ISSN 2039-1676


13 dicembre 2013 |

"Contestazioni a catena" e giudizio di riesame: è fondata la questione di legittimità costituzionale relativa all'art. 309 c.p.p.

Corte cost., sent. 6 dicembre 2013, n. 293, Pres. Silvestri, Rel. Frigo

1. La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l'art. 309 c.p.p., in quanto interpretato nel senso che la deducibilità della retrodatazione, nel procedimento di riesame, della decorrenza dei termini di durata massima delle misure cautelari, prevista dall'art. 297, co. 3, c.p.p., sia subordinata alla condizione che tutti gli elementi per la retrodatazione risultino dall'ordinanza cautelare impugnata.

L'iter procedimentale che ha portato a tale pronuncia appare tanto intricato quanto interessante. La questione di legittimità costituzionale è stata infatti sollevata dal giudice del rinvio proprio nel procedimento in cui, per la prima volta, le Sezioni Unite della Corte di cassazione avevano affermato che, nel caso di contestazioni a catena, la questione della retrodatazione potesse essere posta in sede di riesame solo alla condizione che tutti gli elementi per la retrodatazione risultino dall'ordinanza cautelare impugnata, oltre alla necessità che il termine massimo di durata della misura cautelare sia già scaduto prima dell'emissione dell'ordinanza (Cass., Sez. un., 19 luglio 2012, n. 45246, in questa Rivista, con nota di G. Romeo, Le Sezioni unite sulla possibilità di far valere, nel procedimento di riesame, l'asserita necessità di retrodatazione della decorrenza del termine massimo di durata della custodia cautelare).   

La pronuncia a Sezioni Unite si era resa necessaria a causa di un contrasto giurisprudenziale - o meglio, di un mutamento di orientamento - in relazione alla possibilità di dedurre la retrodatazione, in base all'art. 297, co. 3, c.p.p., in sede di riesame (in dottrina, sul tema, v. L. Ludovici, La disciplina delle "contestazioni a catena", Padova, 2012, 199 ss.).

Per un primo e maggiormente consolidato orientamento ciò non sarebbe stato possibile, in quanto il riesame sarebbe esperibile solo per far valere la mancanza dei presupposti di validità, formali e sostanziali, dell'ordinanza cautelare, validità non intaccata dal meccanismo della retrodatazione. Quest'ultima, infatti, inciderebbe piuttosto sull'efficacia della misura, da far valere tramite istanza di revoca ex art. 306 c.p.p., salva poi la possibilità di proporre appello nel caso di decisione negativa (Cass., sez. I, 15 aprile 1991, Falanga, in Giur. it., 1993, II, c. 49; Cass., sez. I, 10 marzo 1994, Annis, in Giust. pen., 1994, III, c. 360; Cass., sez. VI, 17 novembre 1998, Di Matteo, in Cass. pen., 2000, p. 1337).

In base ad un più recente orientamento, invece, la retrodatazione potrebbe sì farsi valere in sede di riesame, ma solo qualora l'ordinanza che dispone la misura sia stata emessa dopo la scadenza del termine di durata massima della misura cautelare. Infatti, ci si troverebbe in tal caso di fronte ad un vizio originario della misura, che ben potrebbe farsi valere in sede di impugnazione (Cass., sez. I, 29 marzo 2011, Cela, in Cass. pen., 2011, p. 3775, con nota di G. Santalucia, La deducibilità in sede di riesame della questione sulla retrodatazione dei termini della misura cautelare nel caso di contestazioni a catena; per un quadro sull'evoluzione giurisprudenziale v. G. Leo, «Contestazioni a catena» e procedura di riesame, in Dir. pen. proc., 2012, p. 690).

Le Sezioni Unite avevano, infine, adottato una soluzione innovativa, che la Corte costituzionale, con la sentenza in esame, ha definito "di compromesso". Avevano infatti fissato il seguente principio di diritto: «nel caso di contestazioni a catena, la questione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare può essere dedotta anche in sede di riesame solo se ricorrono le seguenti condizioni: a) se per effetto della retrodatazione il termine sia interamente scaduto al momento della emissione del secondo provvedimento cautelare; b) se tutti gli elementi per la retrodatazione risultino dall'ordinanza cautelare».

 

2. Il giudice del rinvio, però, ha dubitato della legittimità costituzionale della seconda condizione richiesta dalle Sezioni Unite, ritenendola in contrasto, in particolare, con gli artt. 3, co. 1, 13, co. 5, 24, co. 2, 25, co. 1, 111, co. 3 e 117 co. 1 Cost.

