ISSN 2039-1676


27 giugno 2013 |

Obiezione di coscienza e aborto farmacologico

Nota a Cass. pen., Sez. VI, 27.11.2012 (dep. 2.4.2013), n. 14979, Pres. de Roberto, Est. Fidelbo

In riferimento all'aborto praticato mediante somministrazione della pillola RU486, la Corte di Cassazione ha escluso, in base alla disciplina contenuta all'art. 9 l. 194/1978, la possibilità di sollevare obiezione di coscienza nella fase di espulsione dell'embrione (c.d. di secondamento) in quanto attività di assistenza successiva rispetto all'intervento di interruzione della gravidanza.

 

La Corte di Cassazione si è pronunciata - con sentenza pubblicata in allegato - sul caso riguardante una guardia medica, obiettore di coscienza in servizio nel reparto di ostetricia e ginecologia, condannata sia in primo grado dal Tribunale di Pordenone, sia in secondo grado dalla Corte d'appello di Trieste, ad un anno di reclusione per il reato di cui all'art. 328 c.p. per essersi rifiutata, per motivi di coscienza, di assistere una paziente già sottoposta ad un intervento di interruzione della gravidanza attuato mediante somministrazione farmacologica.

A tal proposito, giova preliminarmente evidenziare che tra le ipotesi di interruzione della gravidanza di cui alla legge n. 194 del 1978 rientrano senz'altro quelle attuate mediante uso della pillola avente la sigla RU486[1], e ciò in quanto tale farmaco ha un effetto pacificamente abortivo provocando il distacco della mucosa uterina e dell'embrione che vi sia annidato[2]. Per tale motivo, l'utilizzo della RU486 deve avvenire in una delle strutture sanitarie individuate dall'art. 8 della citata legge, senza che sia possibile la sua vendita all'interno di farmacie, e il ricovero in ospedale deve durare dal momento dell'assunzione del farmaco fino alla verifica dell'espulsione del prodotto del concepimento, ed essere attuato in presenza dei presupposti e nel rispetto delle procedure stabilite dalla suddetta legge[3]. L'impiego della pillola RU486, avendo la funzione di interrompere la gravidanza entro la settima settimana, costituisce insomma l'evoluzione tecnica dell'aborto praticato chirurgicamente e per tale motivo è disciplinato ai sensi della l. n. 194 del 1978.

È chiaro che la totale riconducibilità dell'utilizzo di questo medicinale alla disciplina generale di cui alla legge sull'interruzione della gravidanza e, in particolare, alle procedure dalla stessa contemplate, garantisce al sanitario la possibilità di invocare la clausola di coscienza di cui all'art. 9, nel rispetto di tutte le condizioni ivi previste.

Invero, il mancato rispetto di tali limiti rende il rifiuto invocato dal personale sanitario per motivi di coscienza sussumibile almeno sotto la fattispecie prevista e punita dall'art. 328 c.p., che incrimina il rifiuto "indebito" di compiere atti di ufficio qualificati in vista di obiettivi normativamente specificati, ossia «per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene o di sanità»[4].

Orbene, nel caso de quo l'elemento materiale del reato di cui all'art. 328 c.p. è stato ritenuto dai giudici pacificamente integrato, poiché la guardia medica, pur essendo stata chiamata ad intervenire sia su richiesta dell'ostetrica che del primario e del direttore sanitario, si è indebitamente rifiutata di visitare ed assistere la paziente e, di conseguenza, di compiere un atto che, per ragioni di sanità, avrebbe dovuto porre in essere senza ritardo[5].

In particolare, il rifiuto è qualificabile come indebito non trovando alcuna valida giustificazione in leggi o disposizioni amministrative che regolano competenze e forme dell'ufficio o del servizio[6], e l'atto da compiere ha senz'altro il carattere di urgenza, in quanto dal suo differimento nel tempo sarebbero potute derivare conseguenze dannose per il soggetto richiedente la prestazione, come ad esempio un'emorragia[7].

