la liberazione dello straniero anche prima del termine di centottanta giorni previsto dall’articolo 14, comma 5 T.U., ogni qual volta venga dimostrato che, nonostante il procedimento di rimpatrio sia in corso e venga eseguito con tutta la diligenza necessaria, non esista più una prospettiva ragionevole di rimpatrio dello straniero.
c) Sul contrasto tra la direttiva comunitaria e le fattispecie incriminatrici previste dai commi 5ter e 5quater del T.U.
16. Resta dunque da verificare se le fattispecie incriminatrici previste dai commi 5ter e 5quater dell’articolo 14 T.U. possano continuare ad essere applicate anche dopo lo spirare del termine per il recepimento della direttiva. Secondo Viganò e Masera, infatti, tali norme incriminatrici avrebbero ormai il destino segnato, in quanto la reclusione conseguente alla condanna per i delitti in parola (fino a 5 anni!) avrebbe l’effetto di privare lo straniero della libertà personale durante la procedura di espulsione amministrativa e dunque durante una procedura che rientra appieno nell’ambito di applicazione degli artt. 15 e 16 della direttiva, in conseguenza di una sua condotta, l’inosservanza dell’ordine di allontanamento e cioèdella sua pura e semplice mancata cooperazione alla procedura medesima. Esattamente quanto la direttiva comunitaria non potrebbe tollerare: anche nel caso di mancata cooperazione dello straniero, le uniche forme di legittima limitazione della libertà personale devono essere infatti quelle previste dagli artt. 15 e 16 della direttiva.
17. Anche in proposito, mi sembra che alcune precisazioni possano contribuire ad agevolare il compito dei giudici, nazionali e comunitari, nell’ambito dell’ormai imminente contenzioso comunitario sulla materia. Alla luce della legislazione vigente, l’ordine del questore di lasciare il territorio, la cui inottemperanza determina l’applicazione delle pene previste dai citati commi, può infatti intervenire in due ipotesi: a) nel caso in cui non sia stato possibile trattenere lo straniero presso un centro di identificazione; b) nel caso in cui la permanenza in tale struttura non abbia consentito l’esecuzione con l’accompagnamento alla frontiera dell’espulsione. Tale distinzione appare a mio avviso determinante ai fini di una futura decisione in merito alla ‘illegittimità comunitaria’ delle richiamate fattispecie incriminatrici.
18. Ed invero, nel caso in cui l’ordine del questore venga emesso a seguito del trattenimento presso il CIE, la procedura di rimpatrio, ossia il processo di ritorno di un cittadino di un paese terzo, sia in adempimento volontario di un obbligo di rimpatrio sia forzatamente (art. 3, n. 3 della direttiva), ancorché con esito negativo, si è ormai conclusa. E, con essa, può considerarsi esaurito anche l’ambito di applicazione della direttiva. Mi sembra infatti difficile sostenere che nel caso di specie si verifichi un’ipotesi di interferenza tra gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice (emissione dell’ordine di lasciare il territorio nazionale ed inottemperanza da parte del destinatario) e la procedura di rimpatrio. La fattispecie incriminatrice di mera disobbedienza si colloca infatti ‘al di fuori’ del dispositivo amministrativo di espulsione, regolamentato tanto a livello nazionale che comunitario. Mutuando la terminologia dalla teoria degli insiemi, si potrebbe dire che in tal caso la relazione tra i due insiemi normativi (penale-nazionale e ammistrativo-comunitario) non si configura in termini di intersezione ma in termini di disgiunzione.
19. D’altronde - e tralasciando la questione del carattere manifestamente sproporzionato ed irragionevole delle sanzioni e del trattamento processuale previsti dalla normativa attualmente in vigore - una fattispecie incriminatrice così costruita può trovare la propria giustificazione anche alla luce dell’ordinamento nazionale. Non mi sembra infatti che l’inottemperanza all’ordine di allontanamento sia finalizzata a sanzionare surrettiziamente la «mancata cooperazione» dello straniero nell’ambito della procedura di rimpatrio (che è invece presupposto del suo trattenimento in un CIE oltre il termine di 60 giorni), quanto piuttosto la sua «indifferenza» rispetto ad un dispositivo (l’ordine di allontanamento) che costituisce l’extrema et ultima ratio prevista dall’ordinamento nel caso in cui non sia stato possibile, per motivi di ordine giuridico o per altri motivi, procedere al rimpatrio o all’allontamento dello straniero in situazione irregolare né mediante la sua partenza volontaria né mediante l’esecuzione forzata ad opera dello Stato. Ipotesi peraltro veramente residuale se si considera che, solo in casi eccezionali, l’esecuzione forzata del rimpatrio ha esito negativo. E se la direttiva comunitaria impone da un canto il rilascio dello straniero nell’ipotesi in cui non si è potuto realizzare il suo allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi, d’altro canto essa nulla (volutamente) dice in merito ai dispositivi che possono essere introdotti a livello nazionale per disciplinare tale situazione.
