16 ottobre 2018 |
Le Sezioni unite riconoscono l'applicabilità della confisca "allargata" in caso di delitto tentato aggravato ai sensi dell'art. 7 l. 203/91
Cass., Sez. un., sent. 19 aprile 2018 (dep. 24 settembre 2018), n. 40985, Pres. Carcano, Est. Rocchi, Imp. Di Maro
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1. Con la sentenza in esame, le Sezioni Unite – risolvendo il contrasto venutosi a creare in seno alla giurisprudenza di legittimità in merito alla possibilità di applicare l’istituto della confisca c.d. “allargata” (e di disporre, in precedenza, il sequestro preventivo) ai delitti tentati aggravati dal c.d. “metodo mafioso” – hanno affermato il seguente principio di diritto: “Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall’art. 12-sexies decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge n. 356 del 1992 (attuale art. 240-bis cod. pen.) può essere disposto per uno dei reati presupposto anche nella forma del tentativo aggravato dall’art. 7 legge 203 del 1991”.
2. È opportuno, preliminarmente, riassumere il caso concreto da cui ha tratto origine la pronuncia in commento.
Nel giugno 2017, il G.i.p. del Tribunale di Napoli disponeva il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca “allargata” ai sensi dell’art. 12-sexies decreto legge 8 giugno 1992, n. 306 (convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 1992, n. 356), di beni mobili e immobili appartenenti a una coppia di coniugi, in relazione al delitto di concorso in tentata estorsione, aggravato dal c.d. “metodo mafioso” (art. 7 legge 12 luglio 1991, n. 203) contestato al solo marito. A seguito del parziale accoglimento da parte del Tribunale del Riesame di Napoli del ricorso presentato dalla coppia, il sequestro veniva mantenuto solamente rispetto ad una quota di proprietà di un’imbarcazione acquistata dal marito nonché al saldo di conto corrente intestato alla consorte, in virtù dello squilibrio tra gli acquisti effettuati nel 2016 e il reddito complessivo della famiglia.
I difensori della coppia presentavano quindi ricorso per Cassazione, deducendo in primo luogo l’erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 12-sexies d.l. n. 306/1992, con riferimento all’ipotesi di reato di tentata estorsione, aggravata ai sensi dell’art. 7 l. n. 203/1991. La Seconda Sezione, ravvisando sul punto l’esistenza di un contrasto interpretativo in seno alla Suprema Corte, rimetteva la questione alle Sezioni Unite.
3. Prima di soffermarci sulle motivazioni che hanno portato le Sezioni Unite a giungere alla conclusione illustrata in apertura, risulta opportuno tratteggiare brevemente le diverse soluzioni ermeneutiche emerse nella precedente giurisprudenza della Cassazione.
Un primo orientamento negava la possibilità di disporre la confisca dei beni (e, in precedenza, il loro sequestro preventivo) in relazione al reato di tentata estorsione, anche se aggravato ai sensi dell’art. 7 l. n. 203/1991, in ragione del fatto che l’art. 12-sexies prevede espressamente la confisca per il solo reato consumato e consentire l’applicazione della misura anche nelle ipotesi di tentativo comporterebbe una inammissibile estensione in malam partem della norma penale[1].
A fondamento di tale interpretazione restrittiva venivano poste diverse ragioni: innanzitutto, l’autonomia del delitto tentato rispetto a quello consumato e la minore gravità del delitto tentato rispetto a quello consumato; quindi, la necessità di tutelare il fondamentale diritto alla proprietà privata, così come richiesto dall’art. 42 Cost. e dall’art. 1, Prot. 1 CEDU; infine, la medesima scelta compiuta dalla giurisprudenza di legittimità in riferimento ad altri istituti rispetto ai quali si poneva un’analoga questione. Si pensi, ad esempio, alla causa di non punibilità di cui all’art. 649, ultimo comma, c.p., ritenuta applicabile soltanto ai delitti consumati ivi espressamente elencati; alle esclusioni oggettive dall’amnistia e dall’indulto, che operano solo per i reati consumati indicati nei rispettivi provvedimenti di clemenza; alla disciplina dell’arresto in flagranza che, quando indica specificamente il reato per il quale la misura è permessa o imposta è interpretata nel senso che il riferimento è ai soli reati consumati e che, tra l’altro, menziona espressamente le ipotesi in cui l’arresto è obbligatorio o consentito anche per i delitti tentati; da ultimo, alla disciplina della competenza per territorio, dal momento che l’art. 8, comma 4, c.p.p., contempla espressamente il delitto tentato.
