ISSN 2039-1676


19 novembre 2014 |

Un'occasione mancata: le Sezioni Unite e i limiti soggettivi della connessione teleologica

Cass., Sez. Un., 17 luglio 2014 (dep. 9 ottobre 2014), n. 42030 Pres. Santacroce, Rel. Vessichelli, Ric. PM in proc. Basso e altri.

1. Con la sentenza in commento le Sezioni Unite erano chiamate a risolvere un ormai risalente contrasto sorto con riguardo all'interpretazione dell'art. 12 lett. c) c.p.p., il quale, come noto, prevede che sussista connessione tra reati (rilevante ai fini della determinazione della competenza) anche nell'ipotesi di reati commessi gli uni per eseguire od occultare gli altri. Si tratta della connessione c.d. teleologica.

 

2. Sul punto, si era andato manifestando nel tempo un orientamento giurisprudenziale assolutamente maggioritario, secondo il quale lo spostamento di competenza determinato dalla connessione di cui alla lett. c) dell'art. 12 c.p.p. opererebbe soltanto nel caso in cui gli autori del reato-fine e quelli del reato-mezzo coincidano. Questa opzione interpretativa era stata contraddetta soltanto da due risalenti pronunce, rimaste a lungo isolate[1].

Più di recente, tuttavia, due decisioni della suprema Corte hanno ripreso e fatto proprio il diverso indirizzo interpretativo manifestato in quella sede, secondo il quale, ai fini della configurabilità della connessione teleologica, non è richiesto che vi sia identità fra gli autori del reato-fine e quelli del reato-mezzo.

 

3. Le Sezioni Unite, incaricate di risolvere il contrasto, non hanno tuttavia avuto la possibilità di pronunciarsi, dovendo invece dichiarare inammissibile il ricorso loro assegnato, originariamente proposto avverso un'ordinanza del Tribunale di Como con la quale si era deciso un appello ex art. 322 bis c.p.p. L'impugnazione era stata a sua volta proposta dal pubblico ministero nei confronti di una ordinanza con la quale il g.i.p. si era dichiarato incompetente. Proprio questo è il problema segnalato dalle Sezioni Unite: l'appello del p.m. era stato proposto nei confronti di un provvedimento in realtà inoppugnabile, quale appunto quello con il quale il g.i.p. si limiti a dichiararsi incompetente. Inammissibile l'appello proposto, l'ordinanza del Tribunale di Como risultava «per ciò stesso delegittimata per mancanza di un valido atto propulsivo e non [poteva] essere esaminata nel merito, dovendo invece essere espunta dal procedimento, con annullamento senza rinvio».

Due, quindi, le questioni di interesse affrontate dalla sentenza in commento.

 

3.1. Quanto al tema della inammissibilità dell'impugnazione proposta avverso il provvedimento del g.i.p. che si limiti a declinare la propria competenza, non sussisteva contrasto in giurisprudenza.

L'art. 568 c.p.p. stabilisce, come noto, che sono sempre soggette a ricorso per cassazione le sentenze, salvo quelle sulla competenza che possono dar luogo a conflitto di competenza a norma dell'art. 28 c.p.p. Sul punto, le Sezioni Unite, dopo aver ricordato che la giurisprudenza di legittimità ha sempre interpretato questa disposizione come avente portata generale e riferita anche alle ordinanze (poiché profilo dirimente è che si tratti di pronuncia sulla competenza), hanno ribadito un consolidato e risalente orientamento.

La sentenza qui in esame ha infatti evidenziato che, seppure sussiste indubbiamente l'interesse processuale del p.m. a reagire all'ordinanza del g.i.p. che, nel rigettare una richiesta dell'accusa, si dichiari incompetente, è da escludere che nel vigente sistema, ad ogni interesse di reagire, pur legittimamente configurato, «corrisponda necessariamente uno strumento di impugnazione». Opera nella materia il generale principio di tassatività sancito dall'art. 568 co. 1° c.p.p., secondo il quale la legge stabilisce i casi nei quali i provvedimenti del giudice sono soggetti ad impugnazione e determina il mezzo con cui possono essere impugnati.

