ISSN 2039-1676


28 gennaio 2019 |

Caso Diciotti: il Tribunale dei Ministri qualifica le condotte del Ministro Salvini come sequestro di persona aggravato e trasmette al Senato la domanda di autorizzazione a procedere

Trib. Catania, sez. Reati Ministeriali, Relazione del 7.12.2018 (dep. 22.1.2019), Pres. La Mantia

Per leggere il testo del provvedimento, pubblicato sul sito web del Senato, clicca qui.

 

1. Segnaliamo ai lettori che sul sito internet del Senato è stato pubblicato il provvedimento con il quale la Sezione Reati Ministeriali presso il Tribunale di Catania ha richiesto al Senato della Repubblica l’autorizzazione a procedere nei confronti del sen. Matteo Salvini, per il reato di sequestro di persona pluriaggravato (art. 605, comma 1, 2 n. 2 e 3 c.p.), segnatamente «per avere, nella sua qualità di Ministro dell’Interno, abusando dei suoi poteri, privato della libertà personale 177 migranti di varie nazionalità giunti al porto di Catania a bordo dell’unità navale di soccorso U. Diciotti della Guardia Costiera Italiana alle 23:49 del 20 agosto 2018 […]. Fatto aggravato dall’essere stato commesso da un pubblico ufficiale e con abusato dei poteri inerenti alle funzioni esercitate, nonché per essere stato commesso anche in danno di soggetti minori di età».

Una nuova tappa, dunque, nel procedimento penale che trae origine dal noto caso dei migranti che lo scorso agosto sono stati trattenuti per alcuni giorni a bordo della nave Diciotti, a seguito della decisione del Ministro dell’Interno di non autorizzarne il tempestivo sbarco.

Il prossimo passaggio procedurale prevede la delibera del Senato – ai sensi del combinato disposto dell’art. 96 Cost. e dell’art. 9, co. 5 ss. della legge costituzionale n. 1 del 1989 –  che potrà negare l’autorizzazione a procedere, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, “ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo (art. 9, co. 3, l. cost. n. 1/89).

La richiesta di autorizzazione, come si è detto, è pubblicata sul sito internet del Senato, dal quale si apprende altresì che la Giunta per le autorizzazioni a procedere dovrà produrre la propria relazione entro il 22 febbraio p.v. e successivamente la delibera sull’autorizzazione dovrà essere adottata – conformemente al termine di 60 giorni fissato dall’art. 9, co. 3 l. cost. n. 1/89 – entro il 23 marzo p.v.

 

2. Dato il carattere infra-procedimentale del provvedimento in esame, e la natura provvisoria delle statuizioni in esso contenute, basate sulle sole risultanze delle indagini preliminari, nel prosieguo ci si limiterà a dare conto degli snodi motivazionali che hanno portato il Tribunale dei Ministri a formulare la richiesta di autorizzazione a procedere.

Emerge sin d’ora, peraltro, sullo sfondo delle argomentazioni che ci accingiamo ad illustrare, una forte tensione tra la rivendicazione politica della necessità di “difendere le frontiere” attraverso misure coercitive, e la necessità che queste ultime si mantengano all’interno dei binari dello Stato di diritto, onde non sconfinare nell’arbitrarietà e nella sovversione dei valori fondamentali dell’ordinamento costituzionale e sovranazionale. Sono passati pochi anni da quando la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Khlaifia ed altri contro Italia, ha condannato il Governo italiano pro tempore per la gestione degli sbarchi a Lampedusa attraverso misure detentive extra ordinem. Se i fatti alla base del caso Diciotti troveranno riscontro processuale, dovremo trarne la conclusione che tuttora le più elementari garanzie riconosciute agli esseri umani in quanto tali – come quelle relative all’habeas corpus – possono essere calpestate invocando la tutela dell’ordine pubblico, o la necessità di condividere a livello europeo la questione sbarchi, propagandate attraverso lo slogan dei “porti italiani chiusi”. Uno scenario inquietante, rispetto al quale è auspicabile che gli “anticorpi dell’ordinamento”, responsabilità penale inclusa, agiscano per riportare il sistema al suo fisiologico e sano funzionamento.

