ISSN 2039-1676


2 novembre 2018 |

Una pronuncia delle Sezioni Unite in tema di "contestazioni a catena" e una matassa ancora da sbrogliare

Cass., Sez. un., sent. 19 luglio 2018 (dep. 22 ottobre 2018), n. 48109, Pres. Carcano, Rel. Di Stefano

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1. La sentenza in commento si inserisce nella delicata materia delle c.d. contestazioni a catena. Con tale espressione ci si riferisce, come noto, a quelle ipotesi «patologiche»[1] in cui, al fine di aggirare i limiti temporali stabiliti dalla legge e prolungare la durata della misura, il p.m. chieda, in tempi diversi, l’emissione di più ordinanze applicative della medesima misura in relazione allo stesso fatto o a fatti diversi già noti ab initio.

In presenza di determinati requisiti, tale prassi viene “sanzionata” dall’art. 297, co. III, c.p.p. con la retrodatazione ex lege di tutti i provvedimenti cautelari al momento dell’emissione del primo tra di essi. In questo modo il sistema mira ad evitare l’elusione dei termini di durata massima delle misure cautelari, che trovano fondamento costituzionale nell’art. 13, co. V, Cost.

Da ormai più di un ventennio[2] si riconosce che tale regula juris debba trovare applicazione – sussistendone i presupposti – non solo quando nei confronti di un imputato siano emesse più ordinanze cautelari all’interno del medesimo procedimento, ma anche quando la medesima misura cautelare venga applicata nell’ambito di procedimenti diversi.

Ma come opera la “retrodatazione” del dies a quo del secondo provvedimento quando i due procedimenti si trovano in fasi differenti? Per calcolare i termini massimi intermedi (c.d. di fase) della misura applicata per seconda, occorre tenere in considerazione solo i periodi già trascorsi nelle «fasi omogenee»[3] del diverso procedimento? Oppure, più in generale, deve aversi riguardo all’intera durata della misura cautelare già subita dall’imputato, anche quando relativa a «fasi non omogenee»?

È questo il quesito recentemente portato all’attenzione delle Sezioni Unite, al fine di ricomporre un contrasto interpretativo sul punto. Contrasto che, però, è rimasto irrisolto, essendosi i giudici di legittimità limitati a rilevare l’inammissibilità del ricorso.

 

2. Al fine di comprendere i termini del dibattito giurisprudenziale risulterà utile ripercorrere brevemente la vicenda processuale.

Nel gennaio 2016 veniva eseguita nei confronti di A.G. un’ordinanza di applicazione della custodia cautelare in carcere, disposta in relazione ai delitti di detenzione di sostanze stupefacenti e di armi, entrambi aggravati ex art. 7 d.l. 152/1991 (oggi art. 416-bis.1 c.p.).

Circa un anno e mezzo dopo, e precisamente nel luglio del 2017, nell’ambito delle indagini preliminari di un diverso procedimento era stata emessa, nei confronti del medesimo soggetto, una nuova ordinanza custodiale. Questo secondo titolo cautelare concerneva i delitti di partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.), di trasferimento fraudolento di valori (oggi art. 512-bis c.p.) e di illecita detenzione e porto in luogo pubblico di armi.

Contro tale provvedimento veniva presentata richiesta di riesame, mediante la quale si invocava la retrodatazione del termine di inizio della misura cautelare al gennaio 2016. Secondo la difesa, infatti, gli addebiti oggetto della seconda ordinanza potevano già essere desunti dagli atti all’epoca dell’adozione della prima[4]. E ciò, nella prospettiva difensiva, avrebbe senz’altro dovuto comportare l’applicazione della disciplina di cui all’art. 297, co. III, c.p.p. in tema di “contestazioni a catena”.