Peraltro, la sentenza in questione si è principalmente occupata di verificare se il diritto all'obiezione di coscienza sia stato invocato nel rispetto dei requisiti e dei limiti previsti dalla legge. Soltanto in caso affermativo il fatto tipico del sanitario, pur formalmente corrispondente al paradigma dell'art. 328 c.p. - rifiuto d'atti d'ufficio - sarebbe qualificabile come giuridicamente lecito in quanto estraneo ab origine al precetto penale[8] o comunque, giustificato in virtù dell'operare della scriminante di cui all'art. 51 c.p.[9]. A tal riguardo, occorre ricordare che, come già osservato, l'art. 9 L. n. 194/1978 subordina il riconoscimento del diritto all'obiezione di coscienza a determinati limiti ed al rispetto di specifiche modalità di esercizio, in quanto l'esonero del personale sanitario si riferisce alle sole attività specificatamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione di gravidanza, e non all'assistenza antecedente e conseguente all'intervento.

Orbene, premesso che l'obiezione di coscienza può essere invocata solo in relazione ad attività di assistenza posta in essere durante l'intervento (fase nella quale anche un mero atto assistenza sarebbe da considerarsi come specificatamente e necessariamente correlato all'intervento di aborto), e non riguardo ad una fase di assistenza successiva, la Corte di Cassazione ha ritenuto tale comportamento non coperto dalla clausola di coscienza e, quindi, pienamente sussumibile nella fattispecie di cui all'art. 328 c.p.: l'aborto, infatti, era stato già indotto da altro sanitario mediante la somministrazione del farmaco e l'assistenza richiesta non riguardava una fase «diretta a determinare l'interruzione della gravidanza», bensì una fase successiva (c.d. "secondamento") nella quale il feto doveva essere espulso dal corpo della donna.

Muovendo da tale considerazione, la Corte di Cassazione giunge a respingere altresì l'argomentazione sostenuta dalla difesa della ricorrente, secondo la quale la guardia medica non sarebbe intervenuta in quanto la paziente non si sarebbe trovata in imminente pericolo di vita. In realtà, la norma che prevede l'obbligo per l'obiettore di garantire in ogni caso la prestazione sanitaria quando essa sia "indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo di vita"[10], trova applicazione soltanto qualora detta prestazione sia richiesta durante l'intervento abortivo, e non certamente rispetto alla fase antecedente e successiva allo stesso, nelle quali la clausola di coscienza, come già osservato, non opera affatto.

Nessun merito inoltre è da attribuire, secondo la Corte, alle argomentazioni sostenute dalla difesa per escludere la sussistenza del reato sul piano della colpevolezza o per attenuare la risposta sanzionatoria.

Da un lato, infatti, sotto il profilo soggettivo, il dolo della guardia medica non può non ritenersi sussistente dato che il personale sanitario, pur rendendosi conto di subordinare alle proprie istanze interiori l'attuazione di una pubblica funzione, ledendo i beni dell'imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione (i quali costituiscono il disvalore tipico del delitto di cui all'art. 328 c.p.), si è risolto ugualmente ad omettere la prestazione dovuta[11]. In tal senso, le competenze professionali della guardia medica e la consapevole scelta di quest'ultima di esercitare il diritto di obiezione di coscienza in base alla l. n. 194/78 nonostante le richieste di intervento del primario e del direttore amministrativo, non paiono lasciare spazio alla possibilità di invocare l'errore sulla legge extrapenale[12], come ritenuto dai giudici nella sentenza in esame, o alla possibilità di richiamare l'errore sulla scriminante laddove alla causa di giustificazione siano erroneamente attribuiti limiti normativi più ampi di quelli previsti dalla legge[13].

Dall'altro lato, anche il motivo inerente il trattamento sanzionatorio è da intendersi infondato con conseguente impossibilità di concessione delle attenuanti generiche, dato che l'imputata, negando in modo reiterato l'assistenza ad una paziente, ha posto in essere un comportamento connotato da estrema gravità.

In conclusione, la decisione della Suprema Corte non fa altro che declinare rispetto a un caso "nuovo" dal punto di vista della tecnica medica (aborto farmacologico, non chirurgico) e non già quanto a rilievo giuridico, regole e criteri di valutazione già noti e chiaramente espressi nella l. n. 194/78. La Corte, infatti, una volta di più, riconosce il diritto all'obiezione di coscienza entro lo stretto limite delle attività mediche dirette a provocare l'interruzione della gravidanza, e coincidenti nell'aborto farmacologico con le sole pratiche di predisposizione e somministrazione dei farmaci abortivi, e non rispetto a quelle attività utili a impedire il verificarsi di un pregiudizio alla salute di un paziente (come imposto da una posizione di garanzia di rilievo, nel caso di specie, pubblicistico).

Tale interpretazione restrittiva conduce necessariamente a rigettare la tesi secondo cui l'obiezione di coscienza può essere sollevata in riferimento all'intero procedimento di interruzione della gravidanza, ed evita il rischio che il diritto all'obiezione di coscienza possa risolversi, di fatto, in un'imposizione di coscienza, ossia in un'omissione di comportamenti doverosi che pongono immediatamente a repentaglio altrui diritti fondamentali, laddove sia impossibile sul piano obiettivo (ad es. stante l'urgenza) contare su un adeguato intervento sostitutivo, o laddove manchi una regolamentazione ad hoc che consenta comunque all'interessato di ottenere da altri soggetti la prestazione, come accade ad esempio in riferimento alla c.d. pillola del giorno dopo[14].

Dalla decisione in esame non pare possibile trarre un'indiretta conferma della tesi secondo la quale un eventuale diritto praeter legem dell'operatore sanitario a sollevare obiezione di coscienza, fosse pure salvaguardato in primis dall'art. 2 Cost. (norma posto a tutela fra l'altro della stessa coscienza individuale)[15] non è in grado di assumere un rilievo preminente rispetto al combinato disposto dello stesso art. 2 Cost. (norma che comunque prevede doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale), dell'art. 32 Cost. (diritto alla salute) e dell'art. 97 Cost. (imparzialità e buon andamento e interesse pubblico, beni giuridici che sarebbero alla radice frustrati laddove al pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio fosse consentito di agire liberamente o di non agire affatto sulla base di propri orientamenti personali)[16]. Infatti, a dire il vero, nel caso di specie la scelta del sanitario si è semmai posta contra legem, com'è facilmente intuibile se muoviamo dal presupposto che la legge 194/78 considera implicitamente illecite tutte le forme di obiezione differenti da quelle espressamente disciplinate (ed anzi l'art. 9 esplicitamente afferma che l'obiezione «non [esonera] dall'assistenza antecedente e conseguente all'intervento»).

 

[1] Liguori L., La pillola della discordia, in Bioetica. Rivista Interdisciplinare, XIX, 2, 2011, 120.

[2] Pezzini B., Inizio ed interruzione della gravidanza, in Trattato di Biodiritto. Il Governo del corpo, a cura di Canestrari S. - Ferrado G. - Mazzoni M. C. - Rodotà S. - Zatti P., Giuffrè, 2011, 1686.

[3] V. determinazione n. 1460 24.11.2009 con cui l'AIFA ha autorizzato l'immissione in commercio del medicinale mifepristone (Mifegyne), pubblicata in Gazzetta Ufficiale, 9.12.2009, n. 286, Supplemento Ordinario, n. 229, 58.

[4] V. La Rosa E., Attività sanitaria, norme penali e conflitti di coscienza, in Criminalia, 2008.

[5] di Martino A. , L'omissione d'atti d'ufficio, in Delitti contro la pubblica amministrazione, a cura di Palazzo F., Napoli, 2011, 372.