 

3. Il Tribunale dei Ministri, anzitutto, ricostruisce analiticamente i fatti all’origine vicenda Diciotti.

Era il 14 agosto 2018, quando la Guardia Costiera italiana – segnatamente l’IMRCC (Italian Maritime Rescue Coordination Centre) presso la Centrale Operativa del Comando Generale delle Capitanerie di Porto – veniva informata dell’avvistamento di un barcone con numerosi migranti a bordo diretto verso la zona SAR (Search and Rescue)[1] maltese, presso la quale giungeva poco dopo la mezzanotte del 15 agosto.

Il 16 agosto i migranti chiedevano per due volte all’IMRCC immediati soccorsi in quanto, a causa del mare agitato, avevano iniziato a imbarcare acqua. La Guardia Costiera, in contatto con le autorità di Malta, preso atto dell’atteggiamento attendista di queste ultime, ordinava a due delle proprie motovedette di intervenire nella SAR maltese, dove i migranti, in totale 190 persone, venivano tratti in salvo. Quindi, a causa del peggiorare delle condizioni atmosferiche, le motovedette riparavano a mezzo miglio dalle coste di Lampedusa, dove i migranti venivano trasferiti a bordo della nave Diciotti, nel frattempo nominata coordinatrice SAR dalla Centrale operativa di Roma.

Il 17 agosto, l’IMRCC inviava tanto a Malta quanto all’Italia (segnatamente al Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione presso il Ministero dell’Interno), richiesta formale di indicazione di un luogo sicuro (c.d. place of safety o POS)[2] dove autorizzare l’attracco della Diciotti, senza tuttavia ricevere alcuna risposta. Soltanto 13 migranti, in ragione delle precarie condizioni di salute, venivano fatti sbarcare immediatamente a Lampedusa.

Il 19 agosto, preso atto del silenzio definitivo di Malta, l’IMRCC abbandonava la controversia in atto in merito all’individuazione del POS, ed ordinava alla Diciotti di dirigersi verso le coste italiane il porto di Pozzallo; quindi rettificava la destinazione indicando il porto di Catania, dove l’unità navale attraccava il 20 agosto. Contemporaneamente, tuttavia, al Capitano veniva ordinato di “non calare la passerella”, non permettendo dunque alle 173 persone a bordo di scendere dalla nave. Il 22 agosto, dietro richiesta del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minori di Catania, veniva autorizzato lo sbarco dei minorenni non accompagnati presenti sulla Diciotti.

Visto il perdurare della situazione di stallo, il 24 agosto l’IMRCC inviava un’ulteriore richiesta di POS al Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno. Il 25 agosto mattina venivano fatte sbarcare ulteriori 13 persone che necessitavano interventi sanitari urgenti.

La sera del 25 agosto veniva infine autorizzato lo sbarco dei migranti ancora a bordo, operazione che terminava nelle prime ore del 26 agosto con il trasferimento dei migranti presso l’hotspot di Messina.

 

4. In relazione a questi fatti, era inizialmente il Procuratore della Repubblica di Palermo a chiedere al Tribunale dei Ministri di Palermo di procedere nei confronti del Ministro dell’Interno in carica, ritenendo astrattamente ipotizzabile il reato di sequestro di persona. Il collegio, tuttavia, da un lato escludeva la sussistenza di condotte penalmente rilevanti fino al 19 agosto, dall’altro dichiarava la propria incompetenza territoriale in ordine ai fatti successivi, vale a dire quelli relativi all’attracco della nave Diciotti al porto di Catania ed alla successiva ritardata autorizzazione allo sbarco.

È proprio in relazione a questo secondo segmento temporale – ossia l’intervallo tra il 20 ed il 25 agosto – che interviene il provvedimento qui in esame, emesso dal Tribunale dei Ministri competente per territorio.

