ISSN 2039-1676


26 novembre 2012 |

Le Sezioni unite sulla possibilità di far valere, nel procedimento di riesame, l'asserita necessità di retrodatazione della decorrenza del termine massimo di durata della custodia cautelare

Cass., Sez. un., 19.07.2012 (dep. 20.11.2012), n. 45246, Pres. Lupo, Rel. Fiandanese, ric. Polcino

In caso di contestazione 'a catena', la questione di retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare con riguardo all'esecuzione del provvedimento più risalente può essere proposta, in sede di riesame, solo se dal provvedimento successivo risultino tutti gli elementi per la stessa retrodatazione, e a condizione che il termine di durata, per l'effetto, risulti scaduto al momento della nuova contestazione.

 

1. Due vicende processuali abbastanza simili (cessione continuata di sostanze stupefacenti, istanza di riesame nella quale gli interessati avevano dedotto la perdita di efficacia della custodia cautelare per effetto della retrodatazione del termine di decorrenza, accoglimento dell'istanza da parte del tribunale della libertà e ricorso per cassazione del p.m.), riguardanti aree territoriali e uffici giudiziari diversi, hanno consentito alle Sezioni unite di dirimere una questione oggetto di contrasto giurisprudenziale, e cioè se nel caso di "contestazione a catena" la retrodatazione di decorrenza del termine di custodia cautelare possa essere dedotta nel procedimento di riesame, o se debba piuttosto essere formulata una istanza di revoca della misura ai sensi dell'art. 299 c.p.p.

L'input era partito da due ordinanze ex art. 618 c.p.p. (rispettivamente deliberate il 2 e il 4 maggio 2012) della quarta sezione penale la quale, preso atto che, nei casi sottoposti al suo esame, al momento della emissione della seconda misura cautelare era interamente decorso il termine di fase a far data dalla emissione della prima ordinanza, si è posta d'ufficio il problema preliminare della deducibilità della questione in sede di riesame: problema che, in quanto attinente alla competenza funzionale del giudice, assimilabile alla competenza per materia, è tale da determinare, in caso di violazione della regola, una nullità assoluta, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento.

Nella giurisprudenza di legittimità su tale problema si era determinato, da alcuni anni, un contrasto interpretativo[1].

Da un lato, sulla scia di una non recente decisione delle Sezioni unite (Sez. un., 5 luglio 1995, n. 26[2], la giurisprudenza di legittimità maggioritaria aveva ritenuto che le cause determinanti la perdita di efficacia dell'ordinanza impositiva della misura cautelare - e tra queste l'ipotesi prevista dall'art. 297, comma 3, c.p.p. - si risolvono in vizi processuali che non incidono sull'intrinseca legittimità dell'ordinanza, ma agiscono sul diverso piano della caducazione della misura. Pertanto, esse devono essere dichiarate nell'ambito di un procedimento appositamente promosso con istanza di revoca ex art. 306 c.p.p., la decisione sulla quale è suscettibile di appello e, a seguire, di ricorso per cassazione, ma non possono costituire oggetto di richiesta di riesame o addirittura di ricorso per cassazione omisso medio[3].

Dall'altro, un indirizzo in parziale contrasto, formatosi in epoca recente. Da ultimo, la prima sezione penale aveva ritenuto che la questione relativa all'applicazione della regola di retrodatazione dei termini di decorrenza della custodia cautelare in caso di cosiddetta contestazione a catena può essere validamente dedotta in sede di riesame ove si prospetti che, al momento dell'emissione dell'ordinanza cautelare, i termini stessi siano già scaduti proprio per effetto della retrodatazione[4]. Secondo tale decisione, occorrerebbe distinguere l'ipotesi nella quale sia stato dedotto che già al momento della emissione dell'ordinanza di custodia cautelare i termini erano scaduti per l'ipotizzata retrodatazione da quella in cui si faccia questione di inefficacia sopravvenuta o sopravveniente del titolo (per il prossimo maturare dei termini): solo nella prima ipotesi la questione può essere posta in sede di riesame, mentre, quando si tratti di inefficacia "non originaria" della misura, essa va proposta in sede di istanza di revoca.