Per contro, un secondo orientamento riteneva che la confisca in esame potesse essere disposta anche in conseguenza di una condanna per estorsione tentata in ragione del fatto che il disposto normativo – che richiama espressamente il “delitto previsto dall’art. 629 c.p.” – non legittimerebbe alcuna distinzione tra il delitto consumato e quello tentato[2], dal momento che la confisca “non è collegata al provento o al profitto del reato contestato, bensì ai beni di cui il condannato non può giustificare la provenienza, indipendentemente dalla loro fonte, che si presume derivare dalla complessiva attività illecita del soggetto”. In base a tale interpretazione, dunque, andrebbe valorizzato l’aspetto teleologico della norma, la cui finalità – si osserva – è quella di consentire la confisca di tutti quei beni di cui il condannato non è in grado di giustificare la provenienza lecita.
Nella giurisprudenza di legittimità si era affermato infine un terzo orientamento, che potremmo definire “intermedio” rispetto ai due precedenti, che proponeva una soluzione differenziata a seconda che venisse in rilievo il primo o il secondo comma dell’art. 12-sexies d.l. n. 306/1992. Al primo comma, infatti, la norma in esame prevede un’indicazione nominativa e specifica dei singoli delitti cui può applicarsi l’istituto della confisca “allargata”, mentre al secondo comma contiene un riferimento generico ai delitti commessi “avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività della associazioni previste dallo stesso articolo”. Secondo questa impostazione interpretativa, dunque, l’indicazione nominativa di uno specifico delitto (presente al primo comma) dovrebbe essere intesa come comprendente solo l’ipotesi consumata; l’indicazione generale di una categoria di delitti (presente al secondo comma), invece, come comprendente tanto i delitti tentati quanto quelli consumati[3].
4. Le Sezioni Unite aderiscono proprio a quest’ultimo orientamento.
In primo luogo, osservano i giudici della Suprema Corte, tale soluzione ermeneutica è già stata adottata in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità in relazione ad altre norme rispetto alle quali si presentava una problematica analoga a quella posta dall’art. 12-sexies d.l. n. 306/1992. Come si è accennato sopra, un problema analogo si è posto, ad esempio, con riferimento ai provvedimenti di concessione di amnistia e indulto[4], ovvero in sede di applicazione dell’art. 649, ultimo comma, c.p.[5], e dell’art. 4-bis l. n. 354/1975 in ambito penitenziario[6], nonché, infine, rispetto aitermini della durata massima della custodia cautelare[7]. In tutti questi casi, nonostante gli eventuali effetti sfavorevoli per l’interessato, la giurisprudenza ha di volta in volta optato per un’interpretazione comprensiva anche del delitto tentato, quando l’indicazione dei reati contenuta nella norma era generica, mentre ha fornito un’interpretazione restrittiva tesa ad escludere la fattispecie nella forma tentata in presenza di un’elencazione specifica e nominativa di delitti.
Un secondo e decisivo argomento posto a fondamento della decisione in esame è rappresentato poi dalla natura autonoma del delitto tentato rispetto alla fattispecie consumata.
Partendo da tale presupposto, la sentenza delle Sezioni Unite che qui segnaliamo muove una critica tanto al primo quanto al secondo orientamento sopra richiamato. Nell’ottica della Corte, infatti, nel primo caso non viene valorizzato a sufficienza il principio dell’autonomia del delitto tentato: dal momento che quest’ultimo rappresenta “una fattispecie criminosa autonoma, risultante dalla combinazione di una norma principale – la norma incriminatrice – e di una norma secondaria prevista dall’art. 56 c.p.”, allora “è corretto ritenere che quando il legislatore menziona, ad esempio, il “delitto previsto dall’art. 314 cod. pen.” intenda riferirsi al solo delitto consumato, ma non è altrettanto corretto ritenere che, quando viene evocato “un delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale ovvero ai fini di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo” il riferimento non sia fatto anche ai delitti tentati”. L’insieme descritto dall’art. 12-sexies, comma 2, d.l. n. 306/1992, comprende elementi aventi due caratteristiche, ossia la natura di delitto e il fatto di essere stati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle organizzazioni criminali. Risulta chiaro, quindi, che i delitti tentati aggravati ai sensi dell’art. 7 l. n. 203/1991 presentano entrambe queste caratteristiche.
Per ciò che attiene, invece, al secondo orientamento, le Sezioni Unite non condividono la conclusione secondo cui, in presenza di fattispecie di reato specificamente e tassativamente individuate, quali quelle presenti all’art. 12-sexies, comma 1, d.l. n. 306/1992,la mancata distinzione tra delitto consumato e delitto tentato legittimerebbe l’estensione indiscriminata della norma anche alle ipotesi di tentativo. In realtà, affermano i giudici della Suprema Corte, la mancanza di una specifica indicazione “deve essere affrontata sulla base dei principi generali, in base ai quali “accanto” ad un delitto consumato è sempre ipotizzabile un corrispondente delitto tentato”.
L’orientamento che abbiamo definito “intermedio”, invece, applica correttamente il principio dell’autonomia del tentativo già enunciato dal primo orientamento, evitando un’estensione in malam partemdella confisca “allargata”, ma al contempo interpreta la legge attribuendole il senso fatto palese dal significato proprio delle parole, in quanto la parola “delitto”, senza altra specificazione, deve ritenersi comprensiva anche dei delitti tentati. In tal modo, nel rispetto dei principi di legalità e tassatività, viene tutelato il diritto di proprietà, introducendo un limite all’operatività di questa speciale ipotesi di ablazione patrimoniale, e viene al contempo mantenuta inalterata la caratteristica tipica della confisca “allargata”, ossia il mancato collegamento tra i beni confiscati e il provento o il profitto del reato, con la conseguenza che la misura è giustificata anche in caso di delitto tentato, se esso risulti effettivamente sintomatico di un illecito arricchimento del suo autore.
Infine, osservano le Sezioni Unite, la soluzione appare coerente anche dal punto di vista della politica criminale in senso lato, dal momento che esclude la possibilità della confisca per i delitti tentati di minore gravità, ovverosia quelli non aggravati dal c.d. “metodo mafioso”, mentre la consente proprio in questa specifica ipotesi, che evoca collegamenti con la criminalità organizzata anche se il delitto non viene portato a compimento.
5. Tali conclusioni appaiono corrette anche alla luce della normativa sopravvenuta.
Come noto, infatti, con il d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, l’art. 7 l. n. 203/1991 è stato trasfuso, senza modificazioni, nell’art. 416-bis.1, comma 1, c.p., mentre l’art. 12-sexies d.l. n. 306/1992 è confluito nel nuovo art. 240-bis c.p.Quest’ultima disposizione ripropone gli stessi problemi sorti in precedenza: da un lato, anche la nuova norma non contiene alcun riferimento ai delitti consumati o tentati; dall’altro, affianca ad un’elencazione nominativa dei delitti che legittimano la confisca l’indicazione generale dei “delitti commessi con finalità di terrorismo […] o di eversione dell’ordine costituzionale” nonché di quelli “previsti dall’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale”. In particolare, la norma del codice di rito, oltre ad elencare nominativamente specifici delitti, menziona quelli “commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-biscod. pen. ovvero al fine di agevolare le attività previste dallo stesso articolo”. Tale formulazione, pertanto, rimanda ai delitti aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1, comma 1, c.p.
La presenza, all’interno dell’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. della dizione “delitti consumati o tentati”, a detta della sentenza in commento, non pare essere decisiva al fine di addivenire ad una diversa interpretazione della norma, dal momento che essa è tipica delle norme che disciplinano la competenza.
[1] Cfr. Cass., Sez. II, sent. 21 settembre 2017, n. 47062, Discetti, in C.E.D. Cass., rv. 271048-271049; Cass., Sez. V, sent. 17 febbraio 2015, n. 26443, Abbate, in C.E.D. Cass., rv. 263988; Cass., Sez. V, sent. 12 giugno 2013, n. 2164, Sannino, in C.E.D. Cass., rv. 258821.
[2] Cfr. Cass., Sez. I, sent. 28 maggio 2013, n. 27189, Guarnieri, in C.E.D. Cass., rv. 255633.
[3] Cfr. Cass., Sez. I, sent. 12 febbraio 2016, n. 45172, Masullo, in C.E.D. Cass., rv. 272158; Cass., Sez. I, sent. 12 febbraio 2016, n. 45173, Brito; Cass., Sez. I, sent. 12 febbraio 2016, n. 45174, Palladino; Cass., Sez. I, sent. 12 febbraio 2016, n. 45175, Masullo A.
[4] Cfr. Cass., Sez. un., sent. 23 febbraio 1980, n. 3, Iovinella, in C.E.D. Cass., rv. 145074; Cass., Sez. I, sent. 12 giugno 1985, n. 7389, Scassellati, in C.E.D. Cass., rv. 170191. Queste pronunce avevano già proposto la differenziazione operata rispetto all’indicazione specifica dei delitti esclusi dal provvedimento di clemenza e all’indicazione generica di categorie di reati.
[5] Prevedendo che “le disposizioni di questo articolo non si applicano ai delittidi cui agli artt. 628, 629, 630 c.p.”, tale disposizione esclude l’applicazione della causa di non punibilità per le ipotesi di delitti consumati, mentre la autorizza qualora le condotte si siano arrestate al livello del tentativo. Rispetto, invece, alla formula “ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza alle persone”, diverse pronunce hanno affermato l’inclusione del tentativo, così che la causa di non punibilità non si applica ad essi, né qualora siano consumati né qualora siano solamente tentati. Cfr. Cass., Sez. II, sent. 17 novembre 2016, n. 53631, Giglio, in C.E.D. Cass., rv. 268712; Cass., Sez. II, sent. 18 maggio 1990, n. 3718, Belgiorno, in C.E.D. Cass., rv. 186762.
[6] Tale articolo presenta una struttura identica all’art. 12-sexies d.l. n. 306/1992, presentando un elenco di reati nominativamente indicati cui si affianca il riferimento, tra gli altri, ai “delitti commessi avvalendosi dell’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività della associazioni ivi previste”. La giurisprudenza ha ripetutamente affermato, da un lato, che il divieto di concessione di misure alternative alla detenzione e di benefici penitenziari opera esclusivamente per i reati consumati e non per le corrispondenti fattispecie commesse nella forma tentata; dall’altro, che tale divieto si estende ai delitti aggravati dal fine di agevolazione dell’attività di un’associazione di tipo mafioso anche se commessi nella forma del tentativo.
[7] Si è affermato che il termine di un anno previsto per la fase delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare dagli artt. 303, comma 1, lett. a), n. 3, c.p.p. e 407, comma 2, lett. a), n. 3, c.p.p., si applica anche ai delitti tentati qualora si proceda per i delitti commessi al fine di agevolare l’attività delle associazioni di stampo mafioso, o comunque avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p., proprio in ragione dell’indicazione generica ivi contenuta.