SOMMARIO:
1. Il criterio del “primato del diritto dell’Unione” che risolve l’antinomia tra norma interna e norma comunitaria
A seguito della menzionata pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE – che ha un valore generale e vincola non solo il giudice
a quo, ma anche tutti i giudici nazionali nonché la pubblica amministrazione nel suo complesso
[2] – i giudici penali sono
obbligati a disapplicare qualsiasi norma incriminatrice in materia di immigrazione (d.lgs. n. 286 del 1998) che si pone in contrasto con il risultato che si vuol conseguire attraverso la direttiva “rimpatri” (direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE)
[3].
In particolare, i giudici penali devono “non applicare” la figura di reato prevista all’
art. 14 comma 5-ter d.lgs. n. 286 del 1998, la quale non rispetta il diritto dell’Unione e compromette in pratica la realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla citata direttiva, privandola in tal modo del suo “effetto utile” (nel senso che tra le diverse interpretazioni possibili del testo legislativo, occorre scegliere quella che attribuisce alle sue disposizione la maggiore effettività possibile, consentendo così alla direttiva di raggiungere gli scopi a cui è rivolta)
[4].
Come nell’
abolitio criminis, che si sostanzia nella incompatibilità tra norme cronologicamente disposte
[5], anche nella ipotesi oggetto della decisione della Corte di giustizia si configura una vera e propria
antinomia giuridica, un conflitto tra
due norme: quella interna
incriminatrice (art. 14 comma 5-
ter) e quella ricavabile dalla
direttiva comunitaria (artt. 15 e 16), che vieta di punire con una pena detentiva la condotta astratta in tal modo sanzionata in Italia. Esiste, dunque, una relazione di incompatibilità tra due norme, perché effetti giuridici incompatibili sono riferiti alla stessa fattispecie astratta
[6].
Tuttavia, il
criterio giuridico per
risolvere l’antinomia non è quello, adoperato per l’
abolitio criminis domestica, della
lex posterior derogat legi priori: cioè il criterio cronologico che attribuisce preferenza alla norma successiva (art. 15 disp. prel. c.c.), bensì quello della
prevalenza (primauté) della norma comunitaria, provvista di effetto diretto, sulle norme interne con essa contrastante
[7].
E’ noto, infatti, che caratteristiche peculiari del diritto comunitario (dell’Unione europea), nei suoi rapporti con il diritto nazionale, sono l’
effetto diretto (la creazione in capo ai singoli di posizioni soggettive direttamente tutelabili davanti al giudice nazionale) e il
primato (prevalenza,
primauté) sulle norme interne con esso contrastanti (sia precedenti che successive a quella comunitaria)
[8].
Come ripetutamente affermato dalla Corte costituzionale, a partire dal 1984, la giustificazione della preminenza del diritto comunitario, che trova la sua ragion d’essere nell’esigenza di una uniforme e immediata applicazione del diritto comunitario in tutti in gli Stati membri, si fonda dal punto di vista normativo sul disposto dell’
art. 11 Cost.:"l’Italia [...] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni"
[9].
Inoltre, il novellato
comma 1 dell’art. 117 Cost., sancendo oggi il primato del diritto comunitario (del diritto dell’Unione) sul diritto interno, anche se soltanto per quello che riguarda le norme prive di effetto diretto nell’ordinamento (rispetto alle quali la norma nazionale confliggente conserva la sua efficacia finché non viene rimossa a seguito dello scrutinio di costituzionalità)
[10], conferma il punto di arrivo della giurisprudenza costituzionale sulla superiorità delle fonti comunitarie su quelle interne
[11].
Il principio della supremazia del diritto dell’Unione sul diritto interno degli Stati membri non è stato però inserito tra gli articoli del Trattato, anche dopo il lavoro svolto dalla Conferenza di revisione che ha portato al
Trattato di Lisbona. Al principio, tuttavia, la Conferenza ha espressamente dedicato la Dichiarazione n. 17, in cui si ricorda che secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia: i Trattati e il diritto adottato dall’Unione sulla base dei Trattati prevalgono sul diritto interno degli Stati membri
[12].
2. La disapplicazione della norma interna incompatibile con quella comunitaria
Oggi appare meno sostenibile la tradizionale visione dei rapporti tra fonti comunitarie e fonti interne fondata sul criterio della competenza tra ordinamenti; concezione che si è imposta nel nostro ordinamento a partire dalla sent. n. 170 del 1984 della Corte costituzionale. L’idea, cioè, che ordinamento comunitario e ordinamento interno configurano due ambiti normativi che non si confondono l’uno nell’altro, cosicché le norme comunitarie appartengono ad un ordinamento giuridico nettamente distinto e separato da quello interno, sebbene con esso comunicante
[13].
Dobbiamo, infatti, seriamente chiederci se non sia ormai
superato il classico modello dualista di relazione tra ordinamenti a vantaggio di un sistema di rapporti tra fonti all’interno di un unico ordinamento ormai integrato
[14].
Orbene, sulla scorta dell’art. 117 comma 1 Cost. – come modificato dalla l. cost. n. 3 del 2001 – (“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto [...] dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”
), occorre sicuramente affermare la piena supremazia, e dunque superiorità gerarchica, delle fonti comunitarie (sia originarie che derivate) su quelle interne, anche a prescindere dalle materie assegnate alle istituzioni europee, con il limite (difficile da tracciare con precisione) dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili della persona [15].
