ISSN 2039-1676


26 settembre 2013 |

Illecito reingresso dello straniero e direttiva rimpatri al vaglio della Corte UE

Corte Giustizia UE, Quarta sezione, sent. 19 settembre 2013, C-297/12, Filev e Osmani

Per accedere alla sentenza qui presentata, clicca qui.

 

1. Con questa nuova sentenza la Corte di giustizia, in seguito ad una domanda di pronuncia pregiudiziale presentata da un giudice tedesco (il Pretore di Laufen), torna ad occuparsi dell'interpretazione della direttiva rimpatri (2008/115/CE) e dei suoi effetti sul diritto penale dell'immigrazione degli Stati membri. La sentenza ha in particolare ad oggetto l'interpretazione dell'art. 11 della direttiva relativo al divieto di reingresso, e risolve tre distinte questioni.

 

2. La prima questione concerne la conformità con la direttiva della normativa tedesca che, anche dopo la legge di recepimento del novembre 2011, prevede che i provvedimenti di espulsione contengano un divieto di reingresso di durata indeterminata, salva la possibilità per l'interessato di presentare una domanda volta ad ottenere una limitazione temporale del divieto in questione: disciplina di cui il giudice rimettente chiede di valutare la conformità rispetto all'art. 11 § 2 dir., secondo cui "la durata del divieto di reingresso è determinata tenendo debitamente conto di tutte le circostanze pertinenti di ciascun caso e non supera di norma i cinque anni. Può comunque superare i cinque anni se il cittadino di un paese terzo costituisce una grave minaccia per l'ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale". Secondo la Corte, "il fatto di subordinare, nel diritto nazionale, il beneficio di una simile limitazione delle durata di un divieto d'ingresso alla presentazione di una domanda del cittadino interessato di un paese terzo, non è sufficiente al conseguimento dell'obiettivo di cui all'art. 11 § 2 della direttiva" (§ 31), sicché la conclusione della Corte sul punto è che "l'articolo 11, paragrafo 2, della direttiva 2008/115 deve essere interpretato nel senso che esso osta a una disposizione nazionale, quale l'articolo 11, paragrafo 1, dell'Aufenthaltsgesetz, che subordini la limitazione della durata di un divieto d'ingresso alla presentazione da parte del cittadino interessato di un paese terzo di una domanda volta a ottenere il beneficio di una siffatta limitazione".

 

2. La seconda questione riguarda direttamente il diritto penale. Il giudice remittente chiede infatti se sia conforme all'art. 11 § 2 della direttiva la previsione di una sanzione penale a carico dello straniero che abbia violato il divieto di reingresso (la legge tedesca prevede in questa ipotesi l'applicazione di una pena detentiva massima di tre anni o della pena pecuniaria: art. 95 dell'Aufenthaltsgesetz, riportato al § 10), quando il reingresso sia avvenuto a distanza di più di cinque anni dall'emissione del provvedimento contenente il divieto, e tale provvedimento sia stato adottato prima che sorgesse per lo Stato l'obbligo di recepire la direttiva. La Corte ricorda innanzitutto il principio, affermato nelle sentenze El Dridi ed Achughbabian, per cui gli Stati membri possono fare ricorso alla sanzione penale in materia di controllo dei flussi migratori, a condizione che ciò non comprometta l'effetto utile della direttiva: nel caso di specie, ciò significa che "uno Stato membro non può sanzionare penalmente la violazione di un divieto d'ingresso disciplinato dalla direttiva 2008/115/CE se la conservazione degli effetti giuridici di tale divieto non è conforme all'art. 11 § 2 di detta direttiva" (§ 37).

