ISSN 2039-1676


04 marzo 2013 |

La Corte costituzionale non prende posizione sui presupposti della connessione teleologica

Corte  cost., 11 febbraio 2013, n. 21, Pres. Gallo, Rel. Frigo

1. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 21 del 2013, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale della disposizione combinata degli artt. 12, comma 1, lett. c), e 16 c.p.p., sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., nella parte in cui attribuirebbe la competenza, per ogni reato teleologicamente connesso e per ogni imputato, al giudice del luogo di commissione del reato più grave, anche se di quest'ultimo non debbano rispondere tutti gli imputati del reato meno grave, ma soltanto alcuni di essi.

Il procedimento, da cui è scaturita la questione di legittimità costituzionale, riguardava una fattispecie di truffa aggravata, realizzata a Milano da parte di tutti gli imputati in concorso fra loro, e un delitto di falso ideologico, teleologicamente connesso alla truffa, ma commesso a Lecce da parte di uno solo di essi. In applicazione degli artt. 12, comma 1, lett. c) e 16, comma 1, c.p.p. la competenza a conoscere di entrambi i fatti e nei confronti di tutti gli imputati era stata attribuita al Tribunale di Lecce, in quanto luogo di commissione del reato più grave.

I difensori degli imputati della sola truffa eccepivano l'incompetenza territoriale: siccome gli autori dei due reati erano soggetti parzialmente diversi - uno soltanto dei concorrenti nel reato-fine (la truffa) era imputato anche del reato-mezzo (il falso) - non sarebbe stato possibile applicare la disciplina della connessione teleologica e il relativo spostamento di competenza. Il processo nei confronti dei loro assistiti si sarebbe dovuto celebrare a Milano, luogo di commissione dell'unico fatto loro addebitato, secondo le regole della competenza per territorio ex artt. 8 ss. c.p.p.

Effettivamente, l'eccezione difensiva non era priva di fondamento: come è noto, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che l'ipotesi prevista dall'art. 12, comma 1, lett. c), c.p.p. si verifichi soltanto in caso di coincidenza fra gli autori dei reati strumentalmente connessi, condizione che nel caso di specie non si era realizzata[1].

Tuttavia, il giudice decideva di disattendere tale indirizzo e di aderire a un opposto orientamento - sostenuto da due sole sentenze della Corte di cassazione[2] - che subordina l'esistenza della connessione teleologica al solo presupposto della relazione oggettiva fra i reati, indipendentemente dalla comunanza dei relativi autori. Allo stesso tempo, però, dopo aver scelto di adottare un'interpretazione largamente minoritaria - a suo dire, l'unica aderente al testo codicistico e alle intenzioni del legislatore - ne ravvisava la contrarietà a Costituzione.

 

2. Secondo il rimettente la norma desumibile dalla lettura degli artt. 12, comma 1, lett. c), e 16 c.p.p. contrasterebbe innanzitutto con l'art. 3 Cost.: i due casi previsti dall'art. 12, comma 1, lettere b) e c)  c.p.p. divergerebbero irragionevolmente, in quanto l'ipotesi di reato continuato presuppone che i reati appartenenti al medesimo disegno criminoso siano stati commessi dagli stessi soggetti.

In secondo luogo, la disciplina censurata, attenuerebbe ingiustificatamente lo «stretto legame naturalistico» tra giudice e luogo di commissione del fatto, prescritto dall'art. 25, comma 1, Cost., quale limite alla discrezionalità legislativa nella determinazione della competenza.

Infine, oltre all'ipotetica lesione del principio del "giudice naturale", il rimettente paventava il rischio che il pubblico ministero potesse strumentalmente contestare fatti diversi da quelli realmente avvenuti, al solo fine di incidere sulla competenza ed eludere la necessaria precostituzione per legge del giudice.

 

3. Il Giudice delle Leggi ripercorre anzitutto le varie modifiche legislative che hanno interessato il testo dell'art. 12, comma 1, lett. c), c.p.p.: la versione originaria - «se una persona è imputata di più reati, quando gli uni sono stati commessi per eseguire o occultare gli altri» - legava senza ombra di dubbio l'insorgere della connessione teleologica alla medesimezza fra gli autori dei reati connessi. Una prima modifica, a opera del decreto-legge 20 novembre 1991, n. 367, eliminava il riferimento alla «persona» e ampliava i casi di connessione; la legge 1° marzo 2001, n. 63, riduceva nuovamente le ipotesi di connessione, senza però reintrodurre alcun riferimento alla paternità dei reati. La Corte ammette quindi che dal 1991 la legge non richiede più - almeno testualmente - che l'autore del reato-mezzo e quello del reato-fine siano le stesse persone.

Vengono poi illustrate le motivazioni alla base dei due orientamenti giurisprudenziali cui si è fatto cenno.

Secondo la giurisprudenza maggioritaria, se l'art. 12, comma 1, lett. c), c.p.p. prescindesse dall'identità soggettiva degli autori dei reati connessi, verrebbe meno quell'unità del processo volitivo, che di questa ipotesi di connessione sarebbe invece il presupposto logico; inoltre, l'interesse di un solo imputato alla trattazione unitaria dei reati legati da vincolo teleologico prevarrebbe irragionevolmente sull'interesse dei coimputati a essere giudicati dal proprio giudice naturale, determinato sulla base delle "ordinarie" regole di competenza[3].

La corrente esegetica opposta valorizza, invece, la variazione lessicale operata nel 1991 e mantenuta nel 2001, ritenendola espressione della volontà legislativa di ampliare l'operatività della connessione, anche oltre la fattispecie della coincidenza soggettiva fra gli autori dei reati connessi.

Subito dopo aver riassunto il quadro legislativo e giurisprudenziale di riferimento, la Consulta spiega che nella definizione della questione sollevata dal Tribunale di Lecce si rivela «pregiudiziale e dirimente» un «uso improprio dell'incidente di costituzionalità»: la Corte ritiene, infatti, di non poter essere chiamata a valutare un'interpretazione minoritaria di una disposizione di legge, quando l'orientamento giurisprudenziale prevalente soddisfa tutti i parametri di costituzionalità, di cui il giudice a quo lamenta la violazione nella sua interpretazione. In breve, a fronte di due interpretazioni, una sostenuta da due sole sentenze e presuntivamente illegittima, l'altra costituzionalmente orientata e di ventennale applicazione, al rimettente non è consentito di sollecitare un giudizio il cui esito, secondo il suo stesso auspicio, dovrebbe condurre al risultato già garantito dall'orientamento dominante.

L'inammissibilità della questione rappresenta dunque un esito abbastanza scontato[4]; peraltro - derogando all'abituale prassi per la quale, se la questione è inammissibile, la Corte non si dilunga in giudizi incidentali sul merito - vengono offerte brevi valutazioni sulle argomentazioni formulate dal rimettente: le censure basate sull'art. 3 Cost. non tengono conto delle sostanziali differenze fra continuazione e connessione teleologica, mentre quelle incentrate sull'art. 25 Cost., se fondate, comporterebbero l'incostituzionalità dell'intero istituto della competenza per connessione.

 

4. In sostanza, la Corte costituzionale ha applicato la radicata regola secondo cui «in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali». Il tentativo del Tribunale di Lecce di ottenere «un avallo dell'una scelta interpretativa contro l'altra», come prevedibile, non ha conseguito alcun risultato.

In effetti, la situazione che si presentava davanti al Giudice delle leggi era piuttosto paradossale: gli si chiedeva l'inesigibile, ossia dichiarare illegittima una norma, che - secondo il diritto vivente quasi unanime - non esiste.

Tuttavia, a ben considerare, il rimettente - pur applicando la norma desumibile dall'interpretazione minoritaria - poteva forse prescindere dal ricorso all'incidente di costituzionalità.

L'orientamento maggioritario sopra descritto poggia infatti sulla necessità di attribuire preferenza al criterio del «forum commissi delicti», quale «coerente espressione del principio del giudice naturale dettato dall'art. 25 della Cost.»[5]. Per questa ragione, quando i reati connessi si sono consumati in luoghi differenti, si reputa inopportuno sottrarre gli autori del solo fatto meno grave (nel nostro caso la truffa) alle «regole ordinarie della competenza»[6] ex art. 8 e 9 c.p.p., come se fossero quelle costituzionalmente predilette.

In altre parole, il "giudice naturale" viene immedesimato con il giudice del luogo di commissione del fatto e la competenza per connessione sembra degradare al ruolo di una "deroga"[7], di cui servirsi in ipotesi residuali e ben circoscritte[8].

