ISSN 2039-1676


29 gennaio 2018 |

La Cassazione 'torna alla carica': di nuovo alla Consulta la questione di legittimità costituzionale della disciplina transitoria della confisca per equivalente prevista per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate

Cass. civ., Sez. II, ord. 14 settembre 2017 (dep. 29 dicembre 2017), n. 31143, Pres. Petitti, Rel. Falaschi, Ric. Lonati

Contributo pubblicato nel Fascicolo 1/2018

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1. Con l’ordinanza in epigrafe, la Corte di Cassazione, seconda sezione civile, torna a dubitare della legittimità costituzionale del regime transitorio della confisca per equivalente prevista dall’art. 187-sexies del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico della disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di seguito t.u.f.), ponendo la seguente questione: è compatibile con il quadro costituzionale e, in particolare, con gli artt. 3, 25, co. 2, e 117, co. 1, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 7 della CEDU) la previsione normativa che estende l’operatività della misura ablatoria anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della legge che l’ha introdotta e ciò quand’anche queste siano state trasformate da reato a illecito amministrativo, ma “il complessivo trattamento sanzionatorio generato dalla depenalizzazione sia in concreto meno favorevole di quello applicabile in base alla legge vigente al momento della commissione del fatto”?

Il tema – di stringente attualità e di grande interesse per il mondo penalistico – torna dunque all’attenzione della Corte costituzionale dopo la decisione con la quale, qualche mese fa, il giudice delle leggi aveva dichiarato inammissibili questioni di analogo tenore già sollevate dalla Corte di legittimità[1].

Nell’ordinanza in esame, il Collegio rimettente si confronta proprio con tale precedente, al deliberato scopo di superare le criticità che avevano impedito alla Corte costituzionale di entrare nel merito dei dubbi di costituzionalità in precedenza avanzati dai giudici a quibus.

 

2. La questione è nota, ma è opportuno qui brevemente riassumerla.

Con la legge 18 aprile 2005, n. 62, il legislatore è intervenuto a modificare la disciplina sanzionatoria dettata dal t.u.f. e ha previsto, tra l’altro, che, in caso di condanna per un illecito amministrativo sanzionato dal medesimo testo normativo, ove non sia possibile confiscare il prodotto o il profitto dell’illecito e i beni utilizzati per commetterlo, sia disposta la confisca di “somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente” (art. 187-sexies, co. 2).

L’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005 ha poi stabilito che tale regime trovi applicazione anche alle violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore di tale legge – con cui sono state depenalizzate alcune figure di reato e sono stati introdotti corrispondenti illeciti amministrativi – e ciò salvo che il relativo procedimento penale non sia già stato definito.

Da qui i dubbi di legittimità costituzionale della novella legislativa, nella parte in cui, come visto, prevede la possibilità di applicare una misura spiccatamente afflittiva – quale è la confisca per equivalente – anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della legge, postulando così una sostanziale retroattività della sanzione in questione.

Esattamente quanto è avvenuto nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici di legittimità.

 

3. In dettaglio, la vicenda che ha dato origine alla controversia esaminata dalla Cassazione nell’ordinanza in commento può essere così riassunta.

Nel 2006, la Consob contesta a un finanziere l’illecito amministrativo di cui all’art. 187- bis t.u.f., con l’accusa di avere disposto, tra l’11 febbraio e il 19 marzo del 1999, l’acquisto di svariate migliaia di azioni di una nota società, avvalendosi di alcune informazioni privilegiate che, secondo l’ipotesi accusatoria, gli erano state illecitamente ‘soffiate’ da un soggetto con il quale l’incolpato intratteneva molteplici e consolidati rapporti d’affari.

All’esito del procedimento istruttorio, nel marzo del 2007, l’Autorità irroga, nei confronti dell’imprenditore, la sanzione amministrativa di 1.500.000,00 Euro, la sanzione accessoria dell’interdizione, nonché la confisca dei beni per un valore di 3.057.951,00 Euro (pari al valore del prodotto dell’illecito contestato).

Il provvedimento sanzionatorio – il primo, in Italia, dall’introduzione delle nuove norme sul market abuse – è poi confermato dalla Corte di appello di Brescia in sede di opposizione.

