ISSN 2039-1676


22 giugno 2011 |

Oscillazioni giurisprudenziali sul "periculum in mora" nell'ambito del sequestro conservativo a richiesta della parte civile

Nota a Cass. pen., sez. VI, sent. 26 novembre 2010 (dep. 9 dicembre 2010), n. 43660, Pres. Di Virginio, Est. Rotundo

L’art. 316, comma 2, c.p.p. prevede che la parte civile possa chiedere il sequestro conservativo dei beni dell’imputato o del responsabile civile, “se vi è fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie delle obbligazioni civili derivanti dal reato”. La funzione dell’istituto cautelare si ricollega all’esigenza di tutelare le pretese risarcitorie della parte civile nel processo penale, attraverso l’apposizione di un vincolo reale sui beni sottoposti a sequestro.
 
Il tema in esame si profila di particolare interesse, considerate le oscillazioni giurisprudenziali che continuano a registrarsi intorno al concetto di periculum in mora, quale presupposto – espressamente indicato dalla norma – per l’adozione della misura cautelare.
 
Come noto, secondo un primo filone, il periculum può essere integrato dalla sola condizione di inadeguatezza del patrimonio dell’imputato rispetto all’entità delle pretese creditorie, indipendentemente da un comportamento di quest’ultimo volto a disperdere i propri beni. (Cass., Sez. V, 26 settembre 2008, n. 43246, Rv. 241933; Cass., Sez. II, 14 febbraio 2007, n. 12907, Rv. 236387).
 
Secondo un diverso orientamento, che negli ultimi tempi si era andato sempre più consolidandosi, il pericolo andrebbe - invece - apprezzato “in relazione a concreti e specifici elementi riguardanti, da un lato, l’entità del credito e la natura del bene oggetto del sequestro e, dall’altro, la situazione di possibile depauperamento del patrimonio del debitore da porsi in relazione con la composizione del patrimonio, con la capacità reddituale e con l’atteggiamento in concreto assunto dal debitore medesimo” (Cass., Sez. V, febbraio 2010, n. 11291, Rv. 246367; Cass., Sez. III, 30 aprile 2009, n. 26559, Rv. 244371; Cass., Sez. IV, 26 ottobre 2005, n. 111, Rv. 232624).
 
La Cassazione, tuttavia, è tornata nuovamente a riaffermare l’opposto principio, reputando sufficiente, ai fini della concessione della misura reale, la mera sproporzione tra il credito vantato dalla parte civile e il patrimonio dell’imputato (v. Cass., Sez. VI, 6 maggio 2010, n. 26486, Rv. 247999). Si veda, in particolare, quanto sostenuto da Cass., Sez. VI, 26 novembre 2010, n. 43660, Rv. 248819, secondo cui “ai fini dell’adozione di un provvedimento di sequestro conservativo su richiesta del creditore privato, la sussistenza del «periculum in mora» deve essere alternativamente valutata in riferimento all’originaria inadeguatezza o insufficienza del patrimonio dell’imputato in relazione all’ammontare delle pretese risarcitorie e del complesso dei crediti che gravano su tale patrimonio, tale da evidenziare la necessità di assicurare un privilegio ai creditori da reato, ovvero all’insorgenza di un rischio di dispersione o diminuzione della garanzia patrimoniale, capace di determinare, in riferimento ai medesimi parametri in precedenza indicati, l’esigenza di applicare un vincolo reale idoneo ad assicurarne la conservazione”.
 
In tale ultima decisione, la Suprema Corte ha ritenuto fondati i rilievi delle parti civili ricorrenti, ritenendo che il Tribunale del Riesame avesse erroneamente interpretato il concetto del periculum, valutandolo solo in base a concreti e specifici elementi quali il comportamento del debitore, la natura dei beni oggetto del sequestro, la composizione del patrimonio, la capacità reddituale e l’atteggiamento dell’imputato.
 
Ad avviso dei Giudici di legittimità, tale opzione ermeneutica non sarebbe condivisibile, in quanto l’art. 316 c.p.p.nel declinare al secondo comma i presupposti per l’applicazione del sequestro (conservativo) su richiesta del creditore privato, espressamente si riferisce a situazioni in cui «manchino» ovvero (in alternativa) «si disperdano»  le garanzie a quello riservate, così ripetendo la formula già adottata dell'art. 189 c.p., comma 3, oggetto di consolidata e condivisa interpretazione (vedi per tutte la sentenza 30326 del 2004, Dal Cin)”.
 
Questa interpretazione parrebbe supportata dalla congiunzione “o”, inserita nel secondo comma del medesimo art. 316 c.p.p., ove si fa alternativamente richiamo a situazioni in cui “manchino” oppure “si disperdano” le garanzie della parte civile.
 