In pratica, l’inserimento del diritto europeo all’interno di quello nazionale come fonte di rango costituzionale in una posizione sostanzialmente intermedia: ossia di materiale sovraordinazione gerarchica rispetto alle leggi ordinarie, ma con i “
controlimiti” visti dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili dell’uomo
[16].
Ora, il criterio del primato del diritto dell’Unione europea, con efficacia diretta, sul diritto interno non dà luogo però all’invalidità della norma “gerarchicamente” inferiore in contrasto con quella superiore, ma solo alla sua nonapplicazione. La conseguenza giuridica che si produce, in presenza di una norma interna antinomica (o incoerente) rispetto alla norma comunitaria superiore, non è l’invalidità della prima, bensì la sua disapplicazione.
In definitiva, lo strumento giuridico per comporre l’antinomia tra norma comunitaria e norma interna è costituito dalla immediata disapplicazione (o non applicazione) di quest’ultima a vantaggio della prima
[17]. Designando con il termine
disapplicazione un meccanismo di risoluzione di
conflitti tra norme fondato sul principio della gerarchia delle fonti, in virtù del quale la norma che deriva dalla fonte di grado superiore prevale su quella di grado inferiore (
lex superior derogat inferiori)
[18].
Ebbene, quando si verifica una antinomia tra una norma (incriminatrice) nazionale e una norma comunitaria il criterio per risolvere il conflitto normativo è quello gerarchico: prevale qui la norma comunitaria perché proviene da una fonte sovraordinata, e quella nazionale deve di conseguenza essere disapplicata.
Il principio di gerarchia comporta, pertanto, che il contrasto tra norme provenienti da fonti di grado differenziato si risolva con la prevalenza della norma scaturente dalla fonte considerata più elevata in grado (principio della
lex superior) e non con la prevalenza della norma più recente, come avviene a parità di grado mediante il principio dell’abrogazione
[19].
L’inferiorità gerarchica della norma di fonte nazionale si inferisce dal fatto che essa soccombe quando entra in collisione con la norma di fonte comunitaria. Il criterio gerarchico non è infatti esplicitamente sancito nel nostro sistema giuridico, ma è ricavabile oltre che dalla Costituzione (cfr. artt. 101 comma 2, 134, 136 e 138; l. cost. n. 1 del 1948) altresì dall’art. 4 preleggi e art. 5 l. n. 2248 del 1865
[20].
Come si è detto, il criterio del primato della norma comunitaria non conduce all’annullamento della norma incriminatrice confliggente con la norma comunitaria sovraordinata, bensì soltanto alla sua disapplicazione da parte del giudice nazionale, a cui pertanto è affidato una sorta di controllo diffuso sulla conformità del diritto interno al diritto comunitario.
Attraverso il meccanismo della disapplicazione s’impedisce, allora, alla norma incriminatrice di produrre i suoi effetti, se ne paralizza l’operatività. Non si incide, invece, sulla sua validità. E pertanto se si procedesse in
futuro alla abrogazione della direttiva mediante un atto comunitario, l’
incriminazione riprenderebbe a spiegare i suoi effetti (riacquisterebbe efficacia); e allo stesso modo se l’Italia uscisse dall’Unione europea, si dovrebbero considerare vigenti le norme incriminatrici fino ad allora inapplicabili per la prevalenza delle norme comunitarie confliggenti
[21].
Sebbene le norme comunitarie siano direttamente applicabili nel nostro ordinamento, si afferma però che, essendo norme che provengono da un ordinamento separato, non possono prodursi fenomeni di invalidità o abrogazione delle norme interne incompatibili: secondo la Corte costituzionale l’atto normativo comunitario "non può abrogare, modificare, o derogare le confliggenti norme nazionali, né invalidarne le statuizioni"
[22].
La norma comunitaria, in quanto norma che proviene da un ordinamento autonomo, distinto e sovraordinato, non è soggetta dunque al principio della lex posterior implicito nell’art. 70 Cost., che attribuisce al Parlamento la funzione legislativa.
La
disapplicazione della norma interna incompatibile con quella comunitaria
non implica l’invalidità, la nullità o l’abrogazione della stessa, bensì uno stato di quiescenza: la norma interna viene relegata in una sorta di limbo
[23]. La norma comunque resta nell’ordinamento, “in letargo”: non è abrogata, né essa deve considerarsi invalida
[24].
La soluzione, che esclude le vicende abrogative o quelle di invalidità delle norme, è fondata, come detto, sulla autonomia e netta separazione dell’ordinamento nazionale da quello comunitario. Invero, è proprio l’argomento degli ordinamenti separati e autonomi che in questa concezione sembra impedire, in modo netto, l’operatività del meccanismo dell’abrogazione o della invalidazione da parte di un organo giurisdizionale
ad hoc[25].
Come diremo subito, tale soluzione resta però immutata, anche aderendo alla tesi che ormai le norme scaturenti dalle fonti europee non possano essere considerate facenti parte di un distinto ordinamento, se si ancora l’esclusione dei fenomeni dell’annullamento e dell’abrogazione al tipo di antinomia che si produce in questa ipotesi tra norma comunitaria e nazionale (una antinomia di tipo forte-debole).