Venendo al nucleo centrale della questione, la Corte ricorda come, mancando nella direttiva alcuna disposizione contenente un regime transitorio per le decisioni adottate prima della sua entrata in vigore, trova applicazione il principio, oggetto di una costante giurisprudenza, secondo cui "una nuova norma si applica immediatamente, salvo deroghe, agli effetti futuri delle situazioni sorte sotto l'impero della vecchia legge" (§ 40): il limite dei cinque anni - fissato dalla direttiva e superabile solo nei casi da questa stabiliti (grave minaccia per ordine pubblico, pubblica sicurezza o sicurezza nazionale) - trova quindi applicazione anche nei casi di divieti emessi prima che la direttiva fosse applicabile. Per far sì che tale principio trovi piena applicazione, la Corte precisa poi che nel computo del periodo di cinque anni va considerato anche il lasso di tempo in cui tale divieto era operante prima che la direttiva risultasse applicabile. In conclusione, la Corte ritiene che "l'articolo 11, paragrafo 2, della direttiva 2008/115 deve essere interpretato nel senso che esso osta a che una violazione di un divieto d'ingresso e di soggiorno nel territorio di uno Stato membro, emesso oltre cinque anni prima della data di reingresso del cittadino interessato del paese terzo in tale territorio o dell'entrata in vigore della normativa nazionale che recepisce tale direttiva, comporti una sanzione penale, a meno che tale cittadino non costituisca una grave minaccia per l'ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale".

 

4. La terza questione riguarda l'interpretazione dell'art. 2 § 2 lett. b, che consente agli Stati di non applicare la direttiva agli stranieri "sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale, in conformità della legislazione nazionale": norma rilevante nel caso concreto, posto che nel procedimento a quo il divieto di reingresso violato dallo straniero era stato disposto come conseguenza di una condanna penale per reati in materia di stupefacenti.

Il giudice tedesco chiede alla Corte di valutare se sia legittimo per lo Stato invocare tale clausola derogatoria, in relazione a divieti di reingresso emessi più di cinque anni prima del periodo compreso tra la data in cui la direttiva avrebbe dovuto essere recepita (24 dicembre 2010) e quella in cui è stata effettivamente recepita (in Germania, 22 novembre 2011). Secondo la Corte, "uno Stato membro, se non ha ancora fatto uso di tale facoltà dopo la scadenza del suddetto termine per il recepimento, in particolare, perché non ha ancora recepito la direttiva 2008/115 nel diritto interno, non può reclamare il diritto di limitare l'ambito di applicazione ratione personae di tale direttiva ai sensi del suo articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della stessa nei confronti delle persone alle quali sarebbero applicabili gli effetti di detta direttiva" (§ 53), in quanto "opporre l'uso della facoltà prevista all'articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2008/115 a una persona che poteva già avvalersi direttamente delle disposizioni interessate di tale direttiva avrebbe la conseguenza di aggravare la situazione di tale persona" (§ 55). La Corte conclude quindi nel senso che "la direttiva 2008/115 deve essere interpretata nel senso che essa osta a che uno Stato membro preveda che un provvedimento di espulsione o di allontanamento anteriore di cinque o più anni al periodo compreso tra la data in cui tale direttiva avrebbe dovuto essere recepita e la data in cui tale recepimento è effettivamente avvenuto, possa successivamente di nuovo servire per fondare azioni penali, allorché tale provvedimento si basava su una sanzione penale a norma dell'articolo 2, paragrafo 2, lettera b), di detta direttiva e tale Stato membro ha fatto uso della facoltà prevista da tale disposizione".

* * *

5. Tentando ora di abbozzare qualche rapidissima riflessione "a caldo" sulla sentenza, ci pare che essa non comporti conseguenze di particolare rilievo per il nostro diritto penale dell'immigrazione.

La prima questione è pacificamente irrilevante per l'ordinamento italiano, ove si prevedeva, anche prima dell'intervento di recepimento della direttiva del 2011, che il divieto di reingresso avesse una durata determinata; semmai desta sorpresa constatare come l'ordinamento tedesco, anche dopo l'intervento di adeguamento alla direttiva, presentasse un così evidente contrasto con le disposizioni europee.

Con la seconda questione la Corte affronta invece profili che interessano anche il penalista italiano, pervenendo peraltro alle medesime conclusioni cui era già giunta la nostra giurisprudenza. Il tema in sostanza è quello di un provvedimento amministrativo dal contenuto contrario alla direttiva (nel caso di specie, il divieto di ingresso a durata indeterminata), che tuttavia è stato emanato prima che la direttiva fosse applicabile.