 

5. L’ipotesi di reato a carico del senatore Matteo Salvini, nella sua veste di Ministro dell’Interno, è che abbia abusato delle funzioni amministrative attribuitegli nell’ambito dell’iter procedurale per la determinazione del place of safety, ponendo arbitrariamente il proprio veto all’indicazione del POS da parte del competente Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione, e «così determinando la forzosa permanenza dei migranti a bordo dell’unità navale “U. Diciotti”, con conseguente illegittima privazione della loro libertà personale per un arco temporale giuridicamente apprezzabile ed al di fuori dei casi consentiti dalla legge» (p. 15).

Ricostruendo, anzitutto, la disciplina internazionale e interna sui soccorsi in mare e le successive operazioni di sbarco, il Collegio ricorda come, ai sensi della Convenzione di Amburgo “SAR” (ratificata dall’Italia con legge n. 147 del 1989), nonché delle successive Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Linee guida IMO, adottate con la Risoluzione del Comitato Marittimo per la Sicurezza n. 167-78), sussiste in capo allo Stato di “primo contatto” con le persone in pericolo (nel caso di specie, l’Italia), l’obbligo di intervenire e coordinare le operazioni di soccorso anche al di fuori della propria zona SAR, e ciò laddove l’autorità nazionale che sarebbe competente secondo la ripartizione delle acque marittime (nel caso di specie, Malta) non intervenga in tempi utili. Sempre in base alle citate Linee guida, l’operazione di soccorso può considerarsi conclusa solo con il tempestivo trasporto dei naufraghi presso un luogo sicuro, dove lo sbarco deve avvenire evitando indebiti ritardi. Infine, quanto alla designazione del POS, essa è affidata, in base alla normativa italiana di attuazione della sopraccitata disciplina internazionale (segnatamente la direttiva della Guardia Costiera SOP 009/15), alla responsabilità del Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione presso il Ministero dell’Interno, che vi provvede dietro richiesta formale dell’IMRCC. Ai sensi della medesima direttiva SOP, la designazione del POS costituisce un atto amministrativo endo-procedimentale vincolato nell’an, residuando un margine di discrezionalità solo in ordine all’individuazione del punto di sbarco più opportuno sul territorio nazionale.

Nel caso di specie, il Tribunale ritiene che la prima valida richiesta di POS sia stata quella formulata dall’IMRCC in data 17 agosto, e non la successiva richiesta del 24 agosto. In tal senso – si legge nel provvedimento – si sono univocamente espressi, in sede di s.i.t., i soggetti apicali degli Uffici investiti della questione. Tale conclusione non può essere revocata in dubbio dalla circostanza, peraltro definita “sospetta”, che due di essi abbiano successivamente rettificato le proprie dichiarazioni, definendo la richiesta del 17 agosto “anomala” in ragione del perdurare in quelle ore della controversia con Malta, dalla quale quale si attendeva ancora una risposta: come già illustrato, infatti, a fronte delle esitazioni di Malta, il coordinamento dell’operazione SAR era stato correttamente assunto dallo Stato di “primo contatto”, appunto l’Italia, che a tal fine aveva inviato le proprie unità navali, con conseguente insorgenza dell’obbligo di concludere la procedura con il trasferimento dei migranti in un luogo sicuro.

In ogni caso, prosegue il Collegio, la situazione di incertezza venutasi a creare rispetto all’intervento di Malta, la quale poteva essere invocata per giustificare il ritardo nella risposta alla richiesta del 17 agosto, doveva comunque ritenersi venuta meno il 19 agosto, quando il Comandante della Diciotti riceveva dalla Guardia Costiera l’ordine di dirigersi verso Catania: «è questo infatti il momento in cui l’autorità marittima italiana, preso atto del silenzio definitivo di Malta, ha abbandonato di fatto ogni questione sull’individuazione dello Stato responsabile, così radicando in capo al Governo italiano la “primaria responsabilità” dell’evento SAR» (p. 23).

