ISSN 2039-1676


27 maggio 2013 |

La sentenza della Corte di Appello milanese sul caso Berlusconi-Mediaset

Corte d'Appello di Milano, Sez. II pen., 8 maggio 2013 (dep. 23 maggio 2013), Pres. Galli, Est. Scarlini, Imp. Agrama e a.

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1. Pubblichiamo la sentenza (depositata il 23 maggio 2013, e della quale hanno dato ampia notizia i quotidiani nei giorni scorsi: clicca qui per scaricare l'articolo di corriere.it) con la quale la Corte d'Appello di Milano, nell'ambito del noto processo per la compravendita dei diritti televisivi Mediaset, ha confermato le statuizioni del giudice di prime cure, e, in particolare, la condanna di Agrama, Berlusconi, Galetto e Lorenzano, per il delitto di cui all'art. 2 del d.lgs. 74/2000, l'assoluzione di Colombo, Dal Negro e Confalonieri, anch'essi imputati per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, e l'assoluzione di Del Bue per il delitto di appropriazione indebita.

Dalla lettura dell'articolato impianto motivazionale della sentenza in oggetto, che di seguito si ripercorrerà sinteticamente, emerge come la Corte d'Appello di Milano abbia aderito in toto alla ricostruzione in punto di fatto e di diritto fornita dalla prima sezione penale del Tribunale di Milano, con la sentenza pronunciata il 26 ottobre 2012.

 

2. Secondo i giudici di secondo grado, le risultanze probatorie emerse nel corso dell'istruttoria dibattimentale, che la sentenza passa analiticamente in rassegna, forniscono elementi sufficienti per affermare che fin dalla seconda metà degli anni Ottanta il gruppo Fininvest ha organizzato e attuato un complesso meccanismo frodatorio, che, grazie a una catena di cessioni fittizie dei diritti di trasmissione televisiva originariamente acquisiti dalle majors, ha consentito la realizzazione di un duplice obiettivo: per un verso, la creazione di ingenti disponibilità finanziarie su conti esteri riconducibili a Silvio Berlusconi, e, per altro verso, l'artificiosa lievitazione dei costi sostenuti da Reteitalia, prima, e da Mediaset, poi, per l'acquisto dei diritti televisivi, con la correlata indicazione di elementi passivi fittizi nelle dichiarazioni dei redditi annualmente presentate all'erario.

 

2.1. Il suddetto meccanismo frodatorio si sarebbe articolato, sostengono i giudici milanesi, in due diverse fasi temporali, la prima delle quali avrebbe preso avvio alla metà degli anni Ottanta, con la costituzione di diverse società off-shore (in particolar modo, la Principal Network, la Century One e la Universal One), gestite direttamente da uomini Fininvest, ma mai incluse nel bilancio consolidato del gruppo, che, sulla carta, si occupavano di acquisire i diritti televisivi direttamente dalle majors straniere ovvero da altri fornitori. "In particolare", si legge nella sentenza, "la Principal era spesso l'acquirente dalle Majors e poi rivendeva alle altre due società, che a loro volta rivendevano ad altre società del gruppo Fininvest/Mediaset" (pag. 124). Una volta acquisiti i diritti di trasmissione televisiva, dette società provvedevano quindi a cederli, a un prezzo maggiorato secondo percentuali variabili, a società formalmente ricomprese nel comparto estero di Fininvest, che, a loro volta, li cedevano, con un'ulteriore maggiorazione di prezzo, a due società maltesi (AMT e Mediaset International), sempre riferibili al gruppo Fininvest, che, da ultimo, li cedevano a Reteitalia-Mediaset, con un aumento del prezzo nell'ordine del 7/8%.