Ora, seguendo una parte della dottrina, conviene
distinguere le antinomie in senso forte da quelle in senso debole. Nella prima tipologia di antinomie (le “forti”) ricorre un “vizio” connesso al dislivello normativo (violazione di norme di grado sopraordinato), consistente nell’inosservanza di norme sulla produzione legislativa; per rimuovere la norma viziata occorre una apposita decisione presa da un organo giurisdizionale. Nelle restanti (le “deboli”), non ricorre alcun “vizio”, e i criteri di soluzione di tali antinomie sono espressi da meta-norme positive immediatamente adoperabili dagli interpreti senza la necessità di una specifica decisione
[26].
All’interno della prima ipotesi, rientrano le antinomie fra norme di grado diverso: risolte, di regola, con l’annullamento, attraverso una pronuncia giurisdizionale, della norma inferiore. Nell’ambito della seconda ipotesi, possono collocarsi le antinomie caratterizzate dalla presenza di norme del medesimo livello, componibili dall’interprete direttamente con il criterio cronologico della prevalenza della legge successiva su quella precedente, ovvero con il criterio di specialità fondato sulla preferenza della legge speciale su quella generale
[27].
Si possono avere però anche delle antinomie che combinano le caratteristiche delle due tipologie di conflitti normativi appena visti. In particolare, si può configurare una antinomia di tipo forte-debole: tra norme di grado diverso, ma risolvibili direttamente dall’interprete senza il necessario intervento di una decisione giurisdizionale.
In tale ipotesi ricorre un “vizio” legato alla gerarchia delle fonti (come per le antinomie in senso forte) che può essere direttamente superato dall’interprete (come per le antinomie in senso debole) attraverso la disapplicazione della norma inferiore in contrasto con quella superiore; norma solo disapplicata e non formalmente espulsa dall’ordinamento
[28].
Appartiene a quest’ultima tipologia di antinomie (forte-debole) il conflitto tra norma interna e norma comunitaria a cui consegue, per il primato del diritto comunitario su quello nazionale, la disapplicazione della norma interna direttamente da parte del giudice del singolo Stato.
3. Il conflitto tra norme disposte su distinti livelli nella gerarchia delle fonti
Diversamente dal caso di antinomia tra norma incriminatrice e comunitaria in cui le norme non sono poste sullo stesso livello della scala gerarchica, nel fenomeno dell’abrogazione, al quale è riconducibile la vicenda abolitiva disciplinata dall’art. 2 comma 2 c.p., le norme in conflitto diacronico devono appartenere allo stesso rango nella scala gerarchica delle fonti.
La norma che si ricava dall’art. 2 comma 2 c.p., come accennato, è espressione del canone della
lex posterior (di preferenza della legge successiva), vale a dire del criterio cronologico di soluzione delle antinomie. Sicché, la previsione del citato comma 2 dell’art. 2 è qui inapplicabile perché disciplina antinomie, contraddizioni tra norme che provengono da fonti dello stesso tipo e che hanno lo stesso livello gerarchico
[29]. Il
criterio cronologico non opera, infatti, quando le due
norme confliggenti siano disposte su due distinti livelli nella gerarchia delle fonti[30].
Invero, non si può parlare di abrogazione della norma incriminatrice: ipotesi in cui la norma successiva prevale su quella anteriore, “eliminandola” dal sistema, allorché si è in presenza di norme che scaturiscono da fonti poste sullo stesso livello gerarchico. Si tratta, invece, di disapplicazione della norma statale contrastante con quella comunitaria.
Non è un caso equiparabile ad una sopravvenuta abolitio criminis, la quale, in virtù del canone della retroattività in mitius, beneficia espressamente e in via diretta, ex art. 673 c.p.p., della revoca della sentenza definitiva pronunciata in base a quel reato.
E’ proprio per questo che la
disapplicazione della norma interna incompatibile con il diritto dell’Unione non esime lo
Stato interessato dal
provvedere all’abrogazione della norma (nel nostro caso incriminatrice) incompatibile o almeno alla sua modificazione
[31]. Secondo la Corte di giustizia, in mancanza della effettiva abrogazione normativa, la permanenza della norma nell’ordinamento dello Stato membro "mantiene gli interessati in uno stato di incertezza circa la possibilità loro garantita di fare appello al diritto comunitario"
[32].
In
dottrina è tuttavia comune l’affermazione secondo cui se una norma comunitaria, contrastante con quella interna, viene emanata posteriormente a quella nazionale, occorre applicare le regole sulla successione di leggi nel tempo, ossia il criterio cronologico (
lex posterior derogat legi priori): la norma nazionale deve essere considerata in sostanza abrogata
[33].
Si è scritto in molte delle recenti decisioni di merito che siamo al cospetto di una
situazione assimilabile al fenomeno dell’abolizione di una figura di reato. Ai sensi dell’art. 2 comma 2 c.p., il “fatto” di inottemperanza all’ordine di allontanamento (art. 14 commi 5-
ter e 5-
quater t.u. imm.) non costituisce più (o non è previsto più come) reato secondo una “legge posteriore”, che è individuata nella norma comunitaria dotata di effetto diretto e di rango sovraordinato rispetto alla legge nazionale
[34]. E pure nella giurisprudenza di legittimità si è affacciata l’idea che l’effetto sia “paragonabile a quello della legge sopravvenuta [...] con portata abolitrice della norma incriminatrice”
[35].
In realtà, pur non essendo contestabile che il “fatto non è più previsto dalla legge come reato”, ciò non discende dalla circostanza che si è verificata una abolitio criminis, una abrogazione di una norma incriminatrice sulla base del criterio cronologico della lex posterior. Ebbene, il “fatto non è più previsto dalla legge come reato” giacché la norma incriminatrice non è al momento applicabile (è quiescente), prevalendo su di essa la norma comunitaria incompatibile.