Ulteriori profili di illiceità delle condotte contestate all’indagato vengono ravvisate nella violazione della disciplina sulla protezione dei minori stranieri non accompagnati (l. n. 47 del 2017). Infine, nessuna giustificazione per un trattenimento prolungato come quello in esame viene individuata negli artt. 10-ter T.U. imm. e 23 del Regolamento attuativo del medesimo T.U., contenenti disposizioni in materia di ricezione, identificazione e smistamento degli stranieri irregolari nell’immediatezza del loro rintracciamento sul territorio o in mare. 

Alla luce di queste coordinate fattuali e normative, la condotta tipica del reato ascritto al Ministro dell’Interno consisterebbe nelle illegittime direttive impartite al Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione: a partire dal 20 agosto – giorno dell’attracco a Catania, e dunque momento in cui era divenuto materialmente possibile effettuare lo sbarco –  fino al 25 agosto – giorno dell’indicazione del porto di Catania come POS – tali direttive hanno determinato un apprezzabile quanto ingiustificato ritardo nell’indicazione del POS da parte del Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione, ritardo da cui è direttamente scaturita una situazione di illegittima compressione della libertà personale di movimento delle persone a bordo della Diciotti.

 

6. Il Tribunale dei Ministri rileva altresì la sussistenza, in capo all’indagato, del dolo generico del sequestro: consapevolezza e volontà di impedire lo sbarco attraverso le proprie direttive si evincono sia dalle plurime esternazioni rivolte dallo stesso on. Salvini ai media, sia dalle dichiarazioni rilasciate al Tribunale dei Ministri dai vertici amministrativi preposti alle strutture ministeriali investite della questione, puntualmente riportate nella motivazione.

 

7. Il provvedimento affronta, ancora, la questione dell’eventuale sussistenza della causa di giustificazione dell’adempimento del dovere (art. 51 c.p.), giungendo anche su questo profilo a conclusioni negative. Premesso che la tutela dell’ordine pubblico rientra, ai sensi della legge n. 121 del 1981, tra le prerogative e le responsabilità del Ministro dell’Interno, il Tribunale dei Ministri osserva come «lo sbarco di 177 cittadini stranieri non regolari non potesse costituire un problema cogente di ordine pubblico, per diverse ragioni, ed in particolare: a) in concomitanza con il “caso Diciotti”, si era assistito ad altri numerosi sbarchi dove i migranti soccorsi non avevano ricevuto lo stesso trattamento; b) nessuno dei soggetti ascoltati da questo Tribunale ha riferito (come avvenuto invece per altri sbarchi) di informazioni sulla possibile presenza, tra i soggetti soccorsi, di “persone pericolose” per la sicurezza e l’ordine pubblico nazionale» (p. 40).

In realtà, soggiunge il collegio, «la decisione del Ministro non è stata adottata per problemi di ordine pubblico in senso stretto, bensì per la volontà meramente politica […] di affrontare il problema della gestione dei flussi migratori invocando, in base ad un principio di solidarietà, la ripartizione dei migranti a livello europeo tra tutti gli Stati membri» (p. 40). Proprio a questo riguardo, peraltro, la motivazione evidenzia come, nel perseguire tali finalità di ordine politico, la decisione del Ministro abbia finito per travalicare precisi limiti di ordine costituzionale e sovranazionale che dovrebbero invece informare l’agire delle istituzioni. Si richiama, sul punto, la sentenza della Corte Costituzionale n. 105 del 2001, che pur prendendo atto dei molteplici interessi pubblici coinvolti nella gestione dei flussi migratori, ha ribadito il carattere inviolabile dell’art. 13 Cost., spettante ai singoli in quanto essere umani, e dunque a prescindere dalla loro eventuale condizione di migranti irregolari. Ancora, si richiama la sentenza resa nel 2016 dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Khlaifia ed altri c. Italia, che ha già condannato il nostro Paese per la violazione dell’art. 5 della Convenzione, in un caso simile a quello in esame, dove i migranti appena sbarcati erano stati arbitrariamente trattenuti (anche) a bordo di navi.