Ebbene, a detta della Corte d'Appello, tutta questa catena di cessioni risultava sprovvista di qualsivoglia ragione economica lecita, dal momento che avveniva attraverso società "che facevano capo alla medesima proprietà dell'acquirente finale a cui quindi si interponevano" (pag. 124). La natura fittizia dei suddetti passaggi trova, peraltro - dicono ancora i giudici -, ulteriore conferma nel fatto che la trattativa con le majors per l'acquisto dei diritti di trasmissione televisiva non veniva condotta dagli intermediari, bensì direttamente da uomini del gruppo Fininvest. Sin dall'origine, dunque, i diritti televisivi venivano in realtà acquistati direttamente dalle società emittenti, mentre le successive fittizie intermediazioni avevano l'esclusiva finalità di garantire la realizzazione di un duplice, illecito, risultato: "la lievitazione dei costi con la conseguente evasione delle imposte italiane dell'acquirente finale, il gruppo Fininvest/Mediaset, e la costituzione all'estero, sia nel comparto riservato, sia nel comparto non riservato, di ingenti disponibilità finanziarie" (pag. 125).

 

2.2. Questo meccanismo di cessioni infragruppo, prosegue la sentenza, avrebbe operato sino al 1995, fino a quando, cioè, la scelta di quotare Mediaset in borsa avrebbe imposto agli imputati di introdurre talune modifiche al sistema frodatorio, prospettandosi in particolare la necessità di accorciare la catena di cessioni, così da diminuire il palese deficit di trasparenza che sino a quel momento aveva caratterizzato il meccanismo di acquisto dei diritti televisivi e, conseguentemente, consentire di superare indenni i controlli della Consob.

A tal fine, tra il 1994 e il 1995 il comparto estero riservato di Fininvest viene smantellato, attraverso la chiusura ovvero la vendita di tutte le principali società intermediarie, mentre le società maltesi AMT e Mediaset International, che sino a quel momento avevano rappresentato l'ultimo anello della catena di passaggi infragruppo, vengono rimpiazzate da una nuova società, la IMS, anch'essa costituita a Malta, che viene inserita nel consolidato del gruppo. Contestualmente, entrano in scena nuovi soggetti, solo formalmente estranei al gruppo Fininvest, che si sostituiscono alle società dell'ex comparto estero nella fittizia intermediazione dei diritti televisivi.

Il meccanismo, peraltro, pur se semplificato, in quanto depurato di taluni passaggi, nelle sue linee essenziali rimane sostanzialmente sovrapponibile a quello operante sino al 1995: anche in questa fase, infatti, i diritti televisivi, sebbene vengano trattati e acquistati direttamente da uomini del gruppo Fininvest, sono poi fittiziamente intermediati, attraverso una serie di cessioni non giustificate da reali ragioni economico-commerciali, così da consentire una progressiva lievitazione dei costi fiscalmente deducibili imputabili a Mediaset e la disponibilità di fondi in territorio estero. 

 

3. La Corte d'Appello, esattamente come il Tribunale, ritiene che le condotte sopra descritte - protrattesi dalla metà degli anni Ottanta alla fine degli anni Novanta - integrino gli estremi del delitto di cui all'art. 2 del d.lgs. 74/2000 - che, com'è noto, punisce colui che, "al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi passivi fittizi" -, in particolar modo con riferimento alle dichiarazioni dei redditi di Mediaset per gli anni 2002 e 2003 (i fatti relativi alle precedenti dichiarazioni dovendosi invece ritenere prescritti), nell'ambito delle quali le maggiorazioni di costo derivanti dalle intermediazioni fittizie di cui s'è detto risultano esposte sotto forma di elementi passivi frazionati in quote di ammortamento annuali.

La Corte giunge a tale conclusione evidenziando anzitutto come il complesso sistema frodatorio organizzato e attuato nell'ambito del gruppo Fininvest abbia condotto la società che gestiva le reti televisive a corrispondere per l'acquisto dei diritti televisivi somme illecitamente "gonfiate", che avrebbero consentito - oltre alla creazione di fondi esteri illeciti (condotta che risulta tuttavia irrilevante ai fini della sussistenza del delitto fiscale contestato agli imputati), anche - di indicare come costi deducibili, nelle dichiarazioni dei redditi presentate annualmente dalla società, importi relativi a operazioni in realtà mai avvenute, con conseguente indebito abbattimento delle imposte da versare all'erario.