4. Gli effetti dell’applicazione del principio di retroattività della lex mitior sui processi penali per i reati in materia di immigrazione
Sulla scorta di quanto in precedenza affermato, nei procedimenti penali concernenti figure di reato in materia di immigrazione che contrastano con il risultato della direttiva “rimpatri”, non si deve applicare la regola intertemporale contenuta nell’art. 2 comma 2 c.p., bensì il principio di retroattività della lex mitior.
Principio di retroattività della legge penale più favorevole qui fondato, come si è detto, sul principio della supremazia del diritto dell’Unione su quello interno degli Stati membri: la norma incriminatrice interna non deve essere applicata perché contrasta con quella comunitaria sovraordinata, che prevale e determina, come vedremo, effetti favorevoli retroattivi travolgendo anche le decisioni giurisdizionali ormai passate in giudicato.
Non operano quindi in siffatte vicende le regole di diritto intertemporale contenute nell’art. 2 commi 2-4 c.p., attraverso le quali si declina nel nostro sistema penale il principio di retroattività della norma penale più favorevole.
Occorre, invece,
far riferimento direttamente al superiore principio di retroattività della lex mitior che, pur non essendo codificato espressamente in un testo costituzionale, trova però la sua consacrazione positiva a livello internazionale e comunitario
[36]: in particolare, nell’art. 15 paragrafo 1 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (adottato a New York il 16 dicembre 1966, ed entrato in vigore per l’Italia il 15 dicembre 1978); nell’art. 49 comma 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (oggi espressamente richiamata dal Trattato di Lisbona)
[37]; nell’importante sentenza “Scoppola” della Corte europea, la quale, disattendendo la giurisprudenza precedente, ha riconosciuto che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, all’art. 7, fa proprio il principio di retroattività della legge penale più favorevole
[38]; nella giurisprudenza della Corte di giustizia: secondo cui il principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite deve essere considerato parte integrante dei principi generali del diritto comunitario
[39].
4.1. I processi penali ancora in corso: le formule di assoluzione
Per quanto riguarda i processi penali ancora in corso,l’applicazione del principio di retroattività della lex mitior conduce all’immediato proscioglimento dell’imputato.
In proposito, bisogna distinguere tra due ipotesi:
(i) Se la
condotta storica è precedente al termine finale entro cui il nostro Stato avrebbe dovuto
adeguarsi dal punto di vista normativo
alla direttiva rimpatri: ossia dopo il 24 dicembre 2010, il giudice, ex art. 129 c.p.p., in ogni stato e grado del processo deve dichiarare immediatamente anche di ufficio, con sentenza che
“il fatto non è più previsto dalla legge come reato”; ovvero con la stessa formula il giudice è tenuto a pronunciare l’assoluzione dell’imputato, ex art. 530 comma 1 c.p.p., per il normale esito del processo al compimento dell’attività dibattimentale
[40].
Questa soluzione ha già trovato ingresso sostanzialmente nella
giurisprudenza della Cassazione, la quale ha ritenuto che il principio di diritto stabilito dal Giudice dell’Unione implica la disapplicazione della norma incriminatrice e per l’effetto impone l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con la formula più favorevole “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”. Si tratta, ad avviso della suprema Corte, della formula che si adatta meglio al caso della inapplicabilità della norma penale per effetto della incompatibilità con la normativa comunitaria stabilita dalla Corte di giustizia
[41].
(ii) Se l’inosservanza dell’ordine del questore è cominciata ad avvenire
successivamente al termine finale di adeguamento del 24 dicembre 2010, il giudice deve pronunciare immediata sentenza di assoluzione, ai sensi dell’art. 129 c.p.p.,
“perché il fatto non sussiste”; oppure con la stessa formula assolvere l’imputato ex art. 530 comma 1 c.p.p.
[42].
In entrambe le ipotesi va ribadito che non si tratta di una abolitio criminis. E, in particolare, anche la prima ipotesi, nonostante la formula assolutoria che richiama quella della abrogazione di una norma incriminatrice, non può essere ricondotta direttamente alla disciplina dell’art. 2 comma 2 c.p.
Come per la disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo, che impone al
giudice ordinario “soggetto soltanto alla legge” (art. 101 comma 2 Cost.), di non tener conto degli atti amministrativi difformi dal loro schema legale e non fondati sulla legge, anche qui il giudice è obbligato – attraverso una interpretazione adeguatrice dell’art. 101 comma 2 Cost., alla luce dell’odierno assetto ordinamentale che prevede la primazia del diritto europeo su quello interno – a non applicare la norma incriminatrice in contrasto con quella comunitaria. D’altronde i giudici comuni non possono non osservare e dunque applicare la Costituzione nei casi e nei limiti in cui la Costituzione sia suscettibile di applicazione diretta da parte degli stessi
[43].
4.2. Le sentenze di condanna irrevocabili e l’applicazione in via analogica dell’art. 673 c.p.p.
Per quanto concerne poi lesentenze di condanna ormai irrevocabili, bisogna muovere dall’importante affermazione contenuta nell’ultima parte della motivazione della sentenza della Corte di giustizia “El Dridi”, dove si è stabilito espressamente che il giudice del rinvio dovrà tenere conto del principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri.
Occorre subito sgombrare il campo dal fatto che si possa intendere l’affermazione della Corte di giustizia come limitata alla semplice produzione degli effetti favorevoli nei confronti dei procedimenti penali ancora non definitivamente conclusi.