Le doglianze non venivano però accolte dal Tribunale del riesame, secondo il quale non sarebbe stato possibile dar luogo alla c.d. retrodatazione per due ordini di ragioni: da un lato il primo procedimento era «già transitato alla fase del giudizio»; dall’altro la misura cautelare adottata per prima era «ancora in atto e perfettamente efficace»[5]. A sostegno di tale conclusione veniva in particolare richiamata Cass. pen., Sez. IV, 02 marzo 2017, n. 18111 (alcune precisazioni sul punto saranno sviluppate infra, sub §9).

 

3. La difesa dell’imputato proponeva dunque ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame, lamentando un’erronea applicazione dell’art. 297, co. III c.p.p.

Inquadrata la questione nel contesto di un più ampio dibattito giurisprudenziale, la II Sezione della Corte di cassazione rimetteva la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite[6], chiedendo di chiarire «se, in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, di cui all’art. 297, co. III, c.p.p., deve essere effettuata frazionando la durata globale della custodia cautelare ed imputandovi solo i periodi relativi a fasi omogenee».

Secondo la Sezione rimettente, infatti, la decisione del ricorso sottopostole avrebbe richiesto di affrontare e risolvere un contrasto interpretativo sorto in una materia su cui le Sezioni Unite non si sono mai pronunciate.

 

4. Questi, in sintesi, i due contrapposti orientamenti per come ricostruiti nella sentenza in esame (ma si veda anche infra, sub §8).

Secondo l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario (al quale viene ricondotta anche l’ordinanza del Tribunale del riesame[7]), la retrodatazione della decorrenza dei termini della misura cautelare imporrebbe, «per il computo dei termini di fase, di frazionare la durata globale della custodia cautelare» subita per prima, «imputando solo i periodi relativi a fasi omogenee»[8].

Al contrario, secondo altre recentissime pronunce, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare ex art. 297, co. III, c.p.p. «non deve essere effettuata frazionando la globale durata della custodia cautelare, bensì computando l’intera custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee»[9].

 

5. Come si è già anticipato, i giudici di legittimità – rifacendosi ad un principio di diritto più volte affermato dalla Corte di cassazione, anche a Sezioni Unite[10] – hanno rilevato un profilo di inammissibilità del ricorso e pertanto non hanno fornito soluzione alla questione controversa.

In breve, gli ermellini hanno messo in luce come la seconda ordinanza cautelare avesse ad oggetto, fra gli altri addebiti, il reato associativo di cui all’art. 416-bis c.p. e come tale delitto, avente natura permanente, fosse stato contestato anche con riferimento ad un lasso temporale successivo all’applicazione della prima misura custodiale. Stando alla seconda ordinanza cautelare, infatti, la condotta di partecipazione alla 'ndrangheta da parte dell’indagato doveva ritenersi essersi protratta «sino alla data odierna»[11] (i.e. sino alla data di applicazione della seconda misura cautelare).

Ciò, rileva la Corte, esclude in radice che nel caso di specie potesse trovare applicazione la disciplina dettata in tema di “contestazioni a catena”, in quanto l’art. 297, co. III, c.p.p., nel prevedere la retrodatazione della decorrenza dei termini di efficacia della seconda ordinanza cautelare, presuppone che la stessa abbia ad oggetto fatti «commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza».

I giudici di legittimità hanno peraltro avuto cura di precisare come l’indagato ben avrebbe potuto «offrire una diversa ricostruzione del tempo di commissione del reato»[12]. Di tale profilo, però, non vi era alcuna traccia nel ricorso, mentre il Tribunale del riesame, dal canto suo, aveva fatto espresso riferimento all’«assoluta mancanza di elementi indicativi della avvenuta rescissione del vincolo associativo»[13].   

Così, non potendo “rideterminare” la data di cessazione del vincolo associativo, in quanto ciò avrebbe richiesto apprezzamenti di merito, alle Sezioni Unite non restava che rilevare l’inapplicabilità della disciplina dettata per le c.d. contestazioni a catena.

 

***

 

6. Davvero complessa la matassa che gli operatori del diritto dovranno ancora cercare di sbrogliare da sé, e che con tutta probabilità in un futuro non lontano tornerà all’attenzione delle Sezioni Unite.