 

8. Da ultimo, il collegio si interroga se la decisione del Ministro Salvini di non autorizzare lo sbarco integri un “atto politico” in senso stretto, come tale radicalmente insindacabile in sede giurisdizionale, oppure integri un atto amministrativo adottato per “ragioni politiche”, dal quale possono derivare anche responsabilità penali, a condizione che il Parlamento conceda l’autorizzazione a procedere prevista dall’art. 96 Cost. per i reati commessi dai Ministri nell’esercizio delle funzioni.

Dopo avere ricordato, sulla scorta di rilevante giurisprudenza amministrativa, che l’atto politico in senso stretto si caratterizza per due elementi essenziali – uno soggettivo (deve provenire da organi di rilievo costituzionale) ed uno oggettivo (deve contenere disposizioni generali di indirizzo dei pubblici poteri e deve essere libero nei fini) – il Tribunale dei Ministri si sofferma sulla compatibilità tra gli atti politici insindacabili dal potere esecutivo (contemplati dall’art. 7, co. 1 del Codice del processo amministrativo, ai sensi del quale “non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”), ed il principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui agli artt. 24 e 113 Cost., principio che all’evidenza non può tollerare l’esistenza di atti in relazione ai quali sia in radice preclusa ai cittadini la tutela dei propri diritti individuali dinanzi ad un giudice terzo e imparziale.

Al riguardo, si sottolinea la necessità di procedere ad una interpretazione costituzionalmente orientata del citato art. 7 CPA, in base alla quale l’atto politico «rimane tale fino a quando afferisce a questioni di carattere generale che non presentino un’immediata e diretta capacità lesiva nei confronti delle sfere soggettive individuali» (p. 46). Detto altrimenti, l’inidoneità dell’atto politico ad incidere sui diritti individuali rappresenta, al contempo, «la cartina di tornasole per […] la sua distinzione dall’atto amministrativo», nonché «la chiave per sostenere la compatibilità tra tale categoria di atti dell’esecutivo ed il pieno rispetto degli artt. 24 e 113 della Costituzione» (p. 46).

Tali premesse conducono alla conclusione secondo cui, nel caso in esame, le direttive impartite dal Ministro Salvini al Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione non possono essere qualificate come atti politici in senso stretto: invero, la designazione del place of safety costituisce un atto dovuto, privo – come visto alla luce della normativa sovranazionale e nazionale applicabile –  di discrezionalità nell’an; inoltre, il diniego allo sbarco incide direttamente sulla sfera giuridica dei suoi destinatari, e dunque non può essere automaticamente sottratto al sindacato del giudice penale.

Trattandosi, in conclusione, di un atto amministrativo (illegittimo) motivato da “ragioni politiche”, esso potrà costituire oggetto di procedimento penale, ben inteso laddove la Camera di appartenenza rilasci l’autorizzazione a procedere di cui si è detto.

 

 


[1] La Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il soccorso marittimi del 1979 obbliga gli Stati parte a garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo in mare. A tal fine le autorità dello Stato costiero competente su una determinata “zona di ricerca e salvataggio” (SAR), le quali abbiano avuto notizia di persone in pericolo di vita all’interno di detta zona, devono intervenire immediatamente senza tener conto della nazionalità o della condizione giuridica delle persone in pericolo.

[2] La Convenzione di Amburgo (v. nota precedente) prevede, accanto all'obbligo di garantire che sia prestata assistenza alle persone in pericolo, quello complementare di trasferire le persone soccorse in un "luogo sicuro". In base alle Linee guida attuative della Convenzione stessa (Risoluzione del Comitato Marittimo per la Sicurezza n. 167-78), il "luogo sicuro" è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse in quanto: a) la sicurezza dei sopravvissuti non sia più minacciata; b) le necessità umane primarie (come cibo, alloggio, cure mediche) possano essere soddisfatte; c) possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale.