ISSN 2039-1676


05 maggio 2014 |

Dalle Sezioni unite alcune precisazioni in tema di reato continuato e divieto di reformatio in peius

Cass., Sez. un., 27 marzo 2014 (dep. 14 aprile 2014), n. 16208, Pres. Santacroce, Rel. Macchia

1. Sollecitate a intervenire da un'ordinanza di rimessione della Sezione quarta, che segnalava un contrasto giurisprudenziale in materia, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno escluso che incorra nella violazione del divieto di reformatio in peius il giudice di rinvio che - individuato il reato più grave a norma dell'art. 81 comma 2 c.p., in conformità a quanto stabilito nella sentenza della Corte di cassazione, pronunciata su ricorso del solo imputato - apporti per uno dei reati in continuazione un aumento maggiore della pena rispetto a quello stabilito dal primo giudice, pur non irrogando una pena di entità complessivamente maggiore. Nello specifico, secondo i giudici di legittimità non avrebbe disatteso il principio sancito dall'art. 597 comma 3 c.p.p. la decisione della Corte d'appello di Perugia che, in sede di giudizio di rinvio, una volta identificato il reato più grave nella concussione (anziché nella violenza sessuale, come in precedenza ritenuto dalla Corte di appello di Ancona, nella sentenza annullata in parte qua dalla Suprema Corte nell'aprile 2011), abbia fissato in cinque anni l'entità della pena relativa a tale fattispecie, applicato una diminuzione per le attenuanti generiche di entità pari a quella precedentