ISSN 2039-1676


11 novembre 2011 |

Il mancato riconoscimento dell'obiezione di coscienza al servizio militare viola l'art. 9 Cedu

Nota a C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 7 luglio 2011, ric. n. 37334/08, Bayatyan c. Armenia

Con la sentenza che può leggersi in allegato la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ribaltato il giudizio che la sezione semplice aveva espresso in tema di riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza.
 
Il ricorrente, cittadino armeno di religione cristiana e testimone di Geova, nato nel 1983, al compimento del diciassettesimo anno di età era stato dichiarato idoneo a svolgere il servizio militare. Nel 2001 si era quindi rivolto a varie autorità nazionali affermando che, in virtù delle proprie convinzioni religiose, non avrebbe potuto svolgere il servizio di leva ma si sarebbe reso disponibile per adempiere un servizio civile alternativo. Al compimento del diciottesimo anno di età il sig. Bayatyan veniva comunque convocato a comparire per gli adempimenti del caso ma non si presentava. In seguito, la Commissione parlamentare per gli affari di stato e legali lo informava che egli era obbligato a servire l’esercito così come previsto sia dalla costituzione armena che dal Military Liability Act. Per tale motivo, perseverando egli nel suo rifiuto, veniva sottoposto a procedimento penale che si concludeva, all’esito del giudizio di Cassazione, con una condanna a due anni e sei mesi di reclusione.
 
A seguito di tale vicenda il sig. Bayatyan presentava ricorso alla Corte europea lamentando il mancato rispetto dell’art. 9 Cedu. La terza sezione, con sentenza del 29 ottobre 2009 (per una sintesi della quale si rinvia a Rivista Italiana di diritto e procedura penale, 2010, p. 305), non riteneva sussistere alcuna violazione. Tale pronuncia era stata motivata sulla base del fatto che dall’art. 9 non derivasse un onere di riconoscimento di siffatto diritto in ragione della circostanza che la decisione sulla previsione o meno dello stesso all’interno dei singoli ordinamenti rientrasse nell’ampio margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati membri in materia. Per arrivare a tale conclusione i giudici di Strasburgo, in mancanza di propri precedenti sul tema, ripercorrevano l’antecedente giurisprudenza della Commissione (tra tutte Comm. Eur. dir. Uomo, dec. 6 dicembre 1991, Autio c. Finlandia; dec. 9 maggio 1984, A. c. Svizzera; dec. 7 marzo 1977, Obiettori di coscienza c. Danimarca) in base alla quale l’art. 9 doveva essere interpretato alla luce della disposizione di cui all’art. 4 § 3 lettera b Cedu secondo cui la nozione di “lavoro forzato o obbligatorio” non ricomprendeva in alcun modo servizi di carattere militare ovvero, negli Stati in cui l’obiezione di coscienza fosse prevista, servizi sostitutivi del servizio militare obbligatorio, lasciando pertanto aperta la possibilità che il diritto in questione non venisse riconosciuto dagli Stati membri. Osservavano inoltre che la Convenzione dovesse essere interpretata alla luce del diritto vivente e che il fatto che essa consentisse agli Stati la libera scelta sulla previsione dell’obiezione di coscienza, pur se essa risultava presente nella maggioranza di essi, non consentiva di ritenere sussistente un vero e proprio diritto garantito in tal senso.
 
Il ricorrente, quindi, chiedeva ed otteneva che la questione fosse esaminata dalla Grande camera insistendo nel fondare le proprie doglianze sulla violazione dell’art. 9 Cedu che garantisce libertà di pensiero, coscienza e religione. Contrariamente a quanto aveva stabilito la sezione semplice con la pronuncia richiamata, la Grande camera osserva che l’articolo 9 non deve più essere letto in combinato disposto con l’art. 4 § 3 Cedu, poiché questo non può avere la funzione di limitarne l’efficacia, ma deve essere interpretato unicamente sotto l’angolo visuale della disposizione in esso contenuta.
 
A tal riguardo precisano infatti i giudici di Strasburgo che l’interpretazione fatta propria dalla sezione semplice non riflette il reale scopo dell’art. 4 § 3 lettera b, in quanto dai lavori preparatori risultava che la previsione in parola stava unicamente a significare che qualsiasi servizio nazionale imposto agli obiettori dalla legge in sostituzione del servizio militare non sarebbe in alcun modo rientrato nella nozione di lavoro forzato obbligatorio. L’enunciato “nei paesi in cui è prevista l’obiezione di coscienza” costituiva pertanto semplice constatazione del fatto che, al momento dell’adozione della norma in questione, in molti paesi essa non era ancora contemplata non potendo quindi esso essere letto come ammissione esplicita della possibilità, per gli Stati, di non riconoscere tale diritto. Unica funzione della previsione di cui alla lettera b dell’art. 4 § 3 risulta quindi essere quella di fornire una delucidazione sul significato del brocardo “lavoro forzato obbligatorio”.
 
Tale approdo rappresenta quindi una netta inversione di rotta e costituisce una vera e propria novità nel panorama della giurisprudenza europea in tema di obiezione di coscienza. La Grande camera rileva infatti che all’epoca della vicenda la maggioranza degli Stati membri del Consiglio d’Europa aveva già riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza, principio esplicitamente contenuto anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, entrata in vigore nel 2009. Esso è inoltre divenuto una pre-condizione per l’amissione di nuovi Stati membri nel Consiglio d’Europa e, peraltro, la stessa Armenia aveva quindi in seguito provveduto a riconoscere tale diritto e ad istituire la possibilità di un servizio civile alternativo nel proprio ordinamento.
 
La Corte evidenzia quindi che, se è pur vero che l’art. 9 non fa esplicito riferimento all’obiezione di coscienza, tuttavia questa, qualora venga motivata sulla base di ferme convinzioni religiose, può certamente rientrare nell’ambito di applicazione di tale disposizione registrandosi un ampio consenso d’opinioni in ambito europeo volto al riconoscimento di tale diritto. Nel caso di specie il ricorrente, in mancanza della possibilità di svolgere un servizio civile alternativo, non aveva avuto altra scelta che rifiutarsi di essere arruolato. La Corte ritiene quindi che la condanna nei suoi confronti rappresenti una lesione del diritto alla libertà di religione, non necessaria in una società democratica, e quindi in contrasto con l’art. 9 Cedu.