La Corte di cassazione si è espressa più volte nel senso della inoppugnabilità di tali decisioni, sia nel caso in cui il g.i.p. dichiari la propria incompetenza per ragioni di territorio, sia nel caso in cui ritenga la propria incompetenza funzionale. La giurisprudenza si è spinta anche oltre, affermando l'esistenza di un generale principio di non impugnabilità di tutti i provvedimenti negativi di competenza, tutte le volte in cui sia possibile, per il p.m., sollevare conflitto di competenza.

Si tratta di una giurisprudenza costante, formatasi già nel vigore del vecchio codice di rito, e che ha trovato conferma negli anni successivi, sino ancora in tempi recenti[2]. Si è chiarito a tal proposito che i provvedimenti adottati dal g.i.p. in tema di competenza non soffrono di lacune di garanzia giurisdizionale, rispondendo lo strumento processuale del conflitto di competenza ad una scelta del legislatore non contraria ai criteri di razionalità, speditezza e di opportunità processuale[3]. In effetti, le sentenze che possono dar luogo a conflitti di giurisdizione o di competenza a norma dell'art. 28 c.p.p., pur non essendo impugnabili, non si sottraggono all'ulteriore controllo giurisdizionale, perché, qualora diano concretamente luogo al conflitto, questo viene sottoposto per la risoluzione alla Corte di cassazione dal giudice di merito che lo rileva d'ufficio o su denuncia di parte, mentre nel caso che non diano luogo al conflitto, la questione relativa alla competenza può essere liberamente prospettata davanti al giudice che procede, dedotta anche come motivo di appello e, successivamente, di ricorso per cassazione[4].

Per queste ragioni è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 568 c.p.p., sollevata in relazione all'art. 111 Cost. Si è detto, infatti, che il citato art. 568 c.p.p. costituisce espressa eccezione all'art. 111 Cost., ma non contrasta con il dettato costituzionale, «atteso il contenuto meramente processuale e perciò non definitivo, della sentenza dichiarativa di incompetenza». Tra l'altro, si è osservato che la competenza declinata dal primo giudice può essere accettata dal giudice indicato come competente, e, dunque, il provvedimento di rigetto «non implica una disfunzione bisognosa di essere prontamente esaminata e, se del caso, rimossa»[5]. Si è avuto altresì occasione di chiarire che l'ordinanza di reiezione dell'eccezione di incompetenza territoriale «non può essere sussunta nella categoria del provvedimento abnorme»[6], a meno che lo stesso provvedimento non contenga alcuna designazione del giudice competente, nemmeno implicita oppure contenga la designazione di un'autorità straniera ovvero inesistente[7]. Poiché, infatti, in questo caso non sarebbe neppure ipotizzabile il conflitto previsto dagli artt. 28 e seguenti del codice, il ricorso per cassazione si impone in ragione della abnormità del provvedimento impugnato. In simili ipotesi, ponendosi il provvedimento «al di fuori del sistema processuale» e non consentendo, per carenza del necessario presupposto (insorgenza di un conflitto fra giudici), l'accesso alla specifica procedura di cui all'art. 28 c.p.p., la stasi processuale che si determina non può essere superata e fatta cessare se non con l'impugnazione del provvedimento[8].

I principi fin qui delineati sono, come si è detto, pacifici in giurisprudenza e sono stati affermati anche con riferimento al procedimento di esecuzione[9]. Unica ipotesi di contrasto si è avuto in relazione alla pronuncia con la quale il giudice declini la giurisdizione italiana. In tal caso, a fronte di una sentenza della Corte di cassazione che afferma l'inoppugnabilità della sentenza che decide sulla giurisdizione, nel 2009 una pronuncia della stessa Suprema Corte ha stabilito che sia eccezionalmente ricorribile, non potendo essere oggetto di conflitto, la sentenza che decide sulla giurisdizione per il caso in cui il giudice italiano rinunci alla giurisdizione a favore dell'autorità giudiziaria straniera[10].