Negli stessi termini si erano registrate in precedenza un paio di altre pronunce[5], mentre, in senso diverso, ma non molto distante, si era pronunciata la terza sezione[6], in un caso nel quale, dinanzi al tribunale del riesame, non era stata dedotta l'inefficacia della misura per lo spirare del termine dovuto alla retrodatazione, ma era stato formulato un apposito motivo di ricorso per cassazione e, nel giudizio di legittimità, si era ritenuto, alquanto sbrigativamente, che la questione avrebbe dovuto porsela egualmente il tribunale della libertà ex officio.

 

2. Per la soluzione del problema le Sezioni unite - che, oltre alla sentenza in epigrafe, hanno affermato gli stessi principi nella coeva sentenza n. 45247 (ric. Aslani) - sono partite da lontano, passando in rassegna, in una rivisitazione accurata e completa, tutte le loro precedenti decisioni che, pur non avendo trattato dell'argomento, avessero esaminato problemi affini, con soluzioni suscettibili di ricadute sul thema decidendum.

La lettura della pronuncia in commento mostra come la conclusione odierna delle Sezioni unite fosse obbligata alla luce dei precedenti, se letti cum grano salis, lungo una linea evolutiva costante alla quale non poteva far velo la circostanza che la prima pronuncia su argomento contiguo (la sopravvenuta estinzione della misura cautelare conseguente alla nullità dell'interrogatorio di cui all'art. 294 c.p.p.) aveva affermato che, «essendo il riesame preordinato a verificare soltanto i presupposti legittimanti l'avvenuta adozione della misura cautelare e non anche quelli incidenti sulla sua persistenza, non è consentito dedurre, nel corso di detto procedimento, la successiva perdita di efficacia di tale misura, derivata dalla mancanza o dalla invalidità di successivi provvedimenti» (Sez. un., 5 luglio 1995, n. 26, cit.). Difatti, di lì a poco, Sez. un., 17 aprile 1996, n. 7[7] aveva mitigato il rigore dell'affermazione, ritenendo che la questione sulla persistente efficacia della misura può essere proposta, insieme ad altre concernenti la legittimità originaria del provvedimento coercitivo, mediante il ricorso per cassazione avverso la decisione del riesame[8], pur tenendo fermo il principio per cui la declaratoria di inefficacia dell'ordinanza coercitiva spetta, di regola, al giudice del procedimento principale ai sensi dell'art. 306 c.p.p.

Non sorprende, perciò che, subito dopo, il più alto collegio, chiamato a stabilire se l'inosservanza dei termini previsti dall'art. 309, comma 5, c.p.p. e la conseguente perdita di efficacia dell'ordinanza coercitiva possano essere rilevate nel giudizio di cassazione instaurato avverso la decisione del riesame, anche d'ufficio ai sensi dell'art. 609, comma 2, o dedotte come motivi nuovi, avesse ritenuto che il soggetto il quale ha diritto a riacquistare la libertà, oltre a potere in ogni tempo (salva la preclusione derivante dal giudicato cautelare) chiedere al giudice del procedimento principale la dichiarazione di sopravvenuta estinzione della misura, può, anche nel corso del procedimento di riesame, agire dinanzi a quel giudice per far valere l'automatica perdita di efficacia dell'ordinanza di custodia cautelare per l'inosservanza dei termini della medesima procedura richiamati dall'art. 309, comma 10, c.p.p. (Sez. un., 15 gennaio 1999, n. 1[9]).

Vero è che in quelle occasioni le Sezioni unite si occupavano di casi nei quali ricorrevano cause sopravvenute di inefficacia della misura coercitiva e che, invece, nel presente caso si trattava di cause in grado di incidere sin ab origine sul potere cautelare, paralizzandone l'esercizio, per essersi esso già consumato (quando, appunto, per effetto della retrodatazione di decorrenza del termine, quest'ultimo debba considerarsi già spirato prima dell'emissione della ulteriore ordinanza cautelare). Ma la circostanza non viene ignorata e offre anzi al Collegio l'occasione per ribadire tutti i precedenti suoi insegnamenti[10], precisando, sul tema qui in discussione, che, qualora lo spirare del termine di durata della prima misura cautelare sopravvenga all'adozione di quella ulteriore, la questione non è deducibile dinanzi al tribunale del riesame, ma solo mediante istanza di revoca.

A tale ultimo proposito, peraltro, non pare molto centrato, né convincente, l'argomento per cui, quando si tratta di «evento intervenuto nel tempo intercorrente tra l'emissione dell'ordinanza cautelare e la decisione del tribunale del riesame», l'ordine delle competenze non potrebbe essere messo in discussione neanche sotto il profilo dell'esigenza di rapidità in materia di decisioni de libertate, sul rilievo che il giudice della revoca deve provvedere entro cinque giorni, e quindi in tempi più rapidi di quelli propri del tribunale del riesame: è noto, infatti, che quest'ultimo termine, previsto dall'art. 299, comma 3, c.p.p., a differenza di quello previsto dal successivo art. 309, comma 9, ha natura ordinatoria e quindi non è presidiato da sanzione[11]. Ed è altrettanto noto che nella prassi si tratta di termine la cui osservanza può essere disattesa.

Il rilievo è tanto più sfocato quando si pensi che in un caso del genere non sembrano sussistere ostacoli alla facoltà dell'indagato in vinculis - proprio in ossequio all'esigenza di rapidità delle decisioni in materia di libertà personale puntualmente evocata nella sentenza anche con riguardo all'art. 5, comma 4, CEDU, e all'art. 9, comma 4, Patto internazionale sui diritti civili e politici - di rappresentare l'avvenuta estinzione della misura in un procedimento già attivato e a definizione celere, nel quale un provvedimento di liberazione potrebbe intervenire ben prima che nella procedura conseguente alla richiesta di revoca.

 

3. Dopo questo ampio excursus, le Sezioni unite sono passate ad esaminare la questione loro devoluta dalla quarta sezione penale, consistente nello stabilire se l'estinzione della (ulteriore) misura cautelare, disposta a termini già scaduti per effetto della loro asserita retrodatazione al momento di emissione di una precedente ordinanza cautelare, possa essere dedotta come motivo di riesame dinanzi al competente tribunale.

Anche qui le Sezioni unite, nel solco dei loro più recenti insegnamenti sulle condizioni per l'applicabilità dell'art. 297, comma 3, c.p.p. (Sez. un., 22 marzo 2005, n. 21957[12] e 19 dicembre 2006, n. 14535/2007[13], ribadiscono che la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia opera:

1)- in caso di ordinanze assunte nello stesso procedimento,

a)- automaticamente nel caso di emissione di più ordinanze dispositive, nei confronti dell'imputato, di una misura cautelare personale per lo stesso fatto, anche se diversamente qualificato o circostanziato, o per fatti diversi, legati da continuazione, concorso formale o connessione teleologica, commessi anteriormente all'emissione della prima ordinanza;

b)- a condizione che al momento di emissione della prima ordinanza fossero desumibili dagli atti elementi idonei a giustificare le misure applicate con le ordinanze successive, qualora i provvedimenti cautelari riguardino fatti diversi, tra i quali non sussiste la connessione qualificata di cui all'art. 297, comma 3, c.p.p.;

2)- in caso di ordinanze assunte in diversi procedimenti,

a)- se si tratta di fatti diversi in relazione ai quali esiste connessione qualificata, per quelli desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stato emesso il primo provvedimento cautelare;

b)- se si tratta di fatti diversi in relazione ai quali non esiste connessione qualificata, solo se i diversi procedimenti pendono dinanzi alla stessa autorità giudiziaria e la loro separazione può essere frutto di una scelta del pubblico ministero, a condizione che gli elementi giustificativi dell'ordinanza ulteriore fossero già desumibili dagli atti al momento di emissione della prima.

Infine, le Sezioni unite danno atto che, per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale in parte qua, dell'art. 297, comma 3, c.p.p., di cui alla sentenza 22 luglio 2011 n. 233 della Corte costituzionale[14], la regola di retrodatazione dei termini relativi a una misura disposta con ordinanza successiva opera anche quando, per i fatti di cui alla prima ordinanza, l'imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato prima dell'adozione della ulteriore misura (unico punto in cui sono costrette a prendere le distanze dalla loro precedente sentenza 23 aprile 2009 n. 20780 [15]).

Il catalogo delle condizioni di applicabilità dell'art. 297, comma 3, c.p.p. così minuziosamente elaborato consente alle Sezioni unite di definire la questione sottoposta al loro esame.

Premessa la specifica connotazione del procedimento di riesame, incompatibile con l'esercizio di poteri istruttori per la necessaria speditezza del suo svolgimento, e dato atto del rilievo che la deduzione di una ipotetica "contestazione a catena" può comportare l'introduzione, nel giudizio, di temi complessi e di non agevole accertamento, la Corte ha concluso nel senso che il tribunale del riesame può pronunciarsi sulla materia solo quando elementi incontrovertibili emergenti dall'ordinanza impugnata consentano di ritenere: 1)- che tutti gli elementi richiesti per retrodatare i termini di decorrenza di essa risultino dal suo testo; 2)- che i termini di durata della misura siano già spirati, per effetto della retrodatazione, al momento in cui essa è stata disposta.

Conclusione da condividere e forse riduttiva rispetto alle aspettative poste dalla sezione rimettente; ma sarebbe stata obiettivamente difficile una interpretazione di maggiore apertura.

Rimane, tuttavia, il dubbio sulla possibilità - ricorrendo le condizioni sopra indicate - di dedurre all'udienza di riesame l'estinzione della misura per effetto di retrodatazione "non originaria", ma che sia maturata nel tempo intercorrente tra l'emissione dell'ordinanza e la decisione del tribunale: possibilità esclusa dalla sentenza con una motivazione non incontrovertibile, come accennato nel corso dell'esposizione.

È molto probabile che la questione si ripresenti, in una prossima occasione, all'esame della Corte di cassazione.

 


[1] Per una recente ricostruzione si veda Leo, «Contestazioni a catena» e procedura di riesame, in Dir. pen. processo 2012, p. 690.

[2] In Foro it., 1996, II, c. 289.

[3] In tal senso sez. I, 9 luglio 1997 n. 4776, in C.e.d. Cass., n. 208503; sez. VI, 17 novembre 1998 n. 3680, ivi, n. 212686; sez. VI, 22 maggio 2003 n. 31497, ivi, n. 226286; sez. II, 13 ottobre 2005 n. 41044, ivi, n. 232697; sez. I, 13 luglio 2007 n. 35113, ivi, n. 237632; sez. II, 27 giugno 2007 n. 35605, ivi, n. 237991; sez. VI, 23 gennaio 2008 n. 10325, ivi, n. 239016; sez. VI, 20 marzo 2012 n. 19555, ivi, n. 252780.

[4] Sentenza 20 dicembre 2011, n. 1006/2012, in C.e.d. Cass., n. 251687.

[5] Sez. I, 29 marzo 2011, n. 24784 e n. 30480, in C.e.d. Cass., rispettivamente n. 249683 e n. 251090.

[6] Sez. III, 9 febbraio 2010, n. 9946, in C.e.d. Cass., n. 246237.

[7] In Foro it., 1996, II, c. 563.

[8] Indirizzo, poi, confermato da Sez. un., 16 dicembre 1998, n. 25/1999, in Cass. pen., 1999, p. 1405 ss.

[9] In Arch. nuova proc. pen., 1999, p. 129; idem, sostanzialmente, la coeva Sez. un. 18 gennaio 1999 n. 2, ibidem.

[10] Ultimo quello della sentenza 31 maggio 2000, n. 14, in Arch. nuova proc. pen., 2000, p. 387.

[11] Si tratta di giurisprudenza costante: sez. VI, 11 febbraio 2009, n. 7319, in C.e.d. Cass., n. 242925; sez. VI, 7 dicembre 1991, n. 3546/1992, ivi, n. 190039; sez. fer., 21 agosto 1990, n. 2604, in Giur. it., 1991, II, c. 222.

[12] In Corr. mer., 2005, p. 941, con commento di Leo, Contestazioni a catena e decorrenza dei termini di custodia.

[13] In Cass. pen., 2007, p. 3229, con commento di Calvanese, Le Sezioni Unite si pronunciano ancora sulla "contestazione a catena".

[14] In questa Rivista, con nota di Romeo.

[15] In Guida dir., 2009, n. 31, p. 83 ss.