18 marzo 2013 |
Anche l'omissione di cure da parte della badante integra il delitto di maltrattamenti in famiglia
Nota a Cass. pen., sez. VI, 17 gennaio 2013 (dep. 28 febbraio 2013), n. 127, Pres. De Roberto, Est. Paoloni
1. Con la sentenza che qui si annota la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio, per intervenuta prescrizione, la sentenza di condanna a carico di una badante emessa dalla Corte d'Appello di Roma per il delitto di maltrattamenti in famiglia nei confronti di soggetto affetto da sindrome di down affidato alle sue cure. La difesa dell'imputata, condannata in primo grado dal Tribunale di Roma, aveva proposto appello motivato su una supposta carenza di prove a sostegno dell'affermazione della penale responsabilità dell'imputata e su carenza dell'elemento soggettivo. Il giudice di secondo grado, nel confermare la decisione del Tribunale, aderiva alla ricostruzione fattuale sortita dal dibattimento. In particolare esistevano diverse testimonianze circa lo stato d'abbandono morale e materiale in cui l'imputata lasciava la vittima del cui benessere psico-fisico essa era responsabile: sia il fratello della vittima, che una vicina di casa, che il titolare di un esercizio commerciale usualmente frequentato dalla vittima e dalla badante, avevano avuto modo di notare lo stato di malnutrizione in cui il soggetto disabile versava e la sua scarsa igiene e cura personale, entrambe imputabili all'imputata che ne era responsabile e con la quale la vittima conviveva; il comportamento rude e imperioso - seppur non violento - dalla stessa tenuto nei confronti del disabile; l'abulia e la tristezza che caratterizzavano da allora l'atteggiamento esteriore di quest'ultimo.
2. La difesa dell'imputata proponeva ricorso in Cassazione lamentando l'illogicità e la carenza di motivazione in riferimento alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato di maltrattamenti. Le argomentazioni svolte coniugano in realtà censure incentrate tanto sulla condotta, quanto sul dolo, necessari per l'integrazione del delitto di cui all'art. 572 c.p.: trattandosi di reato abituale che per essere integrato richiede una pluralità di condotte legate insieme da una progettualità criminosa reiterativa dei fatti vessatori in danno della vittima, sarebbe comunque necessario accertare la riconducibilità di tutte le condotte maltrattanti all'intento comune di ledere il benessere pisco-fisico della vittima tutelato dalla fattispecie incriminatrice. Il dolo del delitto di maltrattamenti, seppur generico, si caratterizzerebbe pertanto per una particolare pregnanza che i giudici di primo grado avrebbero omesso di accertare e che sarebbe stata esclusa nel caso di specie dal Tribunale del Riesame - che proprio per la carenza di dolo aveva annullato la misura cautelare emessa a carico dell'imputata - e dal Procuratore generale in appello, il quale aveva per lo stesso motivo chiesto l'assoluzione dell'imputata in secondo grado.
3. Le argomentazioni svolte dalla difesa non possono certamente dirsi prive di una certa consistenza e coerenza dogmatica. Che il delitto di cui all'art. 572 c.p. sia reato abituale è dato ormai pacifico, nonostante talvolta, più in dottrina che in giurisprudenza, si sia argomentato per l'inquadramento dei maltrattamenti tra i reati permanenti ovvero tra quelli complessi. Alla tesi della permanenza si è obiettato che nei maltrattamenti non sussisterebbe l'ininterrotta continuità della condotta, ben potendo i comportamenti maltrattanti essere posti in essere a distanza di tempo[1]; a chi sosteneva trattarsi di reato complesso, si è opposta la constatazione che le condotte maltrattanti possono consistere in fatti penalmente rilevanti e non, e sono proprio la loro reiterazione e l'intento vessatorio - che ha la funzione di unificare i singoli atti in una condotta valutabile complessivamente - a rendere il fatto penalmente rilevante[2]. Dottrina e giurisprudenza[3] sono pertanto concordi nel ritenere il delitto di maltrattamenti reato abituale, e su questa linea si assesta anche la pronuncia della Cassazione qui in commento aderendo alla posizione già espressa dalla Corte d'Appello di Roma. Sfogliando le pronunce della giurisprudenza e gli scritti della dottrina, si può rilevare che entrambe affermano che ciò che cuce insieme i diversi episodi vessatori, rendendo così possibile discorrere di reato abituale e conferendo così disvalore ad atti od omissioni che invece possono essere, presi singolarmente, neutri da un punto di vista penale, è proprio l'elemento soggettivo del reato. Ed è quindi proprio il particolare ruolo assunto dal coefficiente psicologico nel colorare d'illiceità la fattispecie in esame che porta talvolta qualcuno, e nel caso di specie la difesa dell'imputata, a ritenere che il dolo del delitto di maltrattamenti debba essere specifico o quasi specifico, o che comunque debba coincidere con qualcosa di più consistente della semplice coscienza e volontà di maltrattare - nel senso di non trattare conformemente a ciò che egli legittimamente si aspetta dal rapporto sociale (famigliare, lavorativo, educativo, assistenziale, etc.) che lega i due soggetti - il soggetto passivo.
4. La difesa dell'imputata insisteva nel sottolineare la carenza dell'elemento soggettivo in relazione alla condotta oggettivamente maltrattante, sostenendo che la badante non fosse rimproverabile se non per un'incolpevole inadeguatezza ovvero per inidoneità ad espletare il peculiare compito assistenziale affidatole. La Cassazione respinge la prospettazione difensiva, allineandosi alla sua giurisprudenza che ritiene il dolo del delitto di maltrattamenti coincidente col classico dolo generico[4]. Affinché l'elemento psicologico del delitto di cui all'art. 572 c.p. possa ritenersi sussistente, infatti, è necessario che l'agente ponga in essere la condotta nella coscienza e volontà di sottoporre la parte offesa a uno stato di sofferenza e di sopraffazione psicologica; e poiché tale stato coincide perfettamente con l'evento (in senso naturalistico) che la norma intende evitare, dal momento che il bene giuridico tutelato altro non è che l'integrità psico-fisica nell'esplicazione di un rapporto sociale che il legislatore non vuole degradi in sofferenza e sopraffazione, ecco che allora la coscienza e volontà di maltrattare coincidono perfettamente col dolo generico in questione, e non costituiscono affatto una volontà ulteriore, specifica, che l'agente perseguirebbe oltre a quella coincidente con la condotta incriminata. Pertanto, secondo la pronuncia in commento della Cassazione, il reato di maltrattamenti può dirsi integrato non solo da comportamenti commissivi il cui intento oppressivo e vessatorio nei confronti della vittima sia auto-evidente, ma anche da omissioni di deliberata indifferenza verso i bisogni della vittima che non possano che sottintendere tali intenti: trattandosi di dolo generico infatti, è necessario e sufficiente che l'agente ponga in essere le omissioni con coscienza e volontà, e che da tali omissioni derivi indubitabilmente uno stato di sofferenza pisco-fisica della vittima, perché lo stato di abbandono in cui versa la vittima e da cui deriva il danno alla sua personalità sia all'agente soggettivamente rimproverabile. La sesta sezione pertanto ha ritenuto che i comportamenti posti in essere dall'imputata non potessero che essere sorretti dalla coscienza e volontà di sottoporre la vittima - affetta da sindrome di Down, e quindi bisognosa di cure particolari - a uno stato di sofferenza fisica e psicologica: "la peculiarità e le caratteristiche delle esigenze vitali e dei ben definiti bisogni di socialità e affettività di una persona affetta da sindrome di down [...] - nella elementarità delle loro connotazioni - considerarsi, nell'attuale momento storico, acquisiti al patrimonio di conoscenza collettivo, in guisa da non richiedere alcuna speciale perizia e preparazione tecnica o medica, che trascendano il buon senso, una comune sensibilità e un doveroso rispetto per la diversità di una persona disabile (per limiti cognitivi e difficoltà motorie) quale un portatore di sindrome di down. Sensibilità e rispetto tanto più doverosi e ineludibili se connessi [...] ad un rapporto professionale di affidamento e cura della persona portatrice di handicap. Nella conclamata sussistenza dei fatti realizzanti maltrattamento correttamente la Corte di Appello, con motivazione lineare e logica, ha ravvisato nella generale condotta dell'imputata il dolo generico del reato, inteso come rappresentazione e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze psico-fisiche in forma abituale e tali da produrre la sistematica compressione della sua particolare personalità".
Pur ritenendo nel merito sussistente la penale responsabilità dell'imputata, la Corte di Cassazione ha però annullato senza rinvio la sentenza della Corte d'Appello per avvenuto decorso dei termini prescrizionali.
[1] Per la tesi del reato permanente, si v. in particolare Mantovani F., Riflessioni sul reato di maltrattamenti in famiglia, in Scritti Antolisei, 1965, II, p. 227.
[2] Per la tesi del reato complesso si v. Gioffredi R., Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Nuovo Dig. It., 1939, p. 39; Leone G., Del reato abituale, continuato e permanente, Napoli, 1939, p. 157.
[3] Per la prima, si vedano tra gli altri, Coppi F., Maltrattamenti in famiglia, Perugia, 1979, p. 273; Miedico M., Sub art. 572 c.p., in Codice penale commentato, a cura di Marinucci G., Dolcini E, III ed., Milano, 2011, p. 5133; Pisapia G., Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Noviss. dig. it., Torino, 1964, p. 75. Per la seconda si v., solo per citare le più recenti: Cass. pen., sez. VI, 19 giugno 2012 (dep. 25 giugno 2012), n. 25183; Cass. pen., sez. IV, 31 maggio 2012 (dep. 10 settembre 2012), n. 34480, particolarmente chiara sul punto: "I maltrattamenti in famiglia integrano un'ipotesi di reato necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, che possono essere sia commissivi che omissivi, i quali acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo, reato che si perfeziona allorchè si realizza un minimo di tali condotte collegate da un nesso di abitualità"; Cass. pen., se. IV, 21 maggio 2012 (dep. 27 luglio 2012), n. 30780. Ed è proprio l'abitualità della condotta dei maltrattamenti a farne la norma penale più usata dalla giurisprudenza per reprimere le condotte vessatorie poste in essere nei luoghi di lavoro (si rinvia a Parodi C., Ancora su mobbing e maltrattamenti in famiglia, in questa Rivista). In caso quindi di concorso con altri reati, si considerano tendenzialmente assorbite le percosse, le minacce e le ingiurie; circa l'omicidio o le lesione personali gravi o gravissime è lo stesso co. 3 dell'art. 572 c.p. a prevederne l'autonoma punibilità, pur se è discusso se trattasi di delitti aggravati dall'evento o di circostanze aggravanti speciali; a scanso del silenzio serbato dal codice sulle lesioni personali lievi, è opinione pressoché comune in dottrina e giurisprudenza che siano assorbite se colpose, che concorrano invece coi maltrattamenti se volontarie.
[4] Oltre alle tre sentenze citate alla nota precedente - che tutte si soffermano sull'elemento soggettivo del reato collegandolo con l'abitualità della condotta - si v. anche: Cass. pen., sez. III, 3 maggio 2012 (dep. 4 dicembre 2012), n. 46818; Cass. pen., sez. VI, 28 marzo 2012 (23 aprile 2012), n. 15680; Cass. pen., sez. VI, 4 novembre 2012 (dep. 7 marzo 2011), n. 8892.