6 novembre 2013 |
Un 'diritto alla verità ' sui crimini di guerra della seconda guerra mondiale? Una cruciale sentenza della Corte europea sui limiti ratione temporis della propria giurisdizione
Corte eur. dir. uomo, Grande Camera, sent. 21 ottobre 2013, Janowiec e a. c. Russia, ric. nn. 55508/07 e 29520/09
Per scaricare la sentenza annotata, clicca qui.
1. Con la sentenza Janowiec e a. c. Russia, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo analizza e specifica per la prima volta nel loro complesso i criteri per la determinazione della sua giurisdizione ratione temporis, così come enucleati nella precedente giurisprudenza ed, in particolare, nella sentenza Šilih c. Slovenia (GC, n. 71463/01, parr. 160-163, 9 aprile 2009: per scaricare la sentenza, clicca qui). La pronuncia di cui si dà conto ha per oggetto la drammatica vicenda dell'esecuzione sommaria di oltre ventunomila prigionieri polacchi da parte dell'esercito sovietico durante la seconda guerra mondiale. La Corte europea, chiamata a pronunciarsi sulla possibile violazione degli artt. 2 e 3 Cedu, coglie dunque l'occasione per chiarire i limiti temporali della propria giurisdizione, rilevanti ex art. 35 par. 3 Cedu.
2. Prima di procedere all'esame del cuore della pronuncia, pare il caso di riferire brevemente le circostanze di fatto ad essa sottese. Tra l'aprile ed il maggio 1940, oltre ventunomila prigionieri polacchi, militari e civili, vennero uccisi senza processo dalla polizia segreta (NKVD) su ordine di alti ufficiali sovietici, nei pressi della foresta di KatiÅ„. I corpi di una parte delle vittime, sepolti in fosse comuni, vennero ritrovati tra il 1942 ed il 1943 da alcuni lavoratori delle ferrovie e dall'esercito tedesco. Solamente nel 1990 le autorità sovietiche - ammettendo le proprie responsabilità storiche, dopo averle per anni ripetutamente declinate - aprirono un'indagine ufficiale sulla vicenda, che si concluse però senza alcun risultato concreto apprezzabile con una decisione del 21 settembre 2004. Tanto quest'ultimo provvedimento, quanto una buona parte della documentazione del processo fu classificata (e rimase classificata, nonostante i ricorsi degli interessati) come "top secret" e, proprio per tale ragione, resa indisponibile ai parenti del vittime ed alle associazioni per la tutela dei diritti umani. La decisione del 21 settembre 2004 non sarà consegnata neanche alla Corte Europea, nonostante l'esplicita richiesta di quest'ultima.
3. I ricorrenti sono quindici cittadini polacchi, parenti - più o meno stretti - di dodici delle vittime del massacro. Solo alcuni di loro hanno potuto constatare l'effettivo decesso dei propri cari, in quanto non tutte le salme delle vittime sono state ritrovate ed identificate. Con due separati ricorsi, adiscono la Corte europea, lamentando innanzitutto la violazione degli obblighi procedurali dell'art. 2 Cedu, in virtù dell'inadeguatezza delle indagini svolte dalle autorità sovietiche (prima) e russe (poi) per accertare le effettive responsabilità nei tragici fatti accaduti. Inoltre, ritengono che le sofferenze patite a causa della prolungata negazione della reale dinamica della vicenda, unitamente al rifiuto di rilasciare informazioni ai parenti delle vittime, integrino anche una violazione dell'art. 3 Cedu.
4. Il caso viene sottoposto alla Quinta Sezione della Corte europea che, con sentenza del 16 aprile 2012 (clicca qui per scaricare la sentenza), ritiene di non poter esaminare nel merito l'asserita violazione dell'art. 2 Cedu, a causa dell'assenza di giurisdizione ratione temporis. In secondo luogo, giudica sussistente la violazione dell'art. 3 Cedu, ma solo in riferimento a quei ricorrenti legati alle vittime da un rapporto di parentela più stretto e nati prima della loro uccisione. Infine, a seguito dei ripetuti rifiuti delle autorità russe di consegnare alla Corte europea una copia della decisione del 21 settembre 2004, ritiene sussistente anche una violazione dell'art. 38 Cedu, che impone agli Stati membri di fornire tutte le facilitazioni necessarie per consentire alla Corte di svolgere la sua attività giurisdizionale. Il 24 settembre 2012 la questione viene rinviata alla Grande Camera, che decide nei termini che seguono.