Avverso detta decisione ricorre per cassazione il destinatario della sanzione, denunciando, tra l’altro, l’illegittima applicazione, nei suoi confronti, di una misura – la confisca per equivalente, appunto – introdotta nel 2005, con riferimento a un illecito commesso anni prima (quando il fatto costituiva reato ed era diversamente punito). E ciò alla luce del principio convenzionale di legalità e del corollario del divieto di irretroattività, sanciti dall’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, destinati a trovare applicazione, come noto, non soltanto alle sanzioni ‘formalmente penali’ previste dalle legislazioni nazionali, ma anche alle misure qualificabili come ‘sostanzialmente penali’ alla luce dei criteri scolpiti dalla Corte EDU a partire dalle note sentenza Engel e Őztűrk, e, in quanto tali, attratte nell’ambito applicativo delle garanzie previste per la “materia penale”.

Infatti, secondo il ricorrente, “inquadrando la confisca in questione nel genus delle pene e non in quello delle sanzioni accessorie, (…) alla luce del concetto c.d. materiale di pena accolto dalla CEDU, essa viola in modo palese l’art. 7 della Convenzione, in quanto avente funzione essenzialmente sanzionatoria (non riguardando, come nella confisca ordinaria, un apprezzamento sulla intrinseca pericolosità della permanenza del bene nel patrimonio del soggetto autore dell’illecito)”.

Conclusione, questa, sostanzialmente condivisa dai giudici di legittimità, i quali, con l’ordinanza in commento, fanno propri i dubbi palesati dal ricorrente, ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità relativa all’applicabilità retroattiva della confisca per equivalente prevista per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate.

 

4. Tuttavia, come anticipato, analoga questione è già stata sottoposta, nel recente passato, al vaglio del giudice delle leggi.

In particolare, in quell’occasione, la Corte costituzionale ha aderito alla premessa argomentativa da cui muoveva il giudice a quo (sulla natura penale, ai sensi dell’art. 7 della CEDU, della confisca per equivalente prevista dal t.u.f. e sulla conseguente applicabilità dell’art. 25, co. 2, Cost. in punto di divieto di retroattività), ma ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate in riferimento all’art. 187-sexies t.u.f. e all’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, evidenziando:

(a) l’irrilevanza del riferimento alla disciplina dettata dall’art. 187-sexies t.u.f., in quanto questa disposizione si limita a regolare la confisca per equivalente, senza prevedere alcunché in ordine al suo regime intertemporale;

(b) l’erroneità del presupposto interpretativo su cui si fondano i dubbi di costituzionalità aventi ad oggetto l’art. 9 della legge n.62/2005, in quanto si trascura la circostanza che il fatto addebitato ai ricorrenti nel processo principale, quando fu commesso, costituiva reato e, soltanto a seguito della depenalizzazione attuata dal legislatore del 2005, esso è stato ‘degradato’ a illecito amministrativo, mantenendo così la sua antigiuridicità. Con la conseguenza che “la natura penale, ai sensi dell’art. 7 della CEDU, del nuovo regime punitivo previsto per l’illecito amministrativo comporta un inquadramento della fattispecie nell’ambito della successione delle leggi nel tempo e demanda al rimettente il compito di verificare in concreto se il sopraggiunto trattamento sanzionatorio, assunto nel suo complesso e dunque comprensivo della confisca per equivalente, si renda, in quanto di maggior favore, applicabile al fatto pregresso, ovvero se esso in concreto denunci un carattere maggiormente afflittivo”. E ciò in quanto, secondo la Corte, soltanto in quest’ultimo caso, “potrebbe venire in considerazione un dubbio sulla legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, nella parte in cui tale disposizione prescrive l’applicazione della confisca di valore e assoggetta pertanto il reo a una sanzione penale, ai sensi dell’art. 7 della CEDU, in concreto più gravosa di quella che sarebbe applicabile in base alla legge vigente all’epoca della commissione del fatto”.

In altri termini, sostiene il giudice delle leggi, se si accetta il punto di partenza per cui, a prescindere dalla qualificazione di diritto interno, il nuovo trattamento sanzionatorio introdotto in sede di depenalizzazione continua a costituire una ‘pena’, ai fini del rispetto delle garanzie accordate dalla Convenzione è necessario e sufficiente che, come previsto dall’art. 7 CEDU, trovi applicazione la legge più favorevole tra tutte quelle che, nel corso del tempo, hanno disciplinato la figura di illecito.