Sempre ad avviso della Cassazione, “coerentemente alle finalità della misura, l’insorgenza dell’esigenza cautelare può di conseguenza (come avverte autorevole dottrina) essere ravvisata: a) in relazione all’inadeguatezza del patrimonio dell’imputato rispetto all'ammontare dei crediti da reato e alla conseguente necessità di costituire un privilegio a favore dei creditori privati; a1) in relazione, in alternativa, all’insufficienza di quel medesimo patrimonio nei riguardi di una più vasta massa di creditori e alla necessità perciò di costituire un privilegio a favore dei crediti da reato; ovvero b) quando sorga un rischio di diminuzione-dispersione delle garanzie patrimoniali, capace di determinare, in riferimento ai medesimi parametri indicati sub a) e sub a1), l’esigenza di un vincolo reale idoneo ad assicurarne la conservazione”.
 
Nel caso di specie, quindi, il Tribunale del Riesame avrebbe potuto “valutare e porre a base della misura l’obiettiva inadeguatezza del patrimonio dell’imputato-debitore a fronte della pretesa risarcitoria delle parti civili, sottolineando altresì l’imponenza della entità dei crediti e, dunque, l’obiettiva insufficienza di quello stesso patrimonio a soddisfarli”.
 
A ben vedere, però, una simile ricostruzione non è esente da controindicazioni, quantomeno sul piano del diritto di difesa.
 
Anzitutto, si corre il rischio di spogliare di elementi qualificanti e selettivi un istituto già “povero”  di contenuti: basti considerare che l’altro presupposto (implicito)  del sequestro conservativo (il c.d. fumus boni iuris), nella prassi, finisce per ridursi alla semplice verifica della pendenza di un processo penale o a poco altro (cfr. Cass., Sez. IV, 17 maggio 1994, n. 707, Rv. 198681; Cass., Sez. III, 7 novembre 1990, n. 4670, Rv. 186134).
 
A parte tale ultima considerazione, l’orientamento preso in esame si profila oltremodo penalizzante sul piano processuale per l’imputato, che sarebbe impossibilitato a fornire una prova contraria in ordine alla insussistenza del periculum in mora, innanzi a pretese risarcitorie particolarmente elevate delle parti private.
 
A rafforzare tale opinione concorre un ulteriore dato proveniente dalla casistica.
 
Va incidentalmente ricordato che la giurisprudenza non richiede neppure chel’importo del credito sia precisamente individuato, accontentandosi che esso sia “determinabile con qualche approssimazione” (Cass., Sez. V, 8 maggio 2009, n. 28268, Rv. 244201), reputandosi sufficiente una valutazione complessiva “in relazione al presumibile danno arrecato agli istanti” (Cass., Sez. V, 25 giugno 2010, n. 35525, Rv. 248494).
 
In tal modo, sono evidenti gli svantaggi dell’interpretazione avallata dalla Suprema Corte.
 
Da un lato, ove comunque fosse ravvisabile una oggettiva sproporzione tra il credito solamente vantato dalla parte civile e i cespiti del debitore, verrebbe sottratto al giudice ogni possibile apprezzamento sulla condotta processuale ed extraprocessuale dell’imputato, togliendosi vigore e rilievo ad argomentazioni e ad obiezioni fondate sulla correttezza del comportamento del presunto reo.
 
Non v’è chi non veda un evidente paradosso: se davvero la condotta processuale ed extraprocessuale dell’imputato non dovesse acquisire alcuna rilevanza in termini positivi, ove si sia in presenza di crediti elevati vantati dalla parte civile, la disposizione in questione rischierebbe di apparire addirittura “criminogena”, incentivando la dispersione dei beni, anziché scoraggiando i comportamenti scorretti.
 
Dall’altro, in tali casi la posizione della parte civile risulterebbe gravata da un minore onere probatorio (a maggior ragione quando la misura fosse adottata, ancor prima del dibattimento, durante l’udienza preliminare). Con il conseguente rischio di generare, in presenza di una ingente pretesa risarcitoria, un pericoloso automatismo tra la domanda della parte civile e la decisione del giudice.
 
Lo squilibrio dei poteri tra la posizione della parte civile e quella dell’imputato risulterebbe, dunque, evidentissima, attesa la violazione della “condizione di parità” tra le parti imposta dal 2° comma dell’art. 111 Cost.
 
C’è da chiedersi, a questo punto, se una simile interpretazione dell’art. 316, comma 2, c.p.p. –fondamentalmente incentrata su un metro puramente economico ed “esterno” al processo, quale la valutazione della capienza del patrimonio dell’imputato – non si riveli processualmente dubbia sotto due diversi profili: quelli del necessario collegamento tra la valutazione del giudice penale e la condotta del reo e del pieno rispetto del diritto di difesa dell’imputato.