 

3.1. A proposito del requisito dell'inesistenza dell'operazione, che costituisce uno degli elementi centrali della fattispecie ex art. 2 del d.lgs. 74/2000, la Corte d'Appello afferma che esso risulterebbero senz'altro integrato nel caso di specie, dal momento che le fatture annotate da Mediaset nelle proprie dichiarazioni dei redditi - ovverosia le fatture attestanti l'acquisto del diritto televisivo dalle società intermediarie - devono considerarsi "sia soggettivamente sia oggettivamente fittizie, in quanto avrebbero dovuto essere emesse dai produttori, dai primi venditori dei diritti, e avrebbero dovuto indicare il costo del primo acquisto" (pag. 176). Dette fatture celavano, dunque, "una evidente doppia simulazione, sull'intestatario e sul valore economico, che rendeva l'operazione del tutto fittizia e quindi soggettivamente e oggettivamente inesistente" (pag. 177).

 

3.2. Infondata, agli occhi della Corte, è la doglianza delle difese, fondata sulla "pretesa neutralità fiscale dell'operazione riguardante l'interposizione di IMS, in quanto la stessa era consolidata nel bilancio di gruppo e versava dividendi alla controllante, quasi totalitaria, Mediaset". A tal proposito, i giudici rilevano infatti che è "del tutto ovvio che la redazione di un bilancio di gruppo non tocca e non elimina affatto la persistente autonomia delle società che del gruppo fanno parte, tanto che appunto non vi è alcuna sommatoria degli utili di IMS con gli utili di Mediaset, ma IMS matura determinati utili, su questi paga le sue particolari imposte e poi decide quale parte degli utili distribuire, sotto forma di dividendi, ai soci, nella specie a Mediaset" (pag. 178).

 

3.3. La Corte si sofferma altresì sulla questione relativa alla retrocessione degli importi versati all'emittente - questione che il Tribunale, contrariamente alle difese degli imputati, aveva ritenuto del tutto irrilevante ai fini della sussistenza del delitto previsto dall'art. 2 del d.lgs. 74/2000 -, sul punto limitandosi peraltro a rilevare come, a ben vedere, "alcune retrocessioni sono state effettivamente individuate, le altre sono logicamente sottese ai meccanismi creati e alle ingenti disponibilità liquide, a seguito di prelievi in contanti, che sono stati oggetto della consulenza della KPMG" (pag. 179).

 

4. Da ultimo la Corte si sofferma sulla posizione individuale dei singoli imputati (pag. 179-186), rilevando - per ciò che concerne in particolare la posizione di Silvio Berlusconi - come il meccanismo fraudolento oggetto dell'imputazione, riferito alla fine degli anni novanta, si ponesse in linea di continuità - pur se con qualche semplificazione - con il meccanismo adottato negli anni precedenti, quando era stato ideato e attuato "da una ristrettissima cerchia di persone che non erano affatto collocate nella lontana periferia del gruppo ma che erano vicine, tanto da frequentarlo tutte [... ] personalmente, al sostanziale proprietario (rimasto certamente tale in tutti quegli anni) del medesimo, l'odierno imputato Berlusconi. Un imputato, un imprenditore che pertanto avrebbe dovuto essere così sprovveduto da non avvedersi del fatto che avrebbe potuto notevolmente ridurre il budget di quello che era il maggior costo per le sue aziende e che tutti questi personaggi, che a lui facevano diretto riferimento, non solo gli occultavano tale fondamentale opportunità ma che, su questo, lucravano ingenti somme, sostanzialmente a lui, oltre che a Mediaset, sottraendole. Continuando, pertanto, costoro, a suo danno, una operatività che era propria del gruppo, fin da quando non vi era dubbio che l'imputato ne fosse al vertice anche operativo, anche giornaliero, prima del 1994" (pag. 181).