Da qui, ad avviso della Corte, l’errore in cui incappa il giudice a quo: ritenere che “sia in ogni caso costituzionalmente vietato applicare retroattivamente la confisca per equivalente. Infatti, qualora il complessivo trattamento sanzionatorio generato attraverso la depenalizzazione, nonostante la previsione di tale confisca, fosse in concreto più favorevole di quello applicabile in base alla pena precedentemente comminata, non vi sarebbero ostacoli costituzionali a che esso sia integralmente disposto”.

È stato dunque il mancato scioglimento di questo preliminare nodo interpretativo a rendere le questioni proposte inammissibili.

 

5. Oggi la Cassazione ‘ci riprova’, quindi, con un’articolata ordinanza, deliberatamente volta a “eliminare i vizi e le lacune riscontrati dalla Corte costituzionale” con il citato precedente.

In dettaglio, richiamando quanto già statuito dal giudice delle leggi in precedenza, la Corte di legittimità innanzitutto ribadisce la natura ‘sostanzialmente penale’ della confisca per equivalente ex art. 187-sexies t.u.f., in quanto applicabile “a beni che non sono collegati al reato da un nesso diretto, attuale e strumentale, cosicché la privazione imposta al reo risponde a una finalità di carattere punitivo, e non preventivo”.

Aggiunge poi, riallacciandosi alla più recente giurisprudenza costituzionale in materia, che “le sanzioni amministrative che il legislatore costruisce come amministrative restano tali nel nostro ordinamento, ma sono ulteriormente assistite dalle garanzie previste dall’art. 7 della CEDU ove abbiano carattere sostanzialmente penale alla luce della Convenzione”.

Fatte queste premesse, il ragionamento del Collegio giunge al ‘cuore’ della questione: ad avviso dei giudici di legittimità, a porsi in contrasto con il quadro costituzionale è la previsione di applicabilità – “assoluta, incondizionata e inderogabile” – della confisca per equivalente prevista dall’art. 187-sexies t.u.f., quand’anche il complessivo trattamento sanzionatorio successivamente introdotto sia in concreto meno favorevole per l’autore della violazione rispetto a quello che sarebbe applicabile in base alla legge vigente all’epoca del fatto.

Infatti, secondo la Corte, applicando le coordinate interpretative elaborate dalla giurisprudenza per individuare il regime più favorevole in caso di successione di leggi incriminatrici nel tempo, per il trasgressore incensurato (…) l’applicazione ai fatti pregressi della nuova ipotesi di confisca per equivalente determina un trattamento sanzionatorio per l’illecito depenalizzato complessivamente più sfavorevole.

E ciò in quanto, se è vero che il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per il reato di abuso di informazioni privilegiate era della reclusione fino a due anni, congiunta con la multa da venti a seicento milioni di lire (cui doveva aggiungersi la confisca soltanto in forma diretta), è altresì vero che la pena detentiva ben poteva essere non eseguita per effetto dell’applicazione di altri istituti, come, ad esempio, la sospensione condizionale della pena ex art. 163 e ss. c.p. o la conversione in pena pecuniaria delle sanzioni detentive brevi.

Un esito, quest’ultimo, a cui, ad avviso del giudice rimettente, si sarebbe potuti giungere nel caso di specie, data la ritenuta assenza di situazioni impeditive della concessione, in favore del ricorrente, della sospensione condizionale della pena. Con la conseguenza che, se avesse trovato applicazione il regime previgente, non soltanto non sarebbe stata applicabile la sanzione accessoria della confisca per equivalente, ma la pena detentiva sarebbe stata ragionevolmente destinata a rimanere non eseguita, o, qualora contenuta nel limite di sei mesi, ad essere comunque convertita in una pena pecuniaria sensibilmente inferiore rispetto a quella inflitta con la sola sanzione amministrativa pecuniaria (per non parlare del fatto che il ricorrente avrebbe poi potuto anche beneficiare dell’indulto di cui alla legge n. 241 del 2006).

Da ciò deriva, secondo la Corte di legittimità, che “dal punto di vista del ricorrente, se si guarda alla reale carica di afflittività della sanzione (…) l’applicazione della sanzione penale in concreto sarebbe stata più favorevole rispetto alla sanzione pecuniaria amministrativa irrogata, oggetto di certa riscossione, di ammontare massimo notevolmente superiore e, si ribadisce, con l’aggiunta di una sanzione accessoria del tutto nuova, imprevedibile ed estremamente gravosa quale quella della confisca per equivalente per un valore pari a euro 3.057.951,00”.

Una valutazione, questa, che, del resto, troverebbe conferma nel diverso ‘destino’ processuale a cui è andato incontro il concorrente nel reato, quell’insider primario che aveva riferito la notizia privilegiata all’odierno ricorrente e che, condannato in sede penale, è stato punito con una sanzione pecuniaria – per effetto della conversione dell’originaria pena detentiva – largamente inferiore rispetto a quella comminata dalla Consob in relazione alla condotta indubbiamente meno grave posta in essere dall’insider secondario (condotta, non a caso, depenalizzata dal legislatore del 2005).

Ma, ciò che più conta, ad avviso della Cassazione, è proprio l’applicazione retroattiva della sanzione accessoria della confisca per equivalente, “sanzione non prevista e non prevedibile al momento della consumazione dell’illecito.

Infatti, a parere del Collegio, “una volta eliminata l’applicazione della confisca per equivalente ai fatti antecedenti la sua introduzione, il trattamento sanzionatorio amministrativo (anche se nella sostanza penale) che residua riacquista quella valenza complessiva di maggior favore naturalmente correlata alle sanzioni amministrative rispetto a quelle corrispondenti penali”. E ciò in quanto la sanzione penale – quand’anche quantitativamente più ridotta – presenta comunque una pluralità di effetti negativi, “incidendo con forza peculiare non soltanto sulla libertà, ma anche sul complessivo profilo pubblico della persona, segnandolo con lo “stigma” del disvalore sociale derivante da una sentenza di condanna del giudice penale”.

Né potrebbe attribuirsi, secondo i giudici di legittimità, valenza di principio generale al disposto di cui all’art. 8, co. 3, d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 8, che, come noto, nel regolare gli effetti intertemporali del più recente intervento di depenalizzazione, ha escluso che ai fatti commessi in precedenza possa essere applicata “una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato” né sanzioni amministrative accessorie “salvo che le stesse costituiscano corrispondenti pene accessorie”.

Da qui la sollevata questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 3 Cost. (per l’irragionevolezza dell’eccesso di contenuto sanzionatorio rispetto allo scopo insito nella retroattività della nuova disciplina sanzionatoria), all’art. 25, co. 2, Cost. (per la violazione del principio di irretroattività della disciplina sanzionatoria più sfavorevole perché, nel regime transitorio, il legislatore avrebbe potuto consentire l’applicazione retroattiva della confisca di valore “soltanto ove la nuova sanzione completi un trattamento sanzionatorio nel complesso più mite della pena prevista per l’originario reato”), nonché all’art. 117, co. 1, Cost. in relazione all’art. 7 CEDU (per violazione del principio di legalità convenzionale in ragione dell’applicazione retroattiva di un trattamento ‘penale’ complessivamente più sfavorevole rispetto al regime sanzionatorio vigente al momento del fatto).

 

***

 

6. L’ordinanza in commento suscita alcune riflessioni.

La decisione è senz’altro condivisibile nella parte in cui circoscrive il petitum della questione di costituzionalità e censura la sola previsione dell’applicazione retroattiva della confisca per equivalente a un fatto di abuso di informazioni privilegiate commesso prima dell’entrata in vigore della legge n. 62 del 2005, così riproponendo i dubbi di legittimità costituzionale che non erano stati fugati dalla Corte costituzionale nel proprio precedente del 2017.

Un precedente che, si ricorderà, non ha convinto i primi commentatori[2].

Due, a nostro avviso, i punti qualificanti del ragionamento seguito dalla Corte costituzionale in quella decisione.

Da un lato, l’esplicito riconoscimento dell’operatività del principio di irretroattività ex art. 25, co. 2, Cost. anche in relazione alle sanzioni non formalmente penali (come, nella specie, una misura ablatoria che accede a un illecito amministrativo).

Dall’altro lato, la scelta di ricondurre il fenomeno di successione ‘impropria’ tra reato e illecito amministrativo entro l’ambito applicativo della disciplina che governa la successione delle leggi penali nel tempo ex art. 2, co. 4, c.p.