 

3.2. Quanto al contrasto interpretativo deferito alle Sezioni Unite e relativo all'ambito di operatività del criterio della connessione ex art. 12 c.p.p., le diverse opinioni a confronto muovono, essenzialmente, da un doppio ordine di considerazioni. Da un lato, i giudici di legittimità hanno riflettuto sui caratteri costitutivi del criterio della connessione e sul suo rapporto con il principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge; dall'altro, non sono mancati riferimenti al tenore letterale della disposizione di cui all'art. 12 c.p.p.

Più precisamente, secondo una prima impostazione (v., da ultimo, Cass. Sez. III, 29 febbraio 2012, Lombardi, RV 252761), l'unità del processo volitivo tra il reato mezzo ed il reato fine richiesto dall'art. 12 lett. c) c.p.p. è ontologicamente configurabile solamente nel caso in cui gli autori dei reati in oggetto sono i medesimi; tanto che, mancando tale unitarietà, non si potrebbe parlare di vero e proprio "nesso teleologico", ma sarebbe configurabile solo un'ipotesi di «connessione eventualmente probatoria», inidonea a determinare una modificazione della competenza per alcuni dei reati coinvolti.

Ai fini della configurabilità della connessione c.d. teleologica, dunque, e analogamente a quanto accade nel caso di connessione "per continuazione", non sarebbe sufficiente che, dei reati per cui si procede, gli uni siano stati commessi per eseguire gli altri, ma sarebbe altresì necessario che il reato fine sia stato realizzato dalla stessa persona o dalle stesse persone che hanno commesso il reato mezzo (C 26-10-07, p.m. in c. Casella, RV 238435). Se i reati posti in connessione sono stati commessi da soggetti diversi, in altri termini, non si potrebbe affermare che siano stati compiuti "per" eseguire od occultare i primi: in tal modo, la connessione potrebbe operare solo nel caso in cui l'unico (o gli unici) autori del reato fine abbiano concepito e commesso i reati mezzo avendo di mira la commissione dei reati fine.

A sostegno della tesi dominante si valorizza altresì l'argomento secondo il quale, ove si riconoscesse l'esistenza di una connessione teleologica anche tra reati commessi da soggetti diversi, si determinerebbe l'attrazione di tutti i reati, pur commessi da autori diversi, nella sfera del più grave fra essi. Nel caso in cui alcuni tra i reati connessi siano stati posti in essere da soggetti diversi, questo spostamento di competenza comporterebbe, per alcuni degli imputati, una competenza del tutto sganciata da criteri territoriali; in ipotesi, l'autore di un reato commesso per eseguirne un altro si ritroverebbe ad essere giudicato dal giudice territorialmente competente per il reato fine e quindi sarebbe processato davanti ad un giudice diverso da quello del locus commissi delicti.   

Argomento pregnante portato a sostegno della tesi maggioritaria è, dunque, quello che obietta come nel caso di connessione teleologica tra reati commessi da soggetti diversi si finirebbe con il far prevalere l'interesse dell'imputato del reato più grave alla trattazione unitaria, sacrificando quello del coimputato a non essere sottratto al suo "giudice naturale". Si è osservato, a tal proposito, che nessun imputato potrebbe essere distolto dal proprio giudice naturale per il solo fatto che, nei confronti di un coimputato, si debba operare uno spostamento territoriale in forza di una connessione valida solo per quest'ultimo[11].

Appare evidente, in tale ragionamento, una diffidenza di fondo nei confronti del criterio della connessione, trattata alla stregua di un'eccezione al principio del giudice naturale sancito dall'art. 25 comma 1 Cost., da intendersi non come giudice determinato dalla legge prima della commissione del fatto, ma piuttosto come giudice di prossimità al luogo di commissione del fatto stesso[12]; nonostante, come noto, la Corte costituzionale abbia affermato che la connessione risulta compatibile con il principio del giudice naturale precostituito per legge[13].

Del resto, una certa cautela nella disciplina dell'istituto della connessione si era manifestata anche nelle scelte compiute al momento della elaborazione del vigente codice di procedura penale.  Tuttavia, l'originaria impostazione ha subito una importante revisione già nel 1992: proprio sulle modifiche apportate all'art. 12 c.p.p. in quell'anno si appuntano le osservazioni mosse dalle sentenze che, in tempi recenti, hanno ritenuto di aderire all'interpretazione minoritaria.

