22 ottobre 2013 |
Alle Sezioni Unite la questione dell'applicabilità della fattispecie di "induzione alla prostituzione minorile" in presenza del mero compimento di atti sessuali a pagamento con il minore
Osservazioni su Cass., Sez. III, ord. 11 giugno 2013 (dep. 24 luglio 2013), n. 32067, Pres. Squassoni, Rel. Marini, Ric. S.
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1. La questione rimessa al vaglio delle Sezioni Unite dall'ordinanza qui in commento suona pressappoco così: un adulto che offre denaro o altra utilità ad un minore in cambio di atti sessuali, può rispondere del delitto di "induzione alla prostituzione" di cui all'art. 600-bis comma 1 c.p. (punito con la reclusione da sei a dodici anni)?
Oppure tale ipotesi deve rientrare nella fattispecie meno grave di cui al comma 2 dello stesso art. 600-bis c.p., che punisce con la reclusione da uno a sei anni chi compie atti sessuali con un minore in cambio di un corrispettivo in denaro o di altra utilità?
Presentata in questi termini, la risposta sembrerebbe pressoché ovvia (si applica il comma 2!), se non fosse che la giurisprudenza della Suprema Corte, negli ultimi anni, ha invece proprio (ed incredibilmente) teorizzato il contrario: e cioè che l'adulto che paga il minore perché compia con lui atti sessuali lo sta anche "inducendo" alla prostituzione, e perciò deve rispondere ai sensi del comma 1 dell'art. 600-bis c.p., con una pena minima di sei anni di reclusione, al pari di chi "recluta" minori o di chi "favorisce, sfrutta, gestisce o organizza" la prostituzione di minori.
Procediamo però con ordine, partendo dal caso concreto sottoposto al vaglio della Cassazione.
2. L'imputato, un uomo adulto, compie in più occasioni atti sessuali con tre ragazzini minorenni stranieri, in cambio di ospitalità, piccole somme di denaro e "modeste regalie".
I ragazzini, al momento dei fatti, hanno un'età prossima ai diciotto anni e, alla luce di quanto accertato dall'istruttoria di merito, non risultano essere stati oggetto né di minacce né di particolari condizionamenti, così come si sono sempre "riservati la facoltà di negare gli atti troppo invasivi" e spontaneamente recati presso l'abitazione dell'uomo.
Pur a fronte di questo scenario fattuale, la Corte d'Appello di Brescia condanna l'imputato a sei anni e sette mesi di reclusione per il delitto di "induzione alla prostituzione" minorile di cui all'art. 600-bis comma 1 c.p., per averli indotti - appunto - a compiere atti sessuali con lui in cambio di elargizioni di vario tipo.
3. Avverso questa pronuncia presenta ricorso per Cassazione il difensore dell'imputato, il quale rileva, fra l'altro, che i fatti così come ricostruiti dalla Corte d'Appello, e sopra riepilogati, potrebbero al più essere ricondotti al delitto meno grave di cui al comma secondo dell'art. 600-bis c.p., e non già all'ipotesi di "induzione alla prostituzione" di cui al comma primo.
Il comma secondo della norma in esame stabilisce infatti che "salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di un corrispettivo in denaro o altra utilità, anche solo promessi, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 1.500 a euro 6.000".
4. La terza sezione, investita del ricorso, registra la presenza, nella giurisprudenza della Suprema Corte, di due orientamenti contrapposti in ordine alla nozione di "induzione alla prostituzione", maturati sul terreno di fattispecie penali diverse.
L'ordinanza precisa infatti che, con riferimento alla "tradizionale" fattispecie di "induzione alla prostituzione" contemplata dalla legge n. 75 del 1958 (c.d. legge Merlin), e quindi con riferimento al fenomeno della prostituzione del maggiore di età, la giurisprudenza ha sempre escluso che il c.d. "fatto del cliente", e cioè il pagamento della prestazione sessuale, potesse bastare ad integrare una condotta di "induzione alla prostituzione" penalmente rilevante.
A questo proposito, si richiama una pronuncia del 2004 della Cassazione (la n. 36156, CED 229389), nella quale la Suprema Corte ha sostanzialmente ribadito il principio che "la mera prospettazione di vantaggi patrimoniali in cambio di prestazioni sessuali non comporta 'induzione', restando questa integrata solo da condotte ulteriori che incidano sulla libertà fisica e/o psichica della persona che viene spinta a prostituirsi", in un caso in cui era stata prospettata ad una donna adulta la partecipazione ad incontri sessuali a pagamento.