20. Diverso è invece il caso in cui l’ordine di lasciare il territorio entro il termine di cinque giorni sia emesso dal questore perché non sia stato possibile il trattenimento (ipotesi tipica: per mancanza di posti) né in un centro di permanenza temporanea né in uno spazio separato di un istituto penitenziario. In tal caso il rapporto tra il dispositivo penale ed il dispositivo comunitario si configura chiaramente in termini di intersezione: la fattispecie incriminatrice di inottemperanza all’ordine del questore si ‘innesta’ infatti nella procedura di rimpatrio e ne diviene parte integrante, attirando nel circuito penale e repressivo lo straniero destinatario di una decisione di rimpatrio. Ma il rapporto si configura altresì in termini di incompatibilità: la procedura di rimpatrio così configurata si pone infatti in contrasto con il contenuto precettivo della direttiva che, come si è ampiamente detto, vincola il trattenimento dello straniero disposto nell’ambito di una procedura di rimpatrio al limite temporale di diciotto mesi ed alla precisa funzione di preparare il rimpatrio o effettuare l’allontamento dello straniero in situazione irregolare. In effetti, il legislatore italiano ha creato ‘per gemmazione’ una procedura di espulsione alternativa, che, mediante la perniciosa combinazione di inefficienza amministrativa e volontà di neutralizzazione della presunta pericolosità sociale del nemico-clandestino, introduce nel procedimento di rimpatrio delle ‘parentesi punitive’ che sono manifestamente illegittime alla luce del diritto comunitario. ‘Illegittimità’ o ‘irragionevolezza comunitaria’, attestata a fortiori dalla previsione di un ritorno alla procedura amministrativa di rimpatrio nell’ipotesi in cui lo Stato rinunci alla detenzione in carcere dello straniero. In ragione di tale incompatibilità, il giudice ordinario dovrà disapplicare la fattispecie incriminatrice prevista dal comma 5ter – e con essa anche la fattispecie prevista dal comma 5quater di cui la prima costituisce il presupposto giuridico – nell’ipotesi in cui l’ordine del questore e le conseguenti sanzioni penali diventino parte integrante della procedura di rimpatrio, con conseguente assoluzione dell’imputato perché «il fatto non sussiste».
d) Conclusioni
Alla luce di queste brevi considerazioni, si può tentare di giungere alle seguenti conclusioni.
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Spetterà alla Corte di giustizia pronunciarsi sulla diretta applicabilità delle norme comunitarie in materia di rimpatrio contenute nella direttiva. In attesa di una pronuncia sul punto, può tuttavia individuarsi un ‘nucleo auto-applicativo’ della direttiva corrispondente ai limiti assoluti ed esterni ed il vincolo di scopo del trattenimento previsti dall’art. 15, nn. 5 e 6 della direttiva.
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In sede di convalida del provvedimento di accompagnamento alla frontiera, di convalida del provvedimento che dispone il trattenimento dello straniero e di proroga del termine per il trattenimento, il giudice ordinario dovrà sottoporre alla Corte costituzionale la risoluzione del contrasto tra la disciplina amministrativa in materia di rimpatrio prevista dalla legislazione nazionale e la disciplina comunitaria sulla base del parametro interposto rappresentato dagli articoli 11 e 117 Cost.
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In sede di proroga del termine per il trattenimento, il giudice ordinario dovrà invece disapplicare la normativa nazionale, ordinando la liberazione dello straniero anche prima del termine di centottanta giorni previsto dall’articolo 14, comma 5, ogni qual volta venga dimostrato che, nonostante il procedimento di rimpatrio sia in corso e venga eseguito con tutta la diligenza necessaria, non esista più una prospettiva ragionevole di rimpatrio dello straniero.
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Non si verifica un’ipotesi di interferenza tra la normativa comunitaria e la normativa nazionale, laddove quest’ultima preveda una sanzione penale per l’inottemperanza dell’ordine del questore di lasciare il territorio nazionale, nell’ipotesi in cui il trattenimento non abbia consentito per motivi giuridici o per altri motivi l’allontanamento dello straniero.
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Si verifica invece un’ipotesi di interferenza tra la normativa comunitaria e la normativa nazionale nel caso in cui l’ordine del questore di lasciare il territorio nazionale venga emesso in sostituzione del trattenimento. In questo caso, l’atto amministrativo dovrà essere dichiarato illegittimo perché incompatibile con i limiti assoluti e la funzione del trattenimento prescritti dalla normativa comunitaria e le sanzioni penali disapplicate per violazione delle garanzie riservate allo straniero dalla normativa comunitaria. La fattispecie incriminatrice prevista dal comma 5ter – e con essa anche la fattispecie prevista dal comma 5quater di cui la prima costituisce il presupposto giuridico – dovrà pertanto essere disapplicata dal giudice nazionale perché in contrasto con la normativa comunitaria, con conseguente assoluzione dell’imputato perché «il fatto non sussiste».
Tale risultato mi sembra difficilmente confutabile alla luce del contenuto della direttiva comunitaria e della giurisprudenza Kadzoev della Corte di giustizia. In caso di dubbio, il giudice ordinario potrà sollevare una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia, così formulata: «se l’articolo 15, nn. 5 e 6 della direttiva 115/08/CE osti ad una normativa nazionale che, a prescindere dalla sua qualifica in diritto interno, dispone il trattenimento di un cittadino di un Paese terzo in soggiorno irregolare già destinatario di una decisione di rimpatrio per un periodo superiore al limite massimo di 18 mesi stabilito dalla direttiva e, comunque, non finalizzato a preparare il rimpatrio o ad effettuare l’allontanamento».