[6] Cfr. Romano M, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali. Artt. 314-335-bis cod. pen. - Commentario sistematico, Ed. II, Giuffrè, 2006, 341.

[7] In questo senso, ex multis v. Sez. IV, 20 luglio 2011, n. 34402, in Riv. it. med. leg., 3, 2008, 922.

[8] Palazzo F., Obiezione di coscienza, in Enc. dir., XXIX, 1979, 547.

[9] Il problema dell'applicabilità della scriminante di cui all'art. 51 c.p. si presenta particolarmente complesso soprattutto in riferimento ai casi di obiezione di coscienza non disciplinati per legge (come ad esempio nel caso di somministrazione della c.d. pillola del giorno dopo). Su tale questione sia consentito rinviare ad Abu Awwad V., L'obiezione di coscienza nell'attività sanitaria, in Riv. it. Med. Leg., Anno XXXIV, Fasc. 2, Milano, Giuffrè, 2012, 410 ss.

[10] Dalla Torre G., Bioetica e diritto. Saggi, Giappichelli, 1993, 20.

[11] Sul punto Grandi C., Diritto penale e società multiculturali: stato dell'arte e prospettive de iure condendo, in Indice penale, 283, 2007, 278 ss.

[12] Pret. Ancona, 9 ottobre 1979, in Giur. mer., 1982, II, 973; Pret. Penne, 6 dicembre 1983, in Giur. it., 1984, II, 314.

[13] Grosso C. F., L'errore sulle scriminanti, Giuffrè, 1962, 199; Lanzi A., La scriminante dell'art. 51 c.p. e le libertà costituzionali, Giuffrè, 1983, 42.

[14] Mantovani, Obiezione di coscienza: problema epocale, in www.scienzaevitafirenze.it, il quale rileva che anche laddove fosse risconosciuto un diritto unitario di obiezione di coscienza pronto a recepire le nuove ipotesi di obiezione di coscienza non disciplinate per legge, anche quest'ultime dovrebbero presentare i requisiti costitutivi e rientrare nei limiti e nelle modalità di esercizio di tale diritto, come individuate dai principi generali del nostro ordinamento e dalle vigenti leggi in materia. In particolare, per quanto in questa sede interessa, l'obiezione di coscienza dovrebbe sempre sottostare al limite oggettivo dell'essere gli atti specificatamente e necessariamente diretti alla realizzazione del fatto oggetto dell'obiezione con esclusione dell'obiezione in riferimento all'attività di assistenza antecedente (riguardante soltanto le attribuzioni generiche estranee alle catene degli atti che producono l'evento) e conseguente all'intervento (trattandosi di attività successiva rispetto all'evento già verificatosi), 9.

[15] Palazzo F., voce Obiezione di coscienza, cit., 542, secondo il quale l'art. 2 Cost. è inteso alla stregua di una clausola aperta di adeguamento automatico destinato a "costituzionalizzare" ogni interesse della persona che si affermi quale esigenza inviolabile, come appunto la coscienza individuale.

[16] Contra, Eusebi L., Obiezione di coscienza del professionista sanitario. Statuto delle Professioni sanitarie, in Lenti L. - Palermo Fabris E. - Zatti P., Trattato di biodiritto. I diritti in medicina, Giuffrè, 2011, 186, secondo il quale l'esercizio della libertà di coscienza, salvaguardando il bene-vita, dovrebbe in ogni caso prevalere nel bilanciamento con altri beni giuridici. Questa tesi non pare tuttavia condivisibile, laddove si ritenga che il bene rivendicato dal sanitario attraverso la propria omissione non sia affatto il diritto alla vita dell'embrione, bensì sic et simpliciter il bene libertà di coscienza facente capo a quest'ultimo, in questo senso, sia consentito richiamare Abu Awwad V., L'obiezione di coscienza nell'attività sanitaria, in Riv. it. Med. Leg., Anno XXXIV, Fasc. 2, Milano, Giuffrè, 2012, 411 ss.