1. Con la sentenza qui pubblicata in allegato, la Corte di giustizia dell’Unione ha statuito – in risposta a un quesito pregiudiziale di interpretazione sottopostole dalla Corte d’Appello di Trento – che “la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo”.
2. Dopo avere dato conto della normativa UE e interna di riferimento, la Corte ha osservato che il procedimento a quo concerneva un cittadino di un paese terzo entrato illegalmente in Italia e privo di permesso di soggiorno, che era stato condannato in primo grado a un anno di reclusione per il delitto di cui all’art. 14 co. 5 ter t.u. imm. per non avere ottemperato all’ordine di allontanamento emesso nel maggio 2010 sulla base di un decreto prefettizio di espulsione risalente addirittura al 2004. La Corte d’Appello di Trento, investita dell’impugnazione contro la sentenza di condanna, aveva quindi chiesto alla Corte di giustizia, con provvedimento in data 2 febbraio 2011, di valutare se l’incriminazione italiana fosse o meno compatibile con gli articoli 15 e 16 della direttiva 2008/115/CE, i quali disciplinano presupposti, modalità e limiti del trattenimento dello straniero in appositi centri di permanenza temporanea durante la procedura amministrativa di rimpatrio.
La Corte d’Appello trentina aveva chiesto espressamente che il ricorso fosse trattato in via di urgenza ai sensi dell’art. 104 ter del regolamento di procedura della Corte, dal momento che il procedimento concerneva un imputato in stato di custodia cautelare. Su conforme parere dell’Avvocato generale, la Corte di giustizia ha accolto tale richiesta e ha così definito il procedimento nell’arco di meno di tre mesi dal ricevimento degli atti.
3. Sul merito della questione sottopostale, la Corte osserva anzitutto che la direttiva rimpatri nel suo complesso, come evidenziato dal suo secondo considerando introduttivo, “persegue l’attuazione di un’efficace politica in materia di allontanamento e rimpatrio basata su norme comuni affinché le persone interessate siano rimpatriate in maniera umana e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità”, fissando in proposito regole che lo Stato membro può derogare soltanto in senso più favorevole per lo straniero.
Tali regole prevedono, anzitutto, che di regola la procedura di rimpatrio debba essere eseguita su base volontaria, attraverso una decisione di rimpatrio che fissa allo straniero un congruo termine per lasciare il territorio nazionale, salve le eccezioni espressamente stabilite dall’art. 7 della direttiva. Nell’ipotesi poi in cui lo straniero non abbia lasciato spontaneamente il territorio nazionale entro il termine concessogli, ovvero non sia stato sin dall’inizio concesso alcun termine, lo Stato membro è tenuto, in forza dell’art. 8, a procedere all’allontanamento, prendendo tutte le misure necessarie, comprese, all’occorrenza, misure coercitive, in maniera proporzionata e nel rispetto, in particolare, dei diritti fondamentali.
Nell’ipotesi in cui l’esecuzione immediata dell’allontanamento non sia possibile, e laddove ogni altra misura coercitiva meno afflittiva non risulti sufficiente nel caso concreto, l’articolo 15 della direttiva consente allo Stato di trattenere lo straniero in un centro di permanenza temporanea per un periodo massimo di sei mesi, prorogabile in casi particolari sino a complessivi 18 mesi, assicurando comunque il riesame periodico della persistente necessità della misura coercitiva rispetto allo scopo di eseguire l’allontanamento, ed evitando di regola che lo straniero venga collocato in un istituto penitenziario.
La Corte sottolinea in proposito (§ 42) che il ricorso alla misura del trattenimento – ossia alla “misura più restrittiva della libertà che la direttiva consente nell’ambito di una procedura di allontanamento coattivo” – è regolamentato in maniera precisa e stringente dalla direttiva, “segnatamente allo scopo di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini interessati dei paesi terzi”, rilevando più in particolare (§ 43) come la fissazione di un termine di durata massima inderogabile del trattenimento abbia “lo scopo di limitare la privazione della libertà dei cittadini di paesi terzi in situazione di allontanamento coattivo”, come già ritenuto dalla Corte di giustizia nel precedente caso Kadzoev del 2009 e conformemente ai principi espressi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale il trattenimento dello straniero durante la procedura amministrativa di espulsione deve avere durata quanto più breve possibile, e non deve mai protrarsi oltre il tempo strettamente necessario per raggiungere lo scopo dell’allontanamento.
