ISSN 2039-1676


04 novembre 2013 |

La Consulta sulla disciplina dell'impedimento a comparire, di durata non determinabile, che discenda da patologie fisiche dell'imputato

Corte cost., 21 ottobre 2013, n. 243, Pres. Silvestri, Rel. Silvestri

 

1. Qualche nota di presentazione per un provvedimento di manifesta infondatezza che certo non giunge inaspettato, data se non altro l'esistenza di ripetuti precedenti di segno analogo, e che tuttavia presenta un certo interesse. Infatti la questione sollevata, e la deliberazione assunta dalla Corte, si inseriscono in un flusso che denota la sempre maggiore insofferenza dei giudici ordinari verso lunghe dilazioni dei procedimenti che si connettano, in qualche modo, ad impedimenti della parte principale, cioè l'imputato. Dopo un lungo periodo durante il quale ha manifestato solo una sorta di «impotenza procedurale» ad intervenire sul tema, la Consulta ha recentemente aperto uno spiraglio, segnalando la frizione in atto tra la disciplina della sospensione per incapacità processuale (artt. 70 e 71 cod. proc. pen.) ed i principi di uguaglianza e ragionevole durata del procedimento, nella parte in cui si riferisce ai cd. «eterni giudicabili», cioè a persone affette da infermità mentali che, secondo le nozioni scientifiche disponibili, non sono suscettibili di regressione.

Si allude ovviamente alla sentenza n. 23 del 2013, pubblicata in questa Rivista con nota di G. Leo (Il problema dell'incapace «eternamente giudicabile»: un severo monito della Corte costituzionale al legislatore). Il provvedimento, pur dichiarando nuovamente inammissibile una questione pertinente al tema (e però proposta riguardo all'art. 159 c.p.), ha evidenziato come la pendenza «eterna» del giudizio non è solo un fardello per gli uffici (considerato tanto più inutile quanto più sicura appare la prognosi di irreversibilità della malattia), ma un vulnus per i diritti della persona, «imprigionata» nel processo senza che nulla, neppure il decorso dei termini di prescrizione, possa chiudere la vicenda. Di qui un deciso monito per il legislatore, dal quale per altro, e come spesso accade, ancora nessun segnale è pervenuto. Tanto che nuove questioni sono state sollevate (cfr., in particolare, Trib. Milano, ord. 21 marzo 2013, Pres. Mannucci Pacini, Est. Freddi, in questa Rivista con nota di G. Romeo, Gli «eterni giudicabili»: di nuovo alla Consulta il problema della sospensione del processo e della prescrizione nei casi di capacità processuale esclusa da infermità mentale irreversibile).

 

2. Subito bisogna dire, però, che la questione risolta con l'ordinanza qui in commento presenta collegamenti confusi ed opinabili con il tema della incapacità processuale, e soprattutto risulta anacronistica: proprio nell'epoca in cui la giurisprudenza costituzionale afferma la necessità di un restringimento degli effetti sospensivi della patologia (in pratica affermando che anche l'incapace irreversibile ha diritto ad un qualche meccanismo di estinzione del reato o di definizione del procedimento), il rimettente è venuto a proporre una espansione dei citati effetti sospensivi, sollecitando la loro applicazione, con tutti i connessi problemi, anche all'impedimento a comparire per malattia fisica, almeno nei casi di durata prevedibilmente lunga della patologia.

Ed ecco infatti l'essenza della questione. Si celebra innanzi al giudice a quo il processo contro una persona molto anziana, portatrice di una grave patologia cardiaca. In più occasioni, l'udienza ha dovuto essere rinviata per il legittimo impedimento connesso alla patologia in atto. Per la verità una perizia disposta dal Tribunale non qualifica assoluto l'impedimento (l'imputato potrebbe comparire, con l'adozione di opportune cautele mediche e logistiche), ma sotto questo profilo la valutazione del giudice resta naturalmente insindacabile. Sennonché, in occasione di una nuova udienza fissata «a vuoto», il giudice a quo ritiene di sottrarsi al rituale di un nuovo rinvio a udienza fissa (di presumibile inutilità), e dichiara che troverebbe «più ragionevole» l'applicazione della disciplina prevista per l'incapacità processuale dovuta a infermità di mente (art. 70 e 71 c.p.p.): dunque sospensione del processo e, naturalmente, sospensione concomitante della corsa del termine di prescrizione del reato, con verifica semestrale (e, si intende, extradibattimentale) di eventuali mutamenti nello stato di salute dell'interessato.

L'assunto di «maggior ragionevolezza», che naturalmente evoca l'art. 3 della Costituzione, è costruito sullo spreco di energie processuali e sul pregiudizio recato all'andamento generale del servizio (art. 97 Cost.), visto che, per l'udienza occupata dall'inutile rinvio, potrebbero essere fissati in alternativa procedimenti di più probabile definizione. Infine, un riferimento al principio di ragionevole durata (secondo comma dell'art. 111 Cost.), probabilmente dovuto allo sforzo di evocare parametri diversi da quelli prospettati nelle occasioni in cui la Corte aveva già valutato, e respinto, tentativi analoghi (cfr. infra).

Il rimettente, a tale ultimo proposito, prevede la facile obiezione (puntualmente mossagli dalla Corte): come può una nuova causa di sospensione contribuire al contenimento dei tempi processuali? Ed ecco, testualmente, la replica: la sospensione costituirebbe «un segmento temporale che non può essere considerato parte del processo e che vale a porre una scansione temporale chiara, predeterminata, tale da consentire a tutti i protagonisti di organizzare la propria attività in modo ordinato, senza ripetuti ed inutili tentativi di udienza».  Non è agevole, in effetti, comprendere senso e pertinenza del rilievo. Le attività necessarie alle fissazioni ed ai rinvii potranno forse rallentare l'attività complessiva dell'Ufficio, ma non certo influire in negativo sulla durata del procedimento de quo: anzi, come nota la Corte nella propria ordinanza, la «costrizione» a verifiche più serrate, perché coincidenti con la fissazione ripetuta di nuove udienze, favorisce una reazione più immediata all'eventuale superamento della condizione invalidante. Resta il riferimento alla «estromissione» dalla linea di sviluppo del procedimento del «segmento temporale» interessato dalla sospensione. La Corte pare averlo inteso come un riferimento alla sospensione della prescrizione. Se anche così fosse, resterebbe comunque misteriosa la sua pertinenza al tema della ragionevole durata. Oltretutto, una logica del genere implicherebbe una evidente inammissibilità della questione, avendo più volte la Consulta chiarito che eventuali addizioni al catalogo delle cause che interrompono o sospendono il corso della prescrizione sarebbero manipolazioni in malam partem, come tali escluse dalla nota giurisprudenza concernente il principio di legalità e le sue implicazioni a proposito delle fonti che possono introdurre disposizioni punitive. Senza dire che, per quanto limitata da esigenze di bilanciamento mirate proprio ad affermare la ragionevole durata, la sospensione della prescrizione opera ormai anche nei casi di rinvio per legittimo impedimento dell'imputato e del suo difensore.

 

3.  Le osservazioni che precedono sembrano idonee a documentare che una estensione della disciplina della incapacità processuale al caso dell'impedimento per patologia fisica dell'imputato non sarebbe affatto «più ragionevole» (sempreché una questione costruita sul principio di ragionevolezza possa davvero fondarsi su un rilievo del genere). Ma l'estensione in discorso non potrebbe passare neanche per una matura e consapevole applicazione del principio di uguaglianza formale, cioè attraverso una stringente comparazione tra le due situazioni indicate.

La Corte l'aveva già detto chiaramente (e con esiti di inammissibilità) con la sentenza n. 354 del 1996. In quel caso, riguardo al denunciato contrasto con l'art. 3 Cost., era stato sviluppato un classico ragionamento triadico, utilizzando la disciplina per l'infermo di mente quale tertium comparationis. E subito era emerso un elemento differenziale tra le situazioni poste a raffronto. L'infermo di mente non è capace in alcun modo di comprendere gli avvenimenti processuali e di decidere la propria condotta, il che preclude radicalmente la progressione del giudizio, salvo il caso dell'assunzione di prove urgenti. L'infermità fisica non incide sull'autodeterminazione dell'imputato, che può consapevolmente orientare il proprio atteggiamento processuale, ed in particolare può consentire la legittima prosecuzione del giudizio in sua assenza, ove consideri per lui conveniente tale opzione (e ben può essere, ad esempio per la corsa ininterrotta del termine prescrizionale, o per un genuino interesse all'accertamento dei fatti). Lo spunto prospettato in quell'occasione (e ripreso nella successiva ordinanza n. 67 del 1999) sembra oggi tanto più puntuale, alla luce delle nuove e recenti riflessioni sul difficile bilanciamento tra protezione dal processo e diritto al processo che deve essere realizzato finanche nel caso degli «eterni giudicabili» (supra).

Non è un caso che la nozione di «incapace processuale» sia costruita in riferimento esclusivo alle gravi patologie di tipo psichico. Tali patologie, del resto, sono considerate più stabili di quelle fisiche, che in effetti tendono a risolversi con maggiore rapidità (sia detto senza cinismo), in un senso o nell'altro. Nello stesso tempo, è davvero difficile che una malattia non neurologica impedisca completamente e stabilmente la partecipazione dell'imputato al giudizio, essendo concepibili forme di trasporto adeguate ed un servizio di assistenza medica in udienza.

In realtà la pretesa similitudine non avrebbe alcun senso se rapportata all'ordinaria fenomenologia degli impedimenti dovuti a malattia fisica, che normalmente si esauriscono in un ambito di tempo ristretto e misurabile con relativa facilità. Ed infatti, nell'ordinanza di rimessione, si leggono riferimenti generici alle difficoltà di prognosi del caso concreto ed all'eventuale irreversibilità della patologia che affligge l'imputato.

Dal punto di vista del processo costituzionale, avrebbe potuto essere considerata una (ulteriore) anomalia genetica della questione (non essendo ben chiaro in che  limiti la Consulta avrebbe dovuto circoscrivere la proposta «equiparazione»). Dal punto di vista sostanziale, come accennato in apertura, una sorta di anacronismo: il sistema di tutela dei diritti volge verso una più facile chiusura - con le opportune cautele (imposte da possibili errori di diagnosi e prognosi, o da eventuali simulazioni) - del processo a carico di chi si trovi stabilmente e definitivamente impossibilitato a difendersi da un'accusa di rango penale; certo non sarebbero costituzionalmente «dovute», quindi, soluzioni di segno opposto, utili solo a semplificare (ammesso che lo semplifichino) lo sforzo organizzativo degli uffici giudiziari.

Il buon andamento dell'amministrazione, anche di quella giudiziaria, è naturalmente un valore di rango costituzionale. Ma la Corte ha facilmente ricordato, anche nell'ordinanza in commento, ciò che insegna da sempre, e cioè che il parametro non si applica alle norme processuali che regolano l'esercizio della giurisdizione. La ragione è evidente, per l'ennesima volta ribadita dal caso di specie: la giurisdizione è il luogo dell'affermazione dei diritti dei singoli, e delle pretese di tutela di beni di rango costituzionale; non il luogo, dunque, nel quale possano entrare in gioco esigenze organizzative e finanziarie che, invece di assecondare l'affermazione di quei diritti e di quelle pretese,  alterino sensibilmente  il relativo bilanciamento.