La difficoltà che l’interprete incontra nell’approcciarsi a tale materia deriva, in primo luogo, dall’indiscutibile laconicità dell’art. 297, co. III, c.p.p., unica disposizione codicistica dettata in tema di “contestazioni a catena”[14].  

Se già il suo testo è parso «labirintico»[15] agli occhi di autorevole dottrina, ancor di più lo è la disciplina tratteggiata dai numerosi arresti della Corte di cassazione e della Corte costituzionale che, negli anni, hanno tentato di riempirne le carenze[16].

Nonostante la copiosa attività interpretativa, declinatasi in coordinate assai articolate, residuano peraltro alcuni interrogativi – tutt’altro che trascurabili – circa l’effettivo funzionamento di questo istituto.

Non è possibile, in questa sede, mettere in ordine tutti i tasselli giurisprudenziali che, come in un grande mosaico, compongono la disciplina di riferimento. E in assenza di una sua precisa ricostruzione, non sembra neppure ipotizzabile tentare di proporre una risposta argomentata al quesito sollevato dalla II Sezione della Corte di cassazione. In mancanza di sufficienti riferimenti normativi, e dunque nell’impossibilità di affidarsi unicamente ad interpretazioni letterali o sistematiche, la soluzione del problema sembra infatti essere in gran parte rimessa ad un’approfondita riflessione sulla ratio garantista del meccanismo della retrodatazione e sulle esigenze che, negli anni, ne hanno determinato la progressiva estensione dell’ambito applicativo.

 

8. Ma soffermiamoci ancora un momento sul caso di specie. Seppur non basterà a fornire un quadro completo delle molteplici situazioni (verrebbe da dire: “combinazioni”) che potrebbero presentarsi nella prassi[17], chiarire come l’adesione all’uno o all’altro orientamento avrebbe potuto riverberarsi sulle sorti del secondo provvedimento cautelare sarà senz’altro di aiuto per meglio comprendere l’effettiva portata applicativa del nodo interpretativo in esame.

Come si è già detto (§2), nell’ambito di un procedimento per detenzione di sostanze stupefacenti e di armi, il ricorrente si era visto applicare la custodia cautelare in carcere. La misura si era protratta per diversi mesi, lungo un lasso temporale che aveva abbracciato in parte le indagini preliminari, in parte le fasi successive. Per comodità espositiva, ipotizziamo (non emergendo il dato né dalla sentenza, né dall’ordinanza di rimessione) che la custodia cautelare sofferta dall’imputato nel corso delle indagini preliminari avesse avuto una durata di 6 mesi.

Circa 18 mesi dopo l’emissione del suddetto provvedimento, che comunque continuava ad avere efficacia, nei confronti dello stesso soggetto era stata applicata una nuova custodia cautelare in carcere nell’ambito delle indagini preliminari di un diverso procedimento, relativo al delitto di cui all’art. 416-bis c.p.

Supponendo che tale reato si fosse consumato antecedentemente rispetto all’applicazione della prima misura custodiale (presupposto indefettibile per l’operatività dell’art. 297, co. III, c.p.p.), le Sezioni Unite avrebbero dovuto dare risposta al seguente interrogativo: fino a quando, nel corso delle nuove indagini preliminari, avrebbe potuto dispiegare efficacia la seconda ordinanza cautelare, tendendo conto che il primo termine “di fase” per il delitto de quo è di 12 mesi (art. 303, co. I, lett. a, n. 3)?

Rifacendosi all’orientamento maggioritario[18], la “retrodatazione” (ma, a ben vedere, l’operazione somiglia più ad una sorta di “scomputo del presofferto”) ex art. 297, co. III, c.p.p. avrebbe dovuto operare tenendo conto soltanto dei mesi di custodia cautelare espiati nella “fase omogenea” del diverso procedimento. Così, nel nostro esempio, la nuova ordinanza cautelare avrebbe perso efficacia qualora nel termine di 6 mesi (12 – 6) non fosse stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio o l’ordinanza che dispone il giudizio abbreviato. Avremmo avuto, così, una retrodatazione meramente «correttiva», espressione con cui la dottrina identifica la «rettificazione della scansione cronologica delle contestazioni cautelari, senza l’acquisto, però, di alcun beneficio in termini di libertà personale»[19].