4. Alla luce di tali principi, la Corte vaglia dunque la compatibilità della disciplina penale italiana con la direttiva 2008/115/CE.
In primo luogo, la Corte riconosce effetto diretto alle pertinenti disposizioni della direttiva, essendone scaduto il termine di attuazione senza che lo Stato italiano abbia provveduto alla sua trasposizione, e trattandosi di norme chiare e incondizionate (§§ 46-47).
In secondo luogo, la Corte osserva che l’art. 8 § 4 della direttiva consente allo Stato di adottare tutte le misure coercitive indispensabili per eseguire la decisione di rimpatrio mediante l’allontanamento dello straniero, comprese misure di carattere penale, “atte segnatamente a dissuadere tali cittadini dal soggiornare illegalmente nel territorio di detti Stati” (§ 52).
Tuttavia, eventuali misure di carattere penale dovranno esse stesse risultare compatibili con il diritto dell’Unione, e non dovranno comunque essere tali da “compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e da privare così quest’ultima del suo effetto utile” (§ 55).
Dal momento che la direttiva subordina espressamente l’uso di misure coercitive al rispetto dei principi di proporzionalità e di efficacia per quanto riguarda i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti, “ne consegue” – conclude la Corte – “che gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all’allontanamento coattivo conformemente all’art. 8, n. 4, di detta direttiva, una pena detentiva, come quella prevista all’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 286/1998, solo perché un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio di uno Stato membro e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare nel territorio nazionale” (§ 58).
Una tale pena – prosegue la Corte, facendo proprio un rilievo svolto sia dalla Commissione nelle proprie osservazioni sia dall’Avvocato generale nella propria presa di posizione – rischierebbe addirittura “di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito da detta direttiva”, finendo per ostacolare il conseguimento dell’obiettivo dell’allontanamento dello straniero, ritardando l’esecuzione del rimpatrio, cui lo Stato è tenuto in forza della direttiva medesima (§§ 58-59).
Il giudice del rinvio – “incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni del diritto dell’Unione e di assicurarne la piena efficacia” – dovrà dunque “disapplicare ogni disposizione del decreto legislativo n. 286/1998 contraria al risultato della direttiva 2008/115, segnatamente l’art. 14, comma 5-ter, di tale decreto legislativo”, conformemente alla consolidata giurisprudenza della giurisprudenza della Corte che ha avuto origine con il notissimo caso Simmenthal (§ 61).
Ciò facendo, precisa ancora la Corte, il giudice del rinvio dovrà “tenere debito conto del principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri” (§ 61).
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5. Le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea hanno, come è a tutti noto, valore erga omnes, interpretando in maniera autoritativa il diritto dell’Unione con effetto diretto per tutti gli Stati membri e le rispettive giurisdizioni.
Ne consegue che, alla luce di questa sentenza, i giudici italiani dovranno d’ora in poi disapplicare la norma incriminatrice di cui all’art. 14 comma 5 ter d.lgs. 286/1998 in ragione del suo rilevato contrasto con il diritto UE, dotato di primazia sul diritto interno, e per l’effetto mandare assolti gli imputati perché il fatto non sussiste, indipendentemente dalla circostanza che l’ordine del questore rimasto inadempiuto fosse antecedente o successivo al 24 dicembre 2010, e cioè della data entro la quale l’ordinamento italiano avrebbe dovuto conformarsi alla direttiva.
Tale effetto liberatorio non potrà non prodursi anche rispetto alle porzioni di condotta già consumatesi prima 24 dicembre 2010, rispetto alla quali il giudice penale dovrà necessariamente tener conto del monito della Corte (§ 61) ad applicare il principio, di rilevanza anche comunitaria, della necessaria retroattività della legge penale più favorevole.
Analogo rilievo dovrà svolgersi con ogni verosimiglianza – ma il tema necessiterà un approfondimento in un’apposita sede nei prossimi giorni – per le sentenze di condanna già passate in giudicato.
Infine, non v’è alcun dubbio che la sentenza della Corte di giustizia sia immediatamente vincolante per ogni organo e potere dello Stato italiano: compresi, dunque, autorità di polizia e pubblici ministeri, ciascuno nell’ambito delle rispettive competenze.