Qualora si interpreti l’enunciato linguistico contenuto nella decisione della Corte di Lussemburgo, alla luce della sua struttura complessiva (dell’insieme dei significati delle parole che lo compongono), se ne ricava che il riferimento dell’enunciato, il suo campo denotativo, è al principio costituzionale (in ambito penale) della lex mitior, e non alle semplici regole codicistiche che attuano il principio: come, ad esempio, quella prevista al comma 4 dell’art. 2 c.p.
Il “principio”, le “tradizioni costituzionali”, sono nozioni che ci indicano con sicurezza che la disciplina è quella di maggior favor per il soggetto agente, ossia quella che impone di far operare la disciplina in mitius, iper-retroattivamente, travolgendo anche il giudicato di condanna. Il principio di retroattività della legge penale favorevole può essere attuato anche attraverso il meccanismo processuale contemplato dall’art. 673 c.p.p. (la revoca della sentenza di condanna definitiva per abolizione del reato da parte del giudice dell’esecuzione).
Si può inoltre aggiungere che, in linea di principio, le sentenze pregiudiziali della Corte di giustizia hanno efficacia
ex tunc, retroagiscono nel tempo; anche se poi esse vanno conciliate con l’opposto principio generale della certezza del diritto
[44].
Pertanto, per le
sentenze di condanna irrevocabili pronunciate prima del 24 dicembre 2010, non c’è dubbio che sia
applicabile analogicamente l’art. 673 c.p.p., poiché si tratta di estendere la disciplina esistente (
rectius: le conseguenze): revocare la sentenza di condanna definitiva perché “il fatto non è più previsto dalla legge come reato” ad un caso non disciplinato – la sopravvenuta incompatibilità della norma incriminatrice con il diritto dell’Unione europea – che assomiglia in modo rilevante ai casi legislativamente previsti dall’art. 673 c.p.p. di abrogazione di norme incriminatrici e di annullamento costituzionale di norme invalide
[45].
Nella
giurisprudenza di merito si è correttamente abbracciata la tesi che individua nell’
interpretazione analogica dell’art. 673 c.p.p. lo strumento che consente la
revoca delle sentenze di condanna passate in giudicato nel caso di inapplicabilità sopravvenuta della norma nazionale a seguito di una sentenza della Corte di giustizia che ne asserisca l’incompatibilità con la norma comunitaria; anche al fine di fornire una interpretazione costituzionalmente orientata alla disposizione che, altrimenti, sarebbe fortemente indiziata di incostituzionalità per contrasto con gli artt. 3, 11 e 117 comma 1 Cost.
[46]. Revoca della sentenza di condanna che può essere compiuta per mezzo di un
provvedimento adottato de plano dal giudice dell’esecuzione, senza una previa udienza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 666 commi 3 e 4 c.p.p.
[47].
Una particolare vicenda sembra invece configurarsi quando la sentenza di condanna irrevocabile, la quale ha escluso la disapplicazione dell’art. 14 comma 5-ter t.u. imm., sia stata emessa dopo lo scadere del termine in cui doveva avvenire l’adeguamento dell’Italia alla direttiva “rimpatri” (il 24 dicembre 2010), ma prima della sentenza della Corte di giustizia che ha affermato l’incompatibilità del citato illecito penale con la direttiva “rimpatri”.
Il giudice avrebbe dovuto assolvere l’imputato, che ha commesso il fatto di reato prima del 24 dicembre 2010, con la formula “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”; oppure se l’agente lo ha iniziato a realizzare dopo il 24 dicembre 2010 con la formula “perché il fatto non sussiste”. Invece, in entrambi i casi, ha condannato il clandestino ritenendo che non sussistessero i presupposti per la disapplicazione comunitaria.
Insomma: la vicenda che ha dato luogo alla non applicazione della norma incriminatrice interna per il suo contrasto tra la norma comunitaria si è concretizzata (il 24 dicembre 2010) prima della sentenza di condanna irrevocabile, ma non è stata espressamente presa in considerazione nella decisione del giudice poi passata in giudicato, la quale ha escluso l’obbligo di disapplicazione dell’illecito penale.
Siamo di fronte ad un error in iudicando assorbito dal giudicato che limita la possibilità di revoca della sentenza definitiva ex art. 673 c.p.p. ? Il giudice dell’esecuzione può cioè ancora revocare la sentenza di condanna, oppure l’errore di diritto del giudice della cognizione circoscrive ormai la revoca del giudicato ?
Senza poter qui approfondire tale complicato quesito, si può però brevemente osservare che il presupposto per la revoca della sentenza definitiva di condanna, ex art. 673 c.p.p., è che la innovazione legislativa, costituita qui dallo scadere del termine per applicare la direttiva, sia intervenuta dopo la commissione del reato; vicenda modificativa che impedisce alla classe di fatti penalmente illeciti, che contrastano con la direttiva comunitaria, di operare.
Non è decisivo che l’abrogazione normativa sia avvenuta (o l’obbligo di disapplicazione della incriminazione sia sorto) prima o dopo la sentenza di condanna irrevocabile, decisivo è che l’abrogazione (o la disapplicazione) si sia configurata dopo la commissione del reato. A tal proposito, una chiara indicazione in questo senso proviene da quanto disposto dall’art. 2 commi 1 e 2 c.p.: se per una legge posteriore alla commissione dell’illecito penale “il fatto ... non costituisce reato”, cessano l’esecuzione e gli effetti penali della condanna irrevocabile.