Peraltro, accogliendo tale soluzione, l’indagato non avrebbe potuto neppure chiedere l’applicazione della retrodatazione ex art. 297, co. III, c.p.p. in sede di riesame. Secondo l’indirizzo giurisprudenziale sposato dalle Sezioni Unite nel 2012, infatti, «la questione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare può essere dedotta anche in sede di riesame solo se […] per effetto della retrodatazione il termine sia interamente scaduto al momento della emissione del secondo provvedimento cautelare»[20].

Stando invece al contrario indirizzo di recente emerso nella giurisprudenza di legittimità[21], nell’effettuare tale calcolo si sarebbe dovuto prendere in considerazione tutto il periodo di custodia cautelare già sofferto dall’indagato nel diverso procedimento, e cioè anche quello riguardante fasi diverse rispetto alle indagini preliminari. E così, tornando al nostro esempio, posto che la misura custodiale disposta nel primo procedimento si era già protratta per circa 18 mesi, la seconda ordinanza cautelare non avrebbe potuto trovare nessuno spazio di efficacia, dal momento che sarebbe risultato già interamente esaurito il primo termine “di fase”, corrispondente a 12 mesi. E ciò sarebbe stato vero anche laddove, eventualmente, si fosse tenuto conto della possibile proroga di 6 mesi ex art. 305, co. II, c.p.p. In questo caso, avremmo potuto parlare di «retrodatazione selettiva», utilizzando un’efficace espressione dottrinale che abbraccia le ipotesi in cui l’applicazione dell’art. 297, co. III, c.p.p. conduce alla «caducazione del titolo custodiale, ma non anche all’effettivo riacquisto della libertà da parte del soggetto»[22], stante la perdurante efficacia di un altro provvedimento cautelare (in questo caso, quello risalente al gennaio 2016).

Ad un rapido sguardo, quest’ultimo orientamento ci sembra particolarmente persuasivo, apparendo in linea con la ragion d’essere del meccanismo della retrodatazione di cui all’art. 297, co. III, c.p.p.

Secondo una ricostruzione ampiamente condivisa, infatti, tale istituto intende realizzare una vera e propria fictio juris, che attenta dottrina ha ricondotto nel perimetro delle «finzioni traslative temporali»[23]. Più precisamente, tale norma imporrebbe di ragionare come se l’esecuzione della seconda ordinanza fosse intervenuta in concomitanza con l’esecuzione della prima, così ripristinando quello che sarebbe stato «l’assetto processuale fisiologico se il pubblico ministero avesse tenuto una condotta corretta»[24].

Sicché, effettuando tale “giudizio controfattuale” nel caso di specie, si potrebbe mettere in luce come, se il secondo provvedimento cautelare fosse intervenuto assieme al primo, a 18 mesi di distanza da esso quel soggetto non avrebbe più potuto essere sottoposto a custodia cautelare in carcere senza prima essere “rinviato a giudizio”. In altre parole, retrodatando il dies a quo della misura al gennaio 2016, nell’agosto 2017 l’indagato non avrebbe più potuto essere in vinculis e, al contempo, “soltanto” indagato.

Deve comunque essere ribadita la necessità di approcciarsi al tema con estrema cautela: da una parte, infatti, l’orientamento maggioritario sembra prestarsi ad una più agevole applicazione nella prassi; dall’altra, occorre tenere a mente che non sempre da quella che può apparire la corretta soluzione di un caso concreto può farsi discendere l’esistenza di un principio di portata generale. 