Tale orientamento, inaugurato dalla Corte di cassazione nel 2010 (Cass. 23 settembre 2010, Rv. 248746), trae spunto proprio dalla evoluzione normativa dell'istituto. In particolare, si è sottolineato che l'art. 12 lett. c) c.p.p., nella sua formulazione originaria, disciplinava l'ipotesi cui «una persona fosse imputata di più reati, quando gli uni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri», così confinandosi la connessione in un ambito di «rigorosa monosoggettività»[14]. Il testo originario del codice è stato oggetto di un ripensamento quando, con la l. 20 gennaio 1992, n. 8, si è provveduto ad eliminare il riferimento al medesimo soggetto autore dei più reati. Già nel 2010 la VI Sezione della Suprema Corte si chiedeva quale senso potesse avere la modifica normativa, se non quello di ampliare i casi di connessione, originariamente disciplinati in senso molto restrittivo[15]. In effetti, adottando l'interpretazione prevalente, la modifica normativa in esame finisce per apparire del tutto irrilevante[16].

Stando alla lettera della disposizione de qua, dunque, è sufficiente, per aversi connessione (con il conseguente effetto sulla competenza per territorio determinato dall'art. 16 c.p.p.), che i reati in rilievo siano oggettivamente connessi. L'eliminazione del precedente richiamo ad un unico imputato o ai medesimi imputati concorrenti, diversamente da quanto previsto nella lett. b) del medesimo art. 12 c.p.p., avrebbe proprio il significato di privilegiare e mantenere, quale criterio per la configurabilità di questa ipotesi di connessione, il solo requisito oggettivo del nesso teleologico.

Secondo l'indirizzo minoritario, la disposizione, prevedendo ora che vi sia connessione di procedimenti quando dei reati per cui si procede gli uni siano stati commessi per eseguire o occultare gli altri, individuerebbe «un legame che è innanzitutto oggettivo: il riferimento normativo è alla relazione oggettiva tra le diverse condotte di reato, che risultano collegate dal particolare legame della finalità di eseguire o occultare»[17].

Secondo questa impostazione, sarebbero dunque proprio «le vicende dell'istituto e la connessione con gli aspetti penali sostanziali» ad attestare la natura innanzitutto oggettiva della relazione esistente tra i reati teleologicamente connessi: ciò che rileva, in sostanza, sarebbe il «rapporto tra i reati prima di quello tra soggetti», sicché non risulterebbe necessaria l'identità degli autori dei diversi fatti criminosi.

Per contro, le sentenze che affermano la necessaria identità dei soggetti concorrenti nei reati connessi non affrontano il tema del tenore letterale della disposizione in esame, ma valorizzano il principio del giudice naturale con riferimento a ciascun imputato e ciascuna imputazione, nonché la necessità di stretta interpretazione delle previsioni dell'art. 12 c.p.p., in quanto, rispetto ad esso, derogatorie.

Peraltro, in attesa che il contrasto venga risolto dalle Sezioni Unite alla prossima occasione, non è disagevole osservare, come ha fatto la stessa Suprema Corte di recente, che la nozione di giudice naturale - anche con riguardo alla competenza territoriale - non può che essere quella che emerge dal complesso della disciplina attributiva di competenza e dei valori tutelati dai singoli istituti, essi pure di pari rilievo costituzionale, quali quelli dell'imparzialità e della ragionevole durata del processo (declinato nel senso di ricerca dell'efficacia della giurisdizione). Principi, questi ultimi, che impongono di «evitare i contrasti non fisiologici di giudicato e la trattazione parallela di processi per il medesimo fatto reato, con il conseguente dispendio di risorse ed incombenze del tutto sovrapponibili». Nel caso di specie, il sistema prevede comunque una tutela rafforzata, «che deve necessariamente guidare l'interpretazione», integrando il principio del giudice naturale con la tutela dell'imparzialità e della terzietà dell'organo giudicante, la quale viene chiamata ad operare espressamente anche rispetto ai procedimenti connessi[18].

 

 


[1] Si tratta di Cass. 10-7-98, Pomicino, C. pen. 99, 2677, la quale aveva affermato che sussiste connessione (oggettiva) di procedimenti, ai sensi della lett. c dell'art. 12 tra i reati di false comunicazioni sociali, di cui all'art. 2621 n. 1 c.c. e di illecito finanziamento dei partiti politici, previsto dall'art. 7 l. 2 maggio 1974, n. 195, quando il primo reato - commesso per procurare i fondi necessari per l'illecita contribuzione, senza la necessaria deliberazione dell'organo sociale competente e la relativa iscrizione in bilancio - sia realizzato al fine di eseguire od occultare il secondo, anche se i delitti siano ascritti a imputati diversi. Nello stesso senso C 13-6-98, Altissimo ed a., R. pen. 99, 112. 

[2] V. già Cass. 15 giugno1990, RV 184954; successivamente, per tutte v. Cass.17 gennaio 2011, RV 249962, nonché,

da ultimo Cass. 14 novembre 2013, p.m. in c. Federici, RV 259251.

[3] Cass. 26 giugno 1995, Bruno, RV 202468, C. pen. 96, 1875.

[4] Cass. 10 aprile 1996, p.m. in c. Chierchia, RV 204640.

[5] Cass. 20 settembre 1995, pm. in c. Capitanio, RV 202930.

[6] Cass. 6 marzo 2001, Ciola, G. it. 2003, 560.

[7] Cass. 28 giugno 1999, Pellegrini, RV 214078.

[8] Cass. 18 settembre 2009, p.m. in c. Vecchio, 244835.

[9] Cass. 7 aprile 2005, Ancler, C. pen.  06, 3282.

[10] Cass. 15 aprile 2009, Sabeur Ben, 244889

[11] Cfr. C 30-11-06, Pacifico, C. pen. 06, p. 4002, e, più recentemente, C 10-3-09, Ruiu, 244516. Nello stesso senso si erano espresse C 2-12-98, Archinà ed a., A. n. proc. pen. 99, 295). Conf. C 8-6-98, Sama,  A. n. proc. pen. 98, 737; C 23-10-02, Mauro, 222800; C 30-1-03, Lodigiani ed a., 224146; C 12-3-03, Pofferi, 224389.

[12] Cfr. sul punto C Sez. U 28 giugno 2013, 255345, in Questa rivista, con nota di Andrea Cabiale, Le Sezioni unite preparano il terreno per un ripensamento del rapporto fra competenza per connessione e principio del "giudice naturale precostituito per legge.

[13] Cfr. Corte cost. 11 febbraio 2013, n. 21; v. già Corte cost. 11 marzo 2009, n. 102, con la quale la Corte ha ribadito il proprio costante orientamento, secondo cui l'ordinamento costituzionale non propone una nozione autonoma di giudice naturale, distinta e diversa da quella di giudice precostituito per legge, dovendosi con ciò intendere, secondo una equivalente e reciproca integrazione delle due locuzioni, che spetta alla legge previamente determinare, rispetto alle possibili controversie giudiziarie, il giudice competente a conoscerle, così ripartendo la giurisdizione tra i vari giudici previsti dall'ordinamento giudiziario, sicché giudice naturale è quello prefigurato dalla legge, secondo criteri generali che, nei limiti della non manifesta irragionevolezza e arbitrarietà, appartengono alla discrezionalità legislativa.

[14] Russo, Commento all'art. 12, in Aa.VV., Commentario breve al c.p.p., a cura di Conso e Grevi, Cedam, 2005, p. 30.  

[15] C 23 settembre 2010, Della Giovampaola, 248746; nello stesso senso C 16 gennaio 2013, Erhan, 257164.

[16] Da ultimo, la l. 1° marzo 2001, n. 63, pur intervenendo sotto altri profili per limitare i casi di spostamento di competenza per connessione, lascia inalterato il tenore testuale dell'art. 12 lett. c) c.p.p., con riferimento all'ipotesi che qui rileva.

[17] V. già C 14 maggio 1984, Maggi, n. 3479, che confermava l'insegnamento secondo cui, nel caso di reato commesso per occultarne altro o per conseguirne l'impunità, per sé o per altri, il primo reato dovesse essere stato consumato «dall'agente o da altri».

[18] C 23 settembre 2010, Della Giovampaola, cit.