L’
art. 673 c.p.p. deve pertanto ritenersi applicabile nel caso in cui il fenomeno abolitivo sia intervenuto (o il dovere di disapplicazione si sia concretizzato) prima del passaggio in giudicato della sentenza, ma non sia stata rilevato dal giudice (finanche dal giudice di Cassazione); ovvero quando il giudice abbia espressamente escluso, in modo erroneo, che la modifica abbia comportato una
abolitio criminis o un obbligo di disapplicazione della norma incriminatrice nazionale contrastante con la norma comunitaria
[48].
4.3. Il possibile fenomeno della c.d. abrogatio sine abolitione: esclusione
Non ricondurre, infine, la vicenda in esame al
fenomeno dell’abrogazione normativa, permette anche di evitare le insidie costituite dalla circostanza che qui in realtà il comportamento storico, che integrava la figura criminosa dell’art. 14 comma 5-
ter, potrebbe essere sussumibile sotto un’altra norma generale:
l’art. 650 c.p. (
Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità). Tale ultima disposizione
riespanderebbe la sua
portata applicativa, così da comprendere la classe dei fatti prima riconducibili alla
lex specialis (l’art. 14 comma 5-
ter) ora non applicabile
[49].
Dunque, non si sarebbe verificata una vera e propria abolitio criminis (ai sensi dell’art. 2 comma 2 c.p.), ma si tratterebbe un caso di cosiddetta abrogatio sine abolitione: l’abrogazione della disposizione incriminatrice in materia di immigrazione clandestina dovrebbe essere considerata un dato puramente formale, stante la persistente illiceità penale della classe di fatti prima puniti dalla disposizione medesima. E pertanto non sarebbe impiegabile il meccanismo dell’art. 673 c.p.p come pendant dell’art. 2 comma 2 c.p.
E’ pur vero che seguendo quanto hanno affermato
le Sezioni unite “Rizzoli”[50] – ossia che in caso di abrogazione di una disposizione incriminatrice per accertare se le tipologie di fatti in essa comprese siano riconducibili ad altra disposizione generale preesistente è necessario procedere al
confronto strutturale tra le due fattispecie astratte, integrando all’occorrenza tale criterio attraverso una valutazione dei
beni giuridici
tutelati – non sembrerebbe postulabile una continuità normativa tra l’art. 650 c.p. e l’art. 14 comma 5-
ter, fondata sulla relazione di genere a specie tra le due ipotesi criminose alla luce degli interessi protetti dalle stesse.
Ebbene, come si è evidenziato in dottrina facendo leva sulla giurisprudenza costituzionale, l’ordine violato nell’art. 650 c.p. deve necessariamente attenere ad una delle ragioni tassativamente indicate: “giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico e igiene”. Mentre, la “ragione” dell’ordine nell’art. 14 comma 5-
ter consiste nel “controllo dei flussi migratori” a prescindere da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti responsabili, che evocherebbe invece problemi di ordine pubblico o sicurezza pubblica. Sicché, nei casi di inottemperanza all’ordine del questore di allontanamento dal territorio
non è in definitiva
configurabile la contravvenzione di cui all’art. 650 c.p.[51].
Né appare evocabile – per ritenere tuttora rilevanti le condotte giudicate in via definitiva ex art. 14 comma 5-
ter – il nuovo
reato di immigrazione clandestina (art. 10-
bis t.u. imm.):
strutturalmente eterogeneo sul piano della fattispecie astratta rispetto al non più applicabile illecito penale che punisce l’inosservanza dell’ordine del questore di lasciare il territorio italiano
[52].
5. Il nuovo decreto legge: gli esiti della trasformazione della sanzione comminata per l’art. 14 comma 5-ter da detentiva in pecuniaria allo scopo di evitare il contrasto con la direttiva “rimpatri”
Bisogna accennare infine ad alcuni possibili nuovi scenari di diritto intertemporale.
Per prima cosa, come chiarito dalla Corte di giustizia e ben evidenziato in dottrina, gli
artt. 15 e 16 della direttiva “rimpatri” non permettono agli Stati membri dell’Unione di prevedere
sanzioni penali detentive per la condotta di mancata cooperazione dello straniero alla procedura di rimpatrio, quale quella prevista all’art. 14 comma 5-
ter del nostro ordinamento. Mentre, la direttiva non osta alla previsione di eventuali misure di carattere pecuniario, anche di natura penale, che garantiscano l’effettività della procedura di allontanamento coattivo
[53].
Sulla scorta di tali premesse, il Consiglio dei Ministri, come era prevedibile e ragionevole, il 16 giugno 2011 (n. 143), ha approvato un decreto legge (“Disposizioni urgenti per il completamento dell'attuazione della direttiva sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari”)[54], che provvede in tempi rapidi a modificare l’incriminazione di cui all’art. 14 comma 5-ter (e 5-quater), tramite la mera sostituzione della pena detentiva con la (sola) pena pecuniaria (multa), attribuendo la competenza al giudice di pace (viene prevista la possibilità di sostituire la pena irrogata con l’espulsione)[55].