 

9. Come si è già detto sopra (§2 e §4), il Tribunale del riesame, nel pronunciarsi sulla richiesta della difesa, si era rifatto ad un precedente giurisprudenziale nel quale, in linea di principio, i giudici di legittimità avevano dichiarato di aderire all’indirizzo maggioritario[25]. Se ci si sofferma su tale pronuncia, però, ci si accorge subito che, in quell’occasione, la Corte di cassazione era andata “oltre”, tessendo gli argomenti che hanno consentito al tribunale della libertà di affermare che, più in generale, in quel caso non ricorrevano gli estremi per applicare la disciplina delle “contestazioni a catena” (v. §2).

Più precisamente, in quell’occasione i giudici di legittimità avevano affermato che l’istituto della retrodatazione di cui all’art. 297, co. III, c.p.p. non dovrebbe trovare alcuna applicazione nei casi in cui, «in costanza dell’efficacia» della misura cautelare applicata per prima, il relativo procedimento «sia passato a una fase successiva»[26] rispetto a quella dell’altro procedimento. Stando a tale arresto, in siffatte ipotesi, cui si può ricondurre la vicenda de qua, la perdurante efficacia della misura applicata per prima impedirebbe «di dichiarare la sopravvenuta inefficacia di quella applicata in relazione al successivo procedimento»[27] per fatti diversi.

Tale posizione, che si inserisce nell’orientamento maggioritario, aggiungendovi però una “specificazione” che restringe il perimetro applicativo dell’art. 297, co. III, c.p.p., rende dunque ancor più articolato il già complesso dibattito giurisprudenziale.

Si tratta, tuttavia, di affermazioni che non appaiono particolarmente convincenti.

Proprio il caso de quo mostra, anzi, che la ratio garantista della “retrodatazione” ben potrebbe spiegare significativi effetti anche quando la misura cautelare emessa per prima in un diverso procedimento sia ancora efficace.

Basti osservare come, nella vicenda esaminata, la seconda custodia cautelare era stata disposta in relazione alla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 416-bis c.p., delitto che, come noto, porta con sé l’applicazione di una disciplina cautelare di sfavore. L’art. 275, co. III, c.p.p., infatti, prevede per tale reato una duplice presunzione: la prima, “semplice”, riguardante la sussistenza di esigenze cautelari; la seconda, “assoluta”, concernente l’adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere. Viene allora agevole mettere in rilievo come, ove vi fossero stati i presupposti per dichiarare l’inefficacia del secondo provvedimento cautelare, l’indagato, una volta ottenutane la caducazione, avrebbe potuto godere di una disciplina cautelare più favorevole.

 

10. Meno dibattuto in giurisprudenza, ma comunque interessato da articolate riflessioni dottrinali, è invece il profilo trattato dalle Sezioni Unite al fine di dichiarare l’inammissibilità del ricorso, profilo che – come si è visto (§5) – riguarda i rapporti tra la contestazione del reato associativo e l’operatività dell’art. 297, co. III, c.p.p.

Posto che, in determinati ambienti criminosi, eventuali periodi di detenzione non fanno affatto venir meno l’affectio societatis, non è raro che il reato associativo venga contestato a soggetti già detenuti, anche con riferimento a periodi successivi all’emissione del titolo custodiale. E in tali evenienze, come si è detto, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale deve escludersi l’operatività dell’art. 297, co. III, c.p.p., in quanto si tratterebbe di fatti commessi successivamente all’emissione della prima ordinanza cautelare.

Viene istintivo osservare come, alla luce di tale impostazione, che si è esposta alle critiche della dottrina[28], la tardiva contestazione del reato associativo potrebbe, in concreto, rappresentare il mezzo per eludere la disciplina delle contestazioni a catena, realizzando un indebito prolungamento della misura cautelare eventualmente disposta per i c.d. “reati-scopo” dell’associazione. E tale ombra è ancor più percepibile laddove l’incapacità dello stato detentivo di determinare lo scioglimento del vincolo associativo venga argomentata sulla base di generiche massime di esperienza, che, in definitiva, fanno eco a quel brocardo secondo cui “semel mafiosus semper mafiosus[29].

 


[1] Cfr. P. Tonini, Manuale di procedura penale, XIX ed., Giuffrè, Milano, 2018, p. 476.

[2] Già con la sentenza del 25 giugno 1997, n. 9, le Sezioni Unite della Corte di cassazione, chiamate a dirimere un complesso contrasto giurisprudenziale, avevano affermato che la regola della “retrodatazione” prevista dall’art. 297, co. III, c.p.p. debba trovare applicazione anche quando le ordinanze applicative della medesima misura cautelare siano emesse in procedimenti diversi. Per un commento alla pronuncia si rinvia a A. Scella, «Contestazioni a catena» e pluralità di procedimenti: una discutibile opinione delle Sezioni Unite, in Cass. pen., XII, 1997, p. 3361 ss.

[3] Si veda §3 del “ritenuto in fatto”.

[4] Cfr. §1 del “ritenuto in fatto”.

[5] Cfr. §1 del “ritenuto in fatto”.

[6] L’ordinanza di rimessione è stata pubblicata in questa Rivista il 24 maggio 2018, con nota di P. De Martino, Rimessa alle Sezioni Unite una questione in tema di retrodatazione dei termini della custodia cautelare in ipotesi di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi.

[7] Cfr. §3 del “considerato in fatto”. Per alcune precisazioni si rinvia al §9 di questo contributo.

[8] Cfr. §3 del “considerato in fatto”. In questi termini Cass. pen., Sez. F., 21 agosto 2014, n. 47581; Cass. pen., Sez. VI, 06 febbraio 2013, n. 15736; Cass. pen., Sez. VI, 12 novembre 2014, n. 50761; Cass. pen., Sez. IV, 02 marzo 2017, n. 18111.

[9] Cfr. §3 del “considerato in fatto”. In questi termini Cass. pen., Sez. VI, 28 dicembre 2017, n. 3058; Cass. pen., Sez. IV, 06 giugno 2017, n. 36088.

[10] Il riferimento è a Cass. pen., Sez. Un., 10 aprile 2007, n. 14535, Librato, richiamata sub §2 del “considerato in diritto”.

[11] Cfr. §3 del “considerato in diritto”.

[12] Cfr. §3.3 del “considerato in diritto”.

[13] Cfr. §3.1 del “considerato in diritto”.

[14] Per una breve ricostruzione dell’evoluzione della disciplina si veda C. Conti, Le contestazioni a catena nell’applicazione della custodia cautelare: dalla repressione di un abuso ad un automatismo indifferenziato, in Riv. it. dir. e proc. pen., IV, 2001, p. 1275 ss.

[15] Così F. Cordero, Procedura penale, IX ed., Giuffrè, Milano, 2012, p. 530.

[16] Per una ricostruzione dell’ambito applicativo dell’art. 297, co. III, c.p.p. e dei principi che regolano la materia è essenziale rinviare a Cass. pen., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 21957, Rahulia, in Cass. pen. 2005, X, p. 2885 ss., con nota di L. Giuliani, Le Sezioni unite “normalizzano” l’interpretazione in tema di contestazioni a catena ex art. 297, co. III, c.p.p. (nel solco obbligato di una discutibile sentenza costituzionale).

Fondamentale è stato poi l’intervento della Corte costituzionale con la sentenza 3 novembre 2005, n. 408, attraverso la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 297, co. III, c.p.p. nella parte in cui non impone la retrodatazione della custodia anche in relazione a fatti diversi non connessi «quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della precedente ordinanza».

Successivamente, le Sezioni Unite, con la sentenza 19 dicembre 2006 (dep. 10 aprile 2007), n. 14535, Librato, hanno chiarito che anche rispetto a reati non connessi la retrodatazione trova applicazione non solo nell’ambito di un procedimento riunito, ma pure in presenza di procedimenti diversi.

Infine, altra importante tappa è rappresentata da Corte cost., 22 luglio 2011, n. 233, pubblicata in questa Rivista il 23 luglio 2011, con nota di G. Romeo, Contestazioni a catena, retrodatazione dei termini di custodia e giudicato per i fatti di prima contestazione. Con tale pronuncia è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 297, co. III, c.p.p. nella parte in cui – con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi – non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura.

[17] Parla di «fisionomia fortemente polimorfa» della fattispecie processuale, per via delle «molteplici […] situazioni riconducibili nel concetto di contestazioni a catena», L. Ludovici, La disciplina delle “contestazioni a catena”, Cedam, 2012, p. 223.

[18] Cfr. nota 8.

[19] Così L. Ludovici, La disciplina delle “contestazioni a catena”, cit., p. 171.

[20] Cfr. Cass. pen., Sez. Un., 19 luglio 2012, n. 45246, pubblicata in questa Rivista il 26 novembre 2012 con nota di G. Romeo, Le Sezioni Unite sulla possibilità di far valere, nel procedimento di riesame, l’asserita necessità di retrodatazione della decorrenza del termine massimo di durata della custodia cautelare. Con questa pronuncia le Sezioni Unite avevano altresì specificato che la richiesta di riesame potesse essere avanzata solo qualora «tutti gli elementi per la retrodatazione» risultassero dall’ordinanza cautelare impugnata. Quest’ultimo limite è stato però “rimosso” dalla Consulta, che con la sentenza del 6 dicembre 2013, n. 293, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 309 c.p.p. come interpretato dalle Sezioni Unite, in quanto foriero di trattamenti differenziati in base a «fattori puramente accidentali».

[21] Cfr. nota 9.

[22] Cfr. L. Ludovici, La disciplina delle “contestazioni a catena”, cit., p. 171.

[23] Sul punto si veda L. Ludovici, La disciplina delle “contestazioni a catena”, cit., p. 45.

[24] Così C. Conti, Le contestazioni a catena…, cit., §11.

[25] Il riferimento è a Cass. pen., Sez. IV, 02 marzo 2017, n. 18111, ove, al §1.2 dei “motivi della decisione”, si legge che «è vero che la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, ai sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3, impone, ai fini del calcolo dei termini di fase, di frazionare la globale durata della custodia cautelare, imputandovi solo i periodi relativi a fasi omogenee».

[26] Cfr. Cass. pen., Sez. IV, 02 marzo 2017, n. 18111, §1.3. dei “motivi della decisione”.

[27] Cfr. Cass. pen., Sez. IV, 02 marzo 2017, n. 18111, §7 dei “motivi della decisione”.

[28] Per una completa analisi del problema si rinvia a L. Ludovici, La disciplina delle “contestazioni a catena”, cit., p. 110-134. Si veda anche M. Simonato, Brevi note in tema di «contestazioni a catena» relative a reati permanenti, in Giur. merito, III, 2009, p. 746 ss.

[29] Seppur in una diversa materia, vale a dire quella delle misure di prevenzione, il tema è stato recentemente affrontato a fondo da Cass. pen., Sez. Un., 30 novembre 2017, n. 111, pubblicata in questa Rivista il 15 gennaio 2018 con nota di A. Quattrocchi, Lo statuto della pericolosità qualificata sotto la lente delle Sezioni Unite. Per un commento all’indomani dell’“informazione provvisoria” si veda M. Cerfeda, La presunzione semel mafioso semper mafioso, applicata alle misure di prevenzione, non è ammissibile: osservazioni in attesa di delle motivazioni delle Sezioni Unite, in questa Rivista, 18 dicembre 2017.

Sull’ammissibilità di “presunzioni semplici” in relazione alla persistenza del vincolo associativo affermata da questa pronuncia in relazione al procedimento di prevenzione sia consentito il rinvio a D. Albanese, Il giudice della prevenzione personale deve accertare la sussistenza di una pericolosità attuale anche per i soggetti indiziati di appartenere alle associazioni di tipo mafioso. Brevi considerazioni a margine di una recente pronuncia delle Sezioni Unite, in Cass. pen., IV, 2018, p. 1086 ss.