In via preliminare, la Corte costituzionale, ha ribadito, che anche il giudice del rinvio è abilitato a sollevare questioni di legittimità costituzionale in relazione all'interpretazione data dalla Corte di cassazione nella pronuncia di annullamento. Il rapporto, infatti, non può ancora considerarsi "esaurito", dovendo la norma ancora trovare applicazione (in termini, C. cost., 4 giugno 2010, n. 197, in Giur. cost., 2010, p. 2326); inoltre, il giudice del rinvio non potrebbe altrimenti adottare un'interpretazione diversa da quella fornita dai giudici di legittimità (v. C. cost., 30 luglio 2008, in Giur. cost., 2008, p. 3306).

Detto ciò, la Corte ha affermato che la questione deve considerarsi fondata in relazione all'art. 3, co. 1, Cost. Al punto 6 del considerato in diritto si specifica, infatti,  che, subordinando la possibilità di esperire il riesame al fatto che tutti gli elementi per la retrodatazione siano deducibili dalla seconda ordinanza, si finisce per trattare in modo diverso situazioni identiche in base a «fattori puramente accidentali». «Il livello della tutela viene ad essere determinato, in altre parole, dal maggiore o minore scrupolo con il quale il giudice della cautela assolve all'onere di motivare l'ordinanza restrittiva e, prima ancora, dal fatto che egli sia o non sia a conoscenza degli elementi che impongono la retrodatazione».

Né sono validi gli argomenti che avevano portato le Sezioni Unite ad introdurre, in via radicalmente innovativa, tale condizione per far valere la retrodatazione in sede di riesame. I giudici di legittimità, in particolare, avevano fatto riferimento alla (altrimenti eccessiva) complessità dell'accertamento, incompatibile con i rigorosissimi termini previsti a pena di decadenza in tale sede, e al rischio di trovarsi di fronte ad un contraddittorio "monco", essendo la partecipazione del p.m. in sede di riesame solo eventuale.

La Corte costituzionale supera agevolmente tali osservazioni: molto spesso, infatti, in sede di riesame i giudici devono, in tempi strettissimi, risolvere questioni non meno complesse di quelle poste dall'accertamento della sussistenza di contestazioni a catena; inoltre, potrebbe anche darsi che i presupposti per la retrodatazione  emergano «in  modo del tutto piano da fonti diverse dall'ordinanza sottoposta a riesame. Basti pensare al caso emblematico in cui la sussistenza di una "contestazione a catena" si desuma in termini inequivocabili, anziché dall'ordinanza impugnata, dalla prima ordinanza cautelare (la quale potrebbe risultare, ad esempio, palesemente emessa per lo stesso fatto contestato con la seconda)». Per quanto riguarda la posizione del pubblico ministero, poi, si rileva che egli potrà in ogni caso decidere di intervenire o di produrre memorie, esattamente allo stesso di modo di qualunque altro caso in cui voglia contestare le deduzioni presentate dal soggetto in vinculis.

In base a tali motivazioni la Corte, come anticipato, dichiara incostituzionale l'art. 309 c.p.p., per violazione dell'art. 3, co. 1, Cost., nella parte in cui la possibilità di far valere la retrodatazione dei termini massimi della misura cautelare in sede di riesame viene subordinata al fatto che gli elementi per la retrodatazione risultino dall'ordinanza che ha disposto la misura cautelare. Le censure riferite agli altri parametri, di conseguenza, vengono ritenute assorbite.

 

3. Ciò detto, merita svolgere due rapidissime notazioni, in relazione al punto 5 del considerato in diritto. Innanzi tutto, si vuole sottolineare che la Corte costituzionale afferma espressamente di non aver affrontato la prima condizione posta dalla Corte di cassazione per dedurre la retrodatazione in sede di riesame - ovvero, il fatto che il termine massimo della misura deve essere interamente scaduto prima dell'emissione della seconda misura cautelare - poiché le censure di legittimità investivano unicamente l'altro presupposto. Nonostante ciò, si può dedurre dalla motivazione che il giudice delle leggi condivida pienamente tale condizione, che appare «in linea con il carattere impugnatorio del mezzo», con cui è quindi possibile far valere solo "vizi" originari della misura.

Inoltre, si deve notare che il Giudice delle leggi specifica che la possibilità di far valere, in sede di riesame, la retrodatazione debba considerarsi aggiuntiva, e non sostitutiva, rispetto a quella di chiedere la revoca della misura per la stessa ragione. I due rimedi, riesame e revoca, non possono infatti ritenersi equivalenti, presentando entrambi vantaggi e svantaggi. I vantaggi del riesame sarebbero dati, in particolare, dal fatto che questo prevede termini perentori per emettere la decisione - a differenza della revoca, che prevede un termine meramente ordinatorio, come anche l'eventuale appello successivo, proposto in caso di rigetto dell'istanza - e dal fatto che la decisione è demandata ad un giudice collegiale. La possibilità di esperire il riesame, quindi, si risolve complessivamente in un vantaggio per l'imputato, che potrà scegliere tra due strumenti per far valere la retrodatazione dei termini di durata massima della misura cautelare.