Accanto a questo primo orientamento, che di fatto ha determinato storicamente l'esclusione della punibilità del cliente della prostituta maggiorenne, nell'ordinanza in esame si rappresenta l'esistenza di un secondo - e ben più rigoroso - orientamento maturato viceversa in relazione alla fattispecie di "prostituzione minorile" di cui all'art. 600-bis c.p.
Alla luce di questo secondo orientamento, la condotta di "induzione" alla prostituzione del minore si identificherebbe infatti "in qualsiasi condotta idonea a vincere le resistenze di ordine morale che trattengono la vittima dal prostituirsi al fine di una qualsiasi attività economica", ivi inclusa "la semplice dazione di denaro che persuada il minore a consentire agli atti sessuali"[1].
Questa interpretazione maggiormente rigorosa sarebbe imposta, secondo la giurisprudenza formatasi sull'art. 600-bis c.p., dal quadro normativo internazionale e sovranazionale in materia di sfruttamento della sessualità dei minori, che giustificherebbe - come si legge in una recente pronuncia - "una tutela penale più pregnante per i minori, rispetto agli adulti, perché i primi sono soggetti manipolabili, inadeguati ad autodeterminarsi, facilmente influenzabili ed inducibili ad atti sessuali che possono avere ricadute negative, anche non emendabili, sul loro futuro sviluppo psico-fisico"[2].
Detto altrimenti, in materia di prostituzione minorile, a differenza di quanto accade in presenza di prostituzione fra adulti, la giurisprudenza della Suprema Corte ha affermato il principio che il mero pagamento della prestazione sessuale del minore da parte del "cliente" rappresenta di per sé una condotta di "induzione alla prostituzione" del minore medesimo, e che come tale deve essere ricondotta alla previsione di cui al comma 1 n. 1) dell'art. 600-bis c.p., che punisce - come già ricordato - con la reclusione da sei a dodici anni chi "recluta o induce alla prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto".
Soluzione ermeneutica, come si è visto, che sarebbe giustificata - se non addirittura imposta, secondo questa giurisprudenza - dalle esigenze di maggior tutela del minore rispetto all'adulto.
A fronte di questo stridente contrasto, la sezione terza ha dunque affidato alla risposta delle Sezioni Unite i seguenti quesiti:
"se il concetto di induzione alla prostituzione minorile sia integrato dalla sola condotta di promessa o dazione di denaro o altra utilità posta in essere nei confronti di persona minore di età convinta così a compiere una o più volte atti sessuali esclusivamente col soggetto agente;
se il soggetto attivo del reato previsto dall'art. [600-bis] comma 1, cod. pen. possa essere colui che si limita a compiere atti sessuali col minore".
***
5. Ad avviso di chi scrive, la risposta ad entrambi i quesiti sopra riportati non può che essere nel senso di escludere che il mero pagamento (o la promessa di pagamento) del minore per fruire personalmente di prestazioni sessuali possa integrare la gravissima fattispecie di "induzione alla prostituzione" minorile di cui al comma 1 n. 1) dell'art. 600-bis c.p.
A favore di questa conclusione militano diverse ragioni, già peraltro messe in evidenza da attenta dottrina[3].
Innanzitutto, la tesi secondo la quale il mero pagamento della prestazione sessuale rappresenterebbe una condotta di "induzione alla prostituzione" rilevante ai sensi del comma primo dell'art. 600-bis c.p. determina una sostanziale abrogazione del comma secondo della medesima norma penale.
Aderendo alla tesi già efficacemente definita del "cliente-induttore", non si comprende infatti quale concreto spazio applicativo residuerebbe alla fattispecie che punisce chi compie atti sessuali con il minore "in cambio" di denaro o di altra utilità.
Posto infatti che anche la fattispecie di cui al comma secondo presuppone pacificamente una necessaria correlazione causale fra la dazione o la promessa di denaro (o di altra utilità) e la prestazione sessuale del minore, ché altrimenti neppure si potrebbe parlare di "prostituzione", non si vede in quale ipotesi concreta si potrebbe immaginare un pagamento che risulti causalmente collegato alla prestazione sessuale del minore - nel senso che il minore accetta l'atto sessuale proprio in ragione della controprestazione del "cliente" -, ma al contempo tale da non "indurlo" a prostituirsi.