La modifica legislativa è stata tuttavia compiuta senza procedere ad una espressa abrogazione della previgente norma incriminatrice, attraverso l’esplicita enunciazione che i fatti commessi in precedenza non rilevano più penalmente e che tutte le sentenze di condanna definitive devono essere revocate. Eludendo, così, l’obbligo – che si ricava dalla giurisprudenza comunitaria – per lo Stato interessato di procedere alla effettiva abrogazione normativa, dopo che sia stato dichiarato il dovere di disapplicazione della norma interna incompatibile (cfr. retro § 3).
Tenendo presente che, in linea generale, quando il legislatore interviene modificando unicamente la sanzione penale connessa alla realizzazione di una specifica fattispecie astratta, si verifica una delle ipotesi "semplici" di successione di leggi; nel senso che non si pongono questioni particolarmente difficili da risolvere. Siamo allora di fronte ad una
legge soltanto modificativa: si applica, dunque, la
disciplina prevista dai commi 3 e 4 dell'art. 2 c.p. [56].
Ebbene, come detto, la precedente versione della figura di reato non può essere considerata abrogata, ma è solo quiescente perché non può essere più applicata.
I possibili modi per abrogare integralmente tale incriminazione sono: in primo luogo l’introduzione di una nuova figura di reato, in sostituzione della previgente, che presenti una fattispecie tipica caratterizzata da elementi eterogenei. E ciò deve risultare dall’instaurazione di un raffronto logico-strutturale tra gli elementi costitutivi delle fattispecie che si avvicendano nel tempo: se gli elementi delle due fattispecie risultano eterogenei tra loro, il principio costituzionale di irretroattività impedisce che si possa rilevare un fenomeno di successione modificativa e siamo dunque al cospetto di una abrogazione da una parte e di una nuova incriminazione dall’altra.
In secondo luogo, per poter addivenire all’abrogazione normativa, si dovrebbe privare testualmente di rilevanza penale la classe dei fatti prima puniti e affermare che la nuova incriminazione debba valere solo per il futuro come scelta di politica criminale compiuta dal legislatore; anche se gli elementi della fattispecie risultino omogenei dal punto di vista strutturale rispetto a quelli della previgente.
Modalità entrambe di produzione dell’abrogazione che, avendo il legislatore sostituito soltanto la sanzione dell’art. 14 comma 5-ter (5-quater), e non affermato espressamente la non punibilità dei fatti pregressi ancora punibili alla stregua del nuovo enunciato legislativo, non possono essere dunque postulate: giacché si configura una piena continuità normativa tra le due figure criminose.
Ora, nonostante la sussistenza di una formale relazione di omogeneità strutturale (e di un inalterato oggetto di tutela) tra le incriminazioni in successione e di una abrogazione che non è immediatamente ricavabile dalle scelte legislative, possiamo veramente reputare ancora punibili, ai sensi del comma 4 dell’art. 2 c.p., i fatti commessi prima della modifica legislativa e tutt’ora sussumibili all’interno della nuova ipotizzata figura di reato ?
Precisando che, comunque, tali fatti beneficiano, in caso di condanna definitiva, della “conversione” della pena detentiva in pecuniaria, ai sensi del nuovo comma 3 dell’art. 2 c.p. Come è noto infatti, a seguito della modifica del 2006, la norma più favorevole al reo, qualora preveda una pena pecuniaria in luogo della precedente pena detentiva (e dunque, siamo in presenza di un caso di successione di leggi soltanto modificativa ex comma 4 dell’art. 2), si applica retroattivamente, pur se sia stata pronunciata una sentenza di condanna irrevocabile.
Oppure dobbiamo ritenere che la nuova versione dell’illecito penale, sebbene strutturalmente omogenea rispetto alla previgente, non si ponga in continuità normativa, perché l’ipotesi criminosa non esiste più come “tipo di illecito” ?
Al riguardo, va ricordato che in dottrina, in base al paradigma teorico della c.d.
discontinuità sostanziale del tipo di illecito, si ammette la possibilità di “una
abolizione integrale dell'incriminazione
senza depenalizzazione”: nel senso che, seppure in presenza di alcune tipologie di incriminazioni riconducibili altresì alla nuova incriminazione, i fatti commessi prima dell'innovazione legislativa – anche se sussumibili all'interno della nuova ipotesi criminosa, e dunque tutt'ora punibili – si ritengono non più perseguibili, giacché l'incriminazione non esiste più come "tipo di illecito"; e l'effetto abolitivo viene esteso anche alle sentenze passate in giudicato
[57].
Non si può scartare dunque l'ipotesi che, in via del tutto eccezionale, nonostante la nuova norma sia in continuità rispetto a quella abrogata, il legislatore abbia inteso procedere, anche se non esplicitamente, ad una vera e propria abolizione della incriminazione precedente
[58].
In questo senso si è pronunciata la giurisprudenza delle
Sezioni unite penali: in particolare nella
materia tributaria. Invero, in tale settore si è avuta una valorizzazione del nuovo orientamento politico criminale imposto dal legislatore in relazione al nuovo delitto di omessa dichiarazione previsto all'art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000 rispetto alla previgente contravvenzione di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi e Iva (art. 1, comma 1, l. n. 516 del 1982)
[59].
Inoltre, secondo le Sezioni unite "Giordano" del 2003, siffatta evenienza “non può essere esclusa, ma nell'ambito della disciplina della successione di leggi penali non costituisce certo la regola”. E' possibile, infatti, che nella legge successiva vi siano elementi indicativi della volontà legislativa di far venir meno la punibilità dei reati commessi in precedenza, benché esistano le condizioni per l'applicabilità della regola dell'art. 2 comma 4 c.p. [60].