5. Come accennato, il nucleo fondamentale della sentenza è costituito dall'analisi dei criteri utilizzabili per stabilire i limiti temporali della giurisdizione della Corte europea. Il ragionamento del Giudice di Strasburgo prende le mosse dalla considerazione che la Convenzione non è vincolante per uno Stato membro in relazione agli atti o ai fatti verificatisi, o alle situazioni che hanno cessato di esistere, anteriormente alla data di entrata in vigore della Convenzione stessa nei confronti di tale Stato (cd. "critical date"). Si tratta dell'enunciazione del basilare principio di irretroattività dei trattati vigente nel diritto internazionale e che ricalca il disposto dell'art. 28 della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati del 23 maggio 1969. Ciò premesso, la Corte europea ricorda come nel recente passato abbia dovuto affrontare numerosi casi in cui i fatti potenzialmente lesivi del profilo sostanziale dell'art. 2 o dell'art. 3 Cedu si erano verificati anteriormente alla "critical date", mentre i procedimenti nazionali volti ad accertare le relative responsabilità si erano spinti, almeno in parte, al di là di questa soglia cronologica, facendo sì che la possibile violazione del profilo procedurale di dette norme avvenisse a Convezione vigente. Questa situazione di fatto è esattamente riprodotta nel caso di specie: la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo - adottata il 4 novembre 1950 - è stata ratificata dalla Russia il 5 maggio 1998 e, cioè, cinquantotto anni dopo il 1940 (anno dell'uccisione dei prigionieri), ma sei anni prima del 2004 (anno di conclusione delle indagini sulla vicenda da parte delle autorità russe). Per tale ragione, la Corte europea avverte la necessità di chiarire i criteri per determinare i limiti temporali della propria giurisdizione, enucleati per la prima volta nella citata sentenza Šilih c. Slovenia.
Il primo criterio può essere sintetizzato nei termini che seguono: in ogni caso, quando la morte (o, più in generale, l'evento potenzialmente lesivo dei profili sostanziali delle norme convenzionali) si verifica anteriormente alla "critical date", l'oggetto dell'attività giurisdizionale della Corte europea può essere costituito solamente dagli atti procedurali o dalle omissioni posteriori a detta data. Per "atti procedurali" devono intendersi quelli relativi a procedimenti penali, civili, amministrativi o disciplinari idonei a condurre all'identificazione e alla punizione dei responsabili o al risarcimento delle vittime. Questa definizione, però, non comprende altri tipi di procedimenti, quali quelli volti esclusivamente a stabilire una verità storica. Il termine "omissioni", invece, si riferisce alle situazioni in cui un'effettiva attività di indagine avrebbe dovuto essere - ma non è stata - posta in essere dalla autorità nazionali, soprattutto in virtù dell'emersione di nuovi elementi di prova relativi ai fatti oggetto di accertamento.
Il secondo criterio può essere sintetizzato nei termini che seguono: in via generale, la giurisdizione della Corte europea sussiste solamente nei casi in cui esista una "genuine connection" tra la morte (o, ancora una volta, l'evento potenzialmente lesivo dei profili sostanziali delle norme convenzionali) e l'entrata in vigore della Convenzione per lo Stato membro. Ciò significa che uno Stato può essere chiamato a rispondere della violazione dei profili procedurali delle norme convenzionali solamente qualora sussista effettivamente tale peculiare rapporto di natura essenzialmente cronologica. Ed infatti, l'elemento della "genuine connection" viene ritenuto integrato se il lasso di tempo intercorrente tra l'evento potenzialmente lesivo e la "critical date" rimane ragionevolmente breve ed, in ogni caso, non superiore a dieci anni. Inoltre, la Corte europea ritiene che tale connessione sussista e possa quindi consentirle di valutare l'eventuale violazione dei profili procedurali delle norme convenzionali, solamente nel caso in cui la maggior parte dell'attività di indagine sia stata svolta (o avrebbe dovuto essere svolta) dalle autorità nazionali dopo la "critical date": questa precisazione non è altro che un corollario del primo criterio.
Il terzo criterio può essere sintetizzato nei termini che seguono: in via eccezionale e derogatoria rispetto al principio enunciato nel secondo criterio, una connessione può sussistere anche nei casi in cui le circostanze concrete impongano di tutelare in modo reale ed effettivo le garanzie ed i valori sottesi alla Convenzione. Più in particolare, la Corte europea ritiene di poter valutare l'eventuale violazione dei profili procedurali delle norme convenzionali non solo qualora sussista una "genuine connection", ma anche quando la portata del fatto potenzialmente lesivo sia tale da porre in pericolo le garanzie ed i valori basilari della Convenzione: ciò avviene per i più gravi - ed imprescrittibili - crimini puniti dal diritto internazionale, come i crimini di guerra, i genocidi o i crimini contro l'umanità. Ad ogni modo, questo criterio non può operare nel caso in cui i fatti potenzialmente lesivi si siano verificati prima del 4 novembre 1950, data di adozione della Convenzione.
Riassumendo, la Corte europea può valutare la potenziale violazione dei profili procedurali delle norme convenzionali, in relazione a fatti avvenuti prima della "critical date" se: a) tra detti fatti e l'entrata in vigore della Convenzione per lo Stato membro sussista un breve lasso di tempo, comunque non superiore a dieci anni, e se, contestualmente, la maggior parte dell'attività di indagine sia stata svolta (o avrebbe dovuto essere svolta) dalle autorità nazionali dopo la "critical date"; b) qualora il criterio appena ricordato non sia applicabile, la gravità dei fatti potenzialmente lesivi, avvenuti dopo il 4 novembre 1950, imponga di tutelare in modo reale ed effettivo le garanzie ed i valori sottesi alla Convenzione.