Ciò, ovviamente, a meno di non voler teorizzare che il comma secondo in esame si possa applicare solo in presenza di minore già ormai dedito alla prostituzione: tesi che la giurisprudenza si è sempre però ben guardata dal sostenere, ripudiando fermamente, almeno negli ultimi anni, ogni vaga idea di minore "corrotto"; oppure che possa trovare residuale applicazione in casi in cui si sia in presenza di una giovane Lolita che, "ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo", si offre spontaneamente, previo adeguato compenso, al nostro malcapitato dott. Humbert: tesi che, ancora una volta, evocherebbe lo spettro della "moralità" della vittima, e finirebbe per far dipendere la scelta sull'applicazione del primo anziché del secondo comma del delitto in esame dal comportamento del minore, anziché dalla oggettiva condotta del reo.
L'unica interpretazione in grado di restituire un concreto spazio applicativo alla fattispecie di cui al comma secondo dell'art. 600-bis c.p. è dunque quella che ritiene che l'induzione strutturalmente insista nel pagamento del minore per ottenere una prestazione sessuale sia già assorbita dal disvalore tipico del fatto descritto nel medesimo secondo comma - che guarda esattamente a questa ipotesi -, e quindi sempre estranea al fuoco della ben più grave ipotesi di "induzione alla prostituzione" di cui al comma primo.
In secondo luogo, il diversissimo quadro edittale di pena, nonché la collocazione sistematica delle due fattispecie all'interno dello stesso art. 600-bis c.p., non può che deporre nel senso che l'"induzione alla prostituzione" di cui al comma primo attrae nella sua orbita applicativa soltanto fatti che risultino di disvalore equiparabile al "reclutamento", "favoreggiamento", "sfruttamento", "organizzazione" e "gestione" della prostituzione minorile, e dunque fatti che hanno come denominatore comune il ruolo del soggetto attivo non già come "consumatore" della prestazione sessuale del minore che si prostituisce, ma piuttosto come soggetto che agisce sul versante dell'"offerta" della prostituzione altrui.
L'induzione alla prostituzione di cui al comma primo, proprio perché fatto distinto per volontà del legislatore dalla mera fruizione di una prestazione sessuale a pagamento - tipo descritto dal comma secondo -, e proprio perché equiparato a condotte di indubbia maggiore offensività (atti di lenocinio in senso lato), dovrebbe essere riservato ad ipotesi nelle quali il fatto illecito non è circoscritto alla dinamica adulto-pagatore/minore che si prostituisce, ma in situazioni in cui il minore è autenticamente avviato alla prostituzione nei confronti di un numero potenzialmente indeterminato di "clienti".
6. Le considerazioni sin qui brevemente illustrate valgono peraltro, e ovviamente, anche qualora il fatto si arresti alla forma del tentativo, e non si arrivi alla consumazione dell'atto sessuale.
Nell'ipotesi in cui l'adulto si limiti infatti ad offrire al minore una somma di denaro (o altra utilità: alloggio, ricariche telefoniche, regali più o meno costosi etc.) affinché il minore acconsenta al compimento con lui di atti sessuali, si potrà configurare esclusivamente un tentativo di prostituzione minorile ai sensi del comma secondo dell'art. 600-bis c.p., e non già una "induzione alla prostituzione" tentata o addirittura consumata, qualora si volesse portare all'estremo la logica accolta dalla giurisprudenza formatasi sulla norma in esame.
Chi scrive auspica pertanto che le Sezioni Unite, chiamate - opportunamente - a porre rimedio a quella che ha tutta l'aria di essere una insidiosa deriva interpretativa, intervengano a ripristinare i confini delle ben diverse fattispecie descritte dai commi primo e secondo del delitto di "prostituzione minorile".
[1] Cfr. Cass., Sez. III, 14 aprile 2010, n. 18315, CED 247163.
[2] Cfr. Cass., Sez. III, 11 gennaio 2011, n. 4235
[3] Cfr., per tutti, l'ampia riflessione sul punto di Palumbieri, Art. 600 bis, in Cadoppi-Canestrari-Manna-Papa, Trattato di diritto penale, Parte Speciale, Vol. VIII, 2010, p. 343 ss. e letteratura ivi citata.