Eppure, non pare questa l'interpretazione dell'art. 25, comma 1, Cost., tradizionalmente proposta dalla Corte costituzionale: anche recentemente il Giudice delle leggi ha avuto modo di ribadire che «l'ordinamento costituzionale non propone una nozione autonoma di giudice naturale, distinta e diversa da quella di giudice precostituito per legge, dovendosi con ciò intendere, secondo una equivalenza e reciproca integrazione delle due locuzioni, che spetta alla legge previamente determinare, rispetto alle possibili controversie giudiziarie, il giudice competente a conoscerle, [...] sicché giudice naturale è quello prefigurato dalla legge, secondo criteri generali che, nei limiti della non manifesta irragionevolezza e arbitrarietà, appartengono alla discrezionalità legislativa»[9].

Pertanto, secondo l'insegnamento fornito dai giudici costituzionali, l'art. 25 Cost., riferendosi al «giudice naturale precostituito per legge», non intende privilegiare una sede giudiziaria rispetto ad un'altra, ma soltanto affermare che i criteri di ripartizione della competenza devono essere stabiliti dalla legge prima della commissione del fatto[10].

D'altra parte, non si può dimenticare come la stessa Corte - in altra sede - abbia precisato che «il predicato della 'naturalità' assume nel processo penale un carattere del tutto particolare, in ragione della 'fisiologica' allocazione di quel processo nel locus commissi delicti. Qualsiasi istituto, quindi, che producesse [...] l'effetto di 'distrarre' il processo dalla sua sede, inciderebbe su un valore di elevato e specifico risalto per il processo penale; giacché la celebrazione di quel processo in 'quel luogo', risponde ad esigenze di indubbio rilievo, fra le quali, non ultima, va annoverata anche quella - più che tradizionale - per la quale il diritto e la giustizia devono riaffermarsi proprio nel luogo in cui sono stati violati»[11].

Indubbiamente l'idea che la legge debba essere ristabilita laddove ne è avvenuta la trasgressione rappresenta l'assetto "fisiologico" del processo penale; tuttavia, nulla lascia supporre - sempre secondo il consolidato orientamento della Consulta - che la celebrazione del giudizio in un luogo diverso da quello del reato commesso comporti necessariamente una "patologia".

L'attribuzione della competenza al giudice del locum commissi delicti non risponde soltanto a una scelta valoriale e simbolica, ma affonda le sue radici in considerazioni di ordine pragmatico: spesso tale sede giudiziaria risulta quella più idonea all'accertamento del fatto, ad esempio nella prospettiva di una più agevole e rapida raccolta del materiale probatorio[12]. È ben possibile, allora, che in alcune occasioni le priorità cui dare risalto siano altre e che quindi il giudice adeguato agli scopi del processo debba essere stabilito secondo criteri diversi; l'unico vincolo costituzionalmente imposto è che alle scelte del legislatore sottendano esigenze concretamente apprezzabili.

Pertanto, «quel luogo» può essere tanto quello di commissione del fatto, quanto un altro preventivamente stabilito; patologico è soltanto un criterio di attribuzione della competenza arbitrario, in quanto sprovvisto di una motivazione razionale.

Non pare quindi viziata d'incostituzionalità una previsione di legge che - per realizzare un necessario coordinamento fra procedimenti, finalizzato anzitutto a prevenire giudicati contrastanti sul medesimo fatto, intervenuti nei confronti di soggetti diversi - scelga di attribuire la competenza per tutti gli imputati a un giudice differente rispetto a quello del locus commissi delicti.

Si intuiscono così le ragioni dell'orientamento minoritario, di quelle due sole decisioni della Cassazione, attente alla lettera dell'art. 12, comma 1, lett. c, c.p.p. e alla ratio delle novelle legislative: la valorizzazione del principio del giudice naturale, lungi dall'attribuire alla disciplina della competenza per connessione un valore subordinato rispetto a presunte regole "ordinarie", implica soltanto il rispetto del complesso della disciplina attributiva della competenza e dei valori sottesi ai singoli istituti ragionevolmente approntati dal legislatore[13].

Sulla scorta di tali considerazioni, si dovrebbe escludere qualsiasi profilo d'incostituzionalità nell'interpretazione scelta dal rimettente.

 

5. Il Tribunale di Lecce avrebbe quindi potuto applicare la norma desumibile dall'esegesi minoritaria, senza temere la violazione di alcun principio costituzionale.

Per parte sua, la Corte, una volta entrata nel merito - sia pure in modo discutibile -, avrebbe potuto chiarire che, sulla base della giurisprudenza in tema di "giudice naturale", la norma desunta dall'orientamento minoritario è conforme a Costituzione.

Insomma, senza dover manifestare una preferenza per una delle due esegesi, la Corte poteva affermare che entrambe rispondono ai dettami costituzionali, lasciando al giudice qualsiasi decisione sull'indirizzo cui aderire.

In conclusione, ciò che affligge l'art. 12, comma 1, lett. c, c.p.p., non è un problema di incostituzionalità, ma piuttosto un'incertezza interpretativa, che potrebbe essere risolta solo invocando l'intervento delle Sezioni Unite e non della Corte costituzionale.

 

 


[1] Si vedano, ex multis, Cass., sez. I, 12 marzo 2003, n. 19537, in C.E.D. Cass., n. 224389; Cass., sez. IV, 6 giugno 2009, n. 27457, ivi, n. 244516.

[2] Cass., sez. V, 13 giugno 1998, n. 10041, in Giust. pen., 1999, II, c. 218; Cass., sez. VI, 15 ottobre 2010, n. 37014, in C.E.D. Cass., n. 248746.

[3] Si veda Cass., sez. I, 18 dicembre 2002, n. 42833, in C.E.D. Cass., n. 222800.

[4] Per approfondire il tema delle decisioni di inammissibilità della Corte costituzionale, si veda E. Malfatti, S. Panizza, R. Romboli, Giustizia costituzionale, Torino, 2011, pp. 126-130.

[5] Così testualmente, Cass. pen., sez. VI, 23 aprile 2004, n. 22106, in Riv. Pen., 2005, p. 715.

[6] Così testualmente, Cass., sez. I, 18 dicembre 2002, n. 42833, cit.

[7] Così pare esprimersi Cass. pen., sez. VI, 23 aprile 2004, n. 22106, cit.

[8] Si ritiene generalmente che il legislatore del 1988 abbia voluto «elevare la connessione a criterio originario di determinazione della competenza, cioè di determinazione del giudice naturale sulla base di criteri prefissati e di non limitarla al ruolo di causa giustificatrice della riunione di procedimenti o di criterio indicativo ma non obbligatorio [...]» (Così M. Ricciarelli, L'esercizio della funzione giurisdizionale: dalla competenza al riparto di attribuzioni, in Trattato di Procedura penale, diretto da G. Spangher, vol. I, Soggetti e Atti, t. I, I Soggetti, a cura di G. Dean, Torino, 2009, p. 81.

[9] Così Corte cost., ord. 2 aprile 2009, n. 102, in Giur. cost., 2009, p. 921.

[10] Diversi Autori ritengono invero che le due locuzioni «naturale» e «precostituito» conservino valenza autonoma: si veda, su tutti, F. Cordero, Connessione di procedimenti e giudice naturale, in AA. VV., Connessione di procedimenti e conflitti di competenza, Milano, 1976, p. 54. Per un panorama completo delle soluzioni dottrinali proposte si vedano G. M. Baccari, La cognizione e la competenza del giudice, Milano, 2011, pp. 111-127; A. Bellocchi, I requisiti di naturalità e precostituzione del giudice, in AA. VV., Fisionomia costituzionale del processo penale, a cura di G. Dean, Torino, 2007, pp. 78-92; M. Gialuz, Commento all'art. 25, comma 1, Cost., in Commentario breve alla Costituzione, a cura di S. Bartole, R. Bin, Padova, 2008, pp. 245-250.

[11] Così C. cost., 21 aprile 2006, n. 168, in Giur. cost., 2006, p. 1489. Questa interpretazione della Corte costituzionale è stata recentemente valorizzata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione: si veda Cass., sez. un., 29 marzo 2012, n. 27996, in questa Rivista, con nota di G. Leo, Le Sezioni unite sull'eccezione di incompetenza per territorio nel giudizio abbreviato.

[12] In questo senso, G. Tabasco, Giudizio abbreviato ed incompetenza per territorio, in Arch. pen., 2012, p. 1142.

[13] In questo senso, Cass. pen., sez. VI, 15 ottobre 2010, n. 37014, cit. In dottrina, G. Santalucia, Competenza per territorio e modifica dell'imputazione, in Cass. pen., 2006, p. 4012.