6. Venendo al caso di specie, la Corte europea ritiene che il lasso di tempo di cinquantotto anni intercorrente tra l'esecuzione dei prigionieri e la ratifica della Convenzione da parte della Russia sia eccessivo per poter ritenere sussistente quella "genuine connection" di cui al ricordato secondo criterio; inoltre, la maggior parte delle attività di indagine sono state svolte dalle autorità russe prima della "critical date". Potrebbe teoricamente operare il terzo criterio - e sarebbe la prima applicazione pratica nella giurisprudenza della Corte europea -, ma il limite cronologico del 4 novembre 1950 rimane insuperabile per fatti verificatisi nel 1940. Per queste ragioni, il Giudice di Strasburgo ritiene di non poter esaminare nel merito la possibile violazione dell'art. 2 Cedu.
7. La Corte si occupa a questo punto della lamentata violazione dell'art. 3 Cedu. Il Giudice di Strasburgo ricorda come possa costituire un'autonoma violazione della citata norma convenzionale la sofferenza subita dai familiari di persone scomparse, causata dalla inerzia delle autorità nazionali nel fornire notizie e svolgere indagini al fine di chiarire il destino di questi soggetti. Non possono invece lamentare la violazione dell'art. 3 Cedu i parenti delle vittime di cui sia stato accertato il decesso; e ciò in ragione del fatto che tali soggetti non vivrebbero nel lacerante stato di alternanza fra speranza e disperazione provocato dall'incertezza sul destino dei propri cari.
Ora, pronunciandosi sul caso concreto, la Corte europea ritiene che - nel periodo successivo al 5 maggio 1998, "critical date" che costituisce la soglia temporale a partire dalla quale sussiste la sua giurisdizione sul punto - l'iniziale stato di incertezza sulla sorte di molti dei prigionieri polacchi, i cui corpi non sono mai stati ritrovati, debba lasciare spazio alla triste consapevolezza della loro morte, divenuta ormai, anche a seguito delle stesse ammissioni delle autorità nazionali, un fatto storico. Proprio per tale motivo, la Corte europea non ritiene violato l'art. 3 Cedu nel caso di specie.
8. Il Giudice di Strasburgo considera invece violato l'art. 38 Cedu, a causa della mancata consegna della decisione del 21 settembre 2004, circostanza idonea a far ritenere non rispettato l'obbligo per gli Stati membri di fornire alla Corte tutte le facilitazioni necessarie per lo svolgimento della sua attività giurisdizionale. Tale obbligo può essere indirettamente desunto anche dagli artt. 26 e 27 della Convenzione di Vienna, che sanciscono, rispettivamente, il principio "pacta sunt servanda" e quello che impedisce ad uno Stato membro di invocare le disposizioni del suo diritto interno per giustificare la mancata esecuzione di un trattato. La Corte europea ritiene che la classificazione della detta decisione come "top secret" non possa essere considerata un elemento sufficiente a giustificare il comportamento dello Stato russo: da un lato, infatti, le autorità nazionali adite per declassificare il documento non hanno effettuato il necessario giudizio di bilanciamento tra l'esigenza di proteggere informazioni sensibili per la sicurezza nazionale e l'interesse pubblico (e dei parenti delle vittime) alla trasparenza delle indagini relative ai crimini commessi più di settanta anni fa dallo Stato totalitario, essendosi invece limitate a rigettare ogni richiesta di declassificazione per vizi formali delle stesse; dall'altro lato, anche qualora sussistessero effettivamente preoccupazioni relative alla sicurezza nazionale, il Governo russo avrebbe potuto richiedere alla Corte europea di limitare l'accesso ai documenti rilevanti per il giudizio ai sensi della Rule 33 delle Rules of Court o, addirittura, di tenere le udienze a porte chiuse.
9. E' chiaro che una simile decisione è destinata a far discutere, soprattutto nei Paesi direttamente coinvolti. La delicatezza della questione può essere ben compresa leggendo le numerose ed articolate dissenting e concurring opinions allegate alla sentenza. La Corte europea si è trovata a dover contemperare - sullo sfondo di una delle più drammatiche vicende del secolo scorso - alcuni principi fondamentali del diritto internazionale e del diritto penale, tra i quali spiccano quelli di irretroattività dei trattati e di imprescrittibilità dei crimini contro l'umanità, arrivando ad interrogarsi implicitamente sulla portata e sulla funzione stessa della Convenzione. Se da un punto di vista strettamente giuridico la soluzione accolta può anche essere condivisa, è comprensibile come alcuni giudici di minoranza abbiano definito la sentenza - emanata dalla Corte preposta a garantire l'effettività della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo - come "a case of most hideous human rights violations, which turn the applicants' long history of justice delayed into a permanent case of justice denied".