In definitiva, pur avendo il legislatore riformulato l’art. 14 comma 5-ter (e 5-quater), trasformando unicamente la sanzione da detentiva in pecuniaria, la nuova versione della figura di reato non può che valere per il futuro: deve essere considerata a tutti gli effetti una nuova incriminazione, che si applica soltanto ai fatti verificatisi dopo la sua entrata in vigore.
Si è prodotta una evidente frattura normativa tra le due incriminazioni in successione: da una parte una vera e propria abolizione della norma previgente (con la revoca, ex art. 673 c.p.p., delle sentenze di condanna), e dall’altra l’introduzione di una nuova incriminazione per i comportamenti futuri.
In realtà, come si è osservato in dottrina, il legislatore ha il potere di togliere rilevanza penale ad un fatto per il passato anche se la riformulazione del reato è compiuta in modo da mantenere la punibilità dei fatti (o almeno dei più importanti di essi) compresi nella incriminazione abrogata, ma "l'
abolitio deve reggersi su ragioni intrinseche specifiche, relative alla gestione del passato nel passaggio al nuovo regime di disciplina" [61]. E pertanto non si può parlare di amnistia occulta, di violazione dell’art. 79 Cost., quando venga in considerazione la razionalità o la coerenza della gestione del passato in vista dell’applicazione della nuova disciplina[62].
Questa soluzione permette oltretutto di evitare il seguente contraddittorio e “irragionevole” esito:
(i) per un verso, di trovarsi in presenza di condanne definitive pronunciate per il delitto di cui all’art. 14 comma 5-ter, che sono state nel frattempo revocate sulla scorta della sentenza della Corte di giustizia, applicando analogicamente l’art. 673 c.p.p., perché il fatto non è più previsto come reato (con la rimozione di tutti gli effetti penali della condanna);
(ii) per altro verso, di avere altre condanne definitive rispetto alle quali il giudice dell’esecuzione, ex art. 666 c.p.p., può solo commutare la pena detentiva in pecuniaria senza eliminare tutti gli altri effetti penali della condanna (art. 2 comma 3 c.p.), essendo rimasta ferma la qualificazione di illiceità penale del comportamento tenuto dal cittadino extracomunitario (ad esempio: il giudice dell'esecuzione non deve in tale ipotesi eliminare l’iscrizione nel casellario giudiziale, e la pronuncia di condanna potrà essere considerata quale "precedente" ai fini di qualsiasi valutazione penalistica).
[1] Per una approfondita analisi dell’intera vicenda, cfr. F. VIGANO’–L. MASERA,
Addio art. 14,
in questa Rivista. Una questione, in parte analoga, si era posta in tema di esercizio abusivo di scommesse sportive (art. 4 l. n. 401 del 1989): cfr. Corte giust. 6 novembre 2003, causa C-243/01, Gambelli; Corte giust., 6 marzo 2007, cause C-338/04 359/04 360/04, Placanica.
[2] Cfr. G. TESAURO,
Diritto dell’Unione europea, Cedam, 2010, p. 347 ss. Corte cost., 23 aprile 1985, n. 113; Corte cost., 13 luglio 2007, n. 284, secondo cui “le statuizioni della Corte di giustizia delle Comunità europee hanno, al pari delle norme comunitarie direttamente applicabili cui ineriscono, operatività immediata negli ordinamenti interni”;
Corte giust., 22 giugno 1989, causa 103/88, Costanzo.
[3] Nella giurisprudenza di merito che la sentenza della Corte di giustizia del 28 aprile 2011, El Dridi, rileva anche in ordine al delitto di illecito reingresso nel territorio dello Stato di cui all’art. 13 comma 13 t.u. imm., in quanto anche tale fattispecie comporta una violazione del principio dell’effetto utile, posto che la previsione di una pena detentiva a carico dello straniero che abbia fatto illegalmente ingresso in Italia in violazione di un divieto di reingresso costituisce un ostacolo al conseguimento dell’obiettivo dell’effettivo rimpatrio dello straniero irregolare, individuato come prioritario dalla direttiva 2008/115/CE (Trib. Roma, 9 maggio 2011, giud. Di Nicola,
in questa Rivista).
[4] Per la Corte di cassazione le conclusioni raggiunte dalla sentenza della Corte di giustizia valgono,
a fortiori, per il reato previsto dall’art. 14 comma 5-
quater d.lgs. n. 286 del 1998, il quale deve essere disapplicato perché contrario al risultato che la direttiva rimpatri intendeva perseguire. Precisandosi poi che che l’esistenza di una causa di
inammissibilità della impugnazione non implica che il ricorso debba essere rigettato; e pertanto, nella specie, la Corte ha adottato, sebbene l’imputato avesse rinunciato al ricorso, un dispositivo di annullamento senza rinvio della decisione impugnata (Cass., sez. I, 28 aprile 2011, n. 22105, Tourghi, in questa Rivista).
[5] M. GAMBARDELLA,
L’abrogazione della norma incriminatrice, Jovene, 2008, p. 127 ss.
[6] N. BOBBIO,
Teoria generale del diritto, Giappichelli, 1993, p. 209. In particolare, sui conflitti tra diritto comunitario e diritto nazionale, cfr. l’articolata indagine di C. SOTIS,
Il diritto senza codice, Giuffrè, 2007, p. 189 ss., 259 ss.
[7] F. SORRENTINO,
Le fonti del diritto italiano, Cedam, 2009, p. 146 ss.
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