Il problema, come noto, era stato affrontato dalla nostra giurisprudenza, prima della sentenza El Dridi, in relazione al delitto di inottemperanza all'ordine di allontanamento di cui all'art. 14 co. 5 ter TU imm.: la conclusione era stata che il giudice penale, qualora rilevasse un contrasto tra l'ordine violato ed i requisiti fissati dalla direttiva, anche se l'ordine era stato emanato in conformità alla normativa interna e prima del termine di attuazione della direttiva, non potesse comunque dare applicazione al provvedimento amministrativo in contrasto con la direttiva, con conseguente obbligo di assolvere l'imputato (cfr. in particolare Trib. Cagliari, sent. 14 gennaio 2011, in questa Rivista). Lo stesso iter argomentativo è stato riproposto proposto dalla Cassazione con riguardo al delitto di violazione del divieto di reingresso di cui all'art. 13 co. 13 TU imm.: se lo straniero ha fatto ritorno in Italia trascorsi cinque anni, il reato non si configura, anche se il provvedimento di espulsione, emanato prima dell'approvazione della direttiva, prevedeva un divieto di durata più lunga (Cass., Sez. I, 13.03.2012, dep. 02.04.2012,, n. 12220, ric. Sanchez Sanchez, in questa Rivista con nota di G. Leo).

La Corte UE, nella sentenza in commento, arriva in sostanza alle medesime conclusioni. Una nuova norma europea, dice in termini molto sintetici la Corte, "si applica immediatamente agli effetti futuri delle situazioni sorte sotto l'impero della vecchia legge": una formula un po' oscura, per giungere alla conclusione che un atto amministrativo, pur legittimo al momento della sua emanazione, non può produrre effetti che risultino in contrasto con una norma europea approvata successivamente.

Nel motivare tale conclusione, la Corte fa riferimento ad una serie di precedenti relativi a questioni di diritto del lavoro (cfr. le sentenze citate al § 40), mentre non fa cenno alla sentenza su cui la nostra giurisprudenza aveva fondato il proprio orientamento (CGUE, sez. II, 29 aprile 1999, C-224/97, Ciola), che aveva invece ad oggetto proprio la questione della legittimità di una sanzione penale applicata per la violazione di un provvedimento amministrativo legittimo al momento della sua emanazione, ma in contrasto con una fonte comunitaria diventata applicabile successivamente.

La terza questione, infine, concerne l'interpretazione dell'art. 2 § 2 lett. b), che consente allo Stato membro (ma non lo obbliga in tal senso) di non applicare la direttiva allorché l'espulsione costituisca sanzione penale, o comunque sia disposta in conseguenza della commissione di un reato. La Corte afferma che, quando tale facoltà di deroga sia stata esercitata in una legge di recepimento della direttiva emanata dopo la scadenza del termine per l'adeguamento, tale facoltà non può essere invocata dallo Stato, qualora il termine massimo di cinque anni di durata del divieto di reingresso fosse già decorso al momento della scadenza del termine per l'adeguamento.

La logica che presiede al ragionamento della Corte UE ci pare la medesima che sorregge, nell'ordinamento interno, la disciplina della lex intermedia, per cui se una condotta, pur punibile al momento del fatto e punibile al momento del giudizio in forza di una nuova norma, è stata priva di rilevanza penale nel periodo intercorso tra l'abrogazione della prima norma e l'entrata in vigore della seconda, l'imputato deve essere assolto. Mutatis mutandis, il caso deciso dalla Corte UE ci pare equiparabile: la trasgressione ad un divieto di ingresso di durata indeterminata emanato in seguito ad una condanna penale costituiva reato nell'ordinamento tedesco prima della scadenza del termine per la trasposizione della direttiva; dopo la scadenza tale termine, la condotta ha perso rilievo penale, in conseguenza della diretta applicazione della direttiva scaduta; ed ha infine riacquistato rilievo penale dopo che l'ordinamento tedesco, con la legge di trasposizione, ha esercitato la deroga di cui all'art. 2 § 2  lett. b) della direttiva. Per un certo lasso temporale, quindi, la condotta di illecito reingresso è stata penalmente irrilevante: per tale ragione il soggetto non può essere condannato, anche se il reingresso è effettivamente avvenuto dopo l'emanazione della legge di trasposizione.