Soluzione, quest’ultima, in realtà non scontata, in quanto avversata da un parte della dottrina e contestata anche dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione nel 2012[3].

In particolare, in quell’occasione, il giudice della nomofilachia aveva affrontato il diverso problema interpretativo relativo alla configurabilità di un obbligo, in capo al giudice penale che abbia pronunciato sentenza assolutoria perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, di rimettere gli atti all’autorità amministrativa competente allorquando la normativa depenalizzatrice non contenga norme transitorie al riguardo. E, in quel caso, la Corte, nella sua più autorevole composizione, aveva chiarito che, in virtù del principio di legalità-irretroattività dell’illecito punitivo amministrativo e dell’impossibilità di estensione dell’art. 2, co. 4, c.p. al caso in esame, dovessero ritenersi di regola esclusi dell’ambito di operatività delle sopravvenute norme sanzionatorie amministrative i fatti pregressi, che dunque non risultavano sanzionabili in alcun modo.

Una conclusione che poggiava proprio sulla ritenuta impossibilità di ricondurre il fenomeno della depenalizzazione nell’ambito operativo delle regole successorie dettate per l’ipotesi di abrogatio sine abolitione, e ciò sulla base del rilievo della radicale diversità ed eterogeneità del sistema criminale e di quello punitivo amministrativo.

Un postulato dogmatico, questo, che, come noto, la stessa Corte costituzionale ha cercato di preservare negli ultimi anni, con una serie di pronunce che hanno indagato i profili di potenziale incompatibilità del nostro sistema sanzionatorio amministrativo con i principi CEDU, facendo salva l’autonomia – concettuale e normativa – delle sanzioni amministrative rispetto alle pene in senso stretto[4].

In questo composito quadro interpretativo si collocano le ‘originali’ soluzioni esegetiche elaborate dal giudice delle leggi nel citato precedente.

Soluzioni che, tuttavia, la Corte costituzionale ha mostrato di non voler coerentemente assecondare fino in fondo: infatti, le maggiori critiche si sono appuntate proprio sulla scelta interpretativa di ricondurre l’ipotesi di confisca in esame nell’ambito operativo dell’art. 25, co. 2, Cost. in quanto misura avente natura ‘sostanzialmente penale’, ma, nel contempo, di applicare, in simili casi, una logica ‘compensativa’ e di circoscrivere la portata del divieto di retroattività ai soli casi in cui il trattamento sanzionatorio successivamente introdotto appaia, in concreto, complessivamente peggiorativo rispetto a quello previgente. Omettendo altresì di considerare che, con riferimento ai fatti pregressi, la confisca per equivalente di cui all’art. 187-sexies t.u.f. si atteggia però a sanzione del tutto nuova, introdotta per la prima volta proprio con il citato intervento normativo del 2005.

In questa contraddizione sembra dibattersi anche l’ordinanza in esame.

Infatti, i giudici di legittimità, da un lato, sembrano raccogliere le critiche avanzate dalla dottrina, ritenendo necessario eleggere, ai fini della verifica della maggiore gravosità del regime sanzionatorio introdotto dalla legge n. 62/2005 per gli illeciti depenalizzati, il punto di vista del ricorrente, destinatario della misura ablatoria (ovverosia la “reale carica di afflittività della sanzione”). Dall’altro lato, aderendo alla prospettiva accolta dalla Corte costituzionale, ripropongono la tradizionale dicotomia pena/sanzione amministrativa, applicando una logica ‘compensativa’ ancorata a una distinzione ‘qualitativa’ tra le due tipologie di misure sanzionatorie.

In quest’ottica, la maggiore entità della sanzione amministrativa pecuniaria successivamente introdotta sarebbe ‘compensata’ non tanto e non solo dall’estromissione della possibilità – del tutto astratta, come visto – di applicazione della pena detentiva prevista per il previgente illecito depenalizzato, ma dall’eliminazione di quella pluralità di effetti negativi – in primis, di carattere stigmatizzante – naturalmente collegati a una sentenza di condanna del giudice penale.

Con la conseguenza che la sostituzione di una sanzione amministrativa pecuniaria a una penale sarebbe da considerarsi sempre più favorevole e ciò quand’anche essa comporti l’applicazione di un trattamento punitivo quantitativamente molto più gravoso rispetto a quello operante in relazione ai parametri sanzionatori previgenti (come avviene, nel nostro caso, con la previsione di un sanzione monetaria grandemente più elevata rispetto alla pena pecuniaria che, anche nell’ipotesi di conversione della pena detentiva, sarebbe stata irrogata).

Nell’ottica ricostruttiva adottata dalla Corte di legittimità, infatti, a costituire un problema è il fatto che, accanto a tale regime punitivo, il legislatore abbia inopinatamente affiancato la previsione di una sanzione del tutto nuova, quale è, effettivamente, la confisca per equivalente.

Conclusione, questa, senz’altro vera e che, per le ragioni anzidette, pone una seria ipoteca sull’esito della questione di legittimità costituzionale della predetta disciplina transitoria. Questione che, oggi, il giudice delle leggi non potrà non affrontare, atteso che il giudice rimettente, nel promuovere nuovamente l’incidente di costituzionalità, sembra aver diligentemente adempiuto l’onere di effettuare la valutazione comparativa richiesta nella decisione del 2017.

Vi è tuttavia da chiedersi se, accanto a questo profilo di criticità, non ponga problemi, ancor prima, l’introduzione di una sanzione amministrativa – la cui maggiore gravosità non era parimenti prevedibile al momento del fatto – operante anche in relazione ai fatti pregressi, essendo anche quella una misura di carattere spiccatamente afflittivo che, ancorché priva dello ‘stigma’ della pena, è destinata a conculcare, in maniera più severa, la sfera giuridico-patrimoniale della persona. E ciò alla luce proprio dell’ormai consolidata giurisprudenza della Corte EDU, che, come noto, adotta un approccio ‘anti-formalista’ nel vagliare la natura ‘penale’ di un illecito e della corrispondente sanzione ai fini dell’applicazione delle garanzie previste dall’art. 7 CEDU per la “materia penale[5].

Problema che, a ben guardare, si pone, in termini analoghi, con le nuove ipotesi di illecito punite dalle inedite sanzioni pecuniarie civili, introdotte dal d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 per soppiantare le fattispecie di reato abrogate dal medesimo intervento di ‘depenalizzazione’. Sanzioni alle quali una parte della dottrina ha immediatamente riconosciuto carattere intrinsecamente ‘punitivo’, sollevando dubbi proprio sulla tenuta costituzionale del regime intertemporale previsto per le fattispecie che da reati vengono trasformate in ‘illeciti civili’[6], presidiati da misure afflittive spesso in forma più penetrante rispetto a quelle previste per le ipotesi criminose sostituite[7].

Ma, a ben guardare, proprio qui risiede il problema: può ancora dirsi convenzionalmente (e, quindi, costituzionalmente) sostenibile un regime di successione ‘impropria’ che, segnando il passaggio dal reato all’illecito amministrativo (e, oggi, all’illecito ‘civile’), non si preoccupi di garantire la continuità del trattamento punitivo, ma consenta un’applicazione – sostanzialmente retroattiva – di una misura che, sul piano delle ricadute pratiche e dell’effettività afflittiva, appaia molto più gravosa rispetta a quella operante al momento della commissione del fatto? O, al contrario, un simile regime normativo è oggi inevitabilmente destinato a scontrarsi con il principio di legalità convenzionale e con il canone di irretroattività che ne costituisce il ‘nucleo duro’ e che, in base all’approccio ‘pragmatico’ proprio della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, non sembra ammettere sottili distinzioni in relazione alla ‘qualità’ della misura afflittiva o a logiche ‘compensative’ legate al maggiore o minore effetto stigmatizzante prodotto dalla sua applicazione?

Un interrogativo che si fa ancor più pressante, del resto, alla luce dell’ulteriore rilievo per cui, in realtà, lo stesso legislatore dell’ultima tornata di depenalizzazioni, con il citato art. 8, co. 3, d.lgs. n. 8/2016, ha previsto un meccanismo volto proprio a ricondurre il fenomeno della successione ‘impropria’ entro una linea di sostanziale continuità punitiva, mediante l’introduzione di un sistema di automatico adeguamento dell’entità della sanzione amministrativa destinata a ‘soppiantare’ la pena originariamente stabilita per i reati depenalizzati dal medesimo testo normativo.

Sorge allora il dubbio che tale assetto normativo evidenzi ulteriori profili di problematica compatibilità con il quadro costituzionale, accanto a quelli legati al canone convenzionale di legalità penale e al rilievo per cui gli obblighi convenzionali impongono ormai una considerazione unitaria del fenomeno sanzionatorio e un inquadramento di tutte le misure ‘sostanzialmente punitive’ – ancorché diversamente qualificate nell’ordinamento interno – entro l’ambito applicativo delle garanzie sostanziali previste per la “materia penale”.

In particolare, ci si chiede se, a differenza di quanto frettolosamente escluso dall’ordinanza in esame, il disposto di cui all’art. 8, co. 3 non possa oggi fungere da tertium comparationis nel vaglio di legittimità costituzionale delle difformi discipline transitorie dettate dalle leggi di depenalizzazione (come, per l’appunto, la legge n. 62 del 2005), evidenziando il potenziale contrasto con il principio di eguaglianza-ragionevolezza e con l’annesso canone di proporzionalità di una previsione normativa che prescriva l’applicazione retroattiva di una sanzione quantitativamente più gravosa rispetto alla precedente. E ciò nell’ambito un ordinamento nazionale, come il nostro, che conosce ormai un meccanismo di adeguamento dell’entità della ‘pena’ nel passaggio dal reato all’illecito extrapenale, escludendo così la possibilità di un trattamento differenziato, privo di alcuna giustificazione, non già tra misure afflittive previste da sistemi disomogenei secondo la legislazione domestica (come le pene in senso stretto e le sanzioni amministrative), ma tra sanzioni – tutte formalmente non penali in base alla qualificazione di diritto interno – afferenti allo stesso sottosistema nazionale di ‘diritto punitivo amministrativo’ (come quelle risultanti, in passato, dalla depenalizzazione attuata dalle legge n. 62/2005 e, oggi, da quella realizzata con il d.lgs. n. 8/2016).

 


[1] Il riferimento è a Corte cost., 10 aprile 2017, n. 68, in questa Rivista con nota di Viganò, Un’altra deludente pronuncia della Corte costituzionale in materia di legalità e sanzione amministrative ‘punitive’.

[2]  Cfr. le considerazioni critiche di Viganò, Un’altra deludente pronuncia della Corte costituzionale in materia di legalità e sanzione amministrative ‘punitive’, cit.; Amarelli, Irretroattività e sanzioni ‘sostanzialmente’ penali: il discorso incompiuto della Consulta sulla confisca per equivalente ex art. 187-sexies t.u.f., in Giur. cost., 2017, 691 ss.; Branca, Un “giro di vite” sulle sanzioni amministrative “penali” nelle sentenze n. 43, n. 68 e n. 109 del 2017 della Corte costituzionale?, ivi, 1407 ss.

[3] Cfr. Cass., Sez. Un., 29 marzo 2012, n. 25457. Su tale pronuncia, si veda Bianchi, La cd. “successione impropria”: una questione di garanzie, in Dir. pen. proc., 2012, 1211 ss.

[4] Sul punto, si vedano, nell’ordine, Corte cost., 20 luglio 2016, n. 193; Corte cost., 10 gennaio 2017, n. 43; Corte cost. 11 maggio 2017, n. 109.

[5] In argomento, di recente, Mazzacuva, Art. 7, in F. Viganò-G. Ubertis, a cura di, Corte di Strasburgo e giustizia penale, Torino, 2016, 237 ss.; Manes, Profili e confini dell’illecito para-penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, 988 ss.

[6] In argomento, cfr. Giordano, Principio di legalità europeo e applicabilità retroattiva dei punitive damages in via transitoria: una “svista” del legislatore?, in Archivio penale, n. 1/2016 (Rivista web); Martini, L’avvento delle sanzioni pecuniarie civili: il diritto penale tra evoluzione e mutazione, in www.lalegslazionepenale.eu, 28.9.2016.

[7] Regime che non è invece stato posto in discussione dalla giurisprudenza di legittimità che, al contrario, nelle prime applicazioni operative, ha chiarito che, a seguito dell’abolito criminis, resta comunque salva la possibilità, per la persona offesa, di promuovere azione di risarcimento e di sollecitare l’applicazione (a carico dell’autore della condotta depenalizzata) delle sanzioni pecuniarie civili introdotte dal citato d.lgs. n. 7/2016, destinate dunque a operare anche in relazione ai fatti pregressi. Così, Cass., Sez. V, 5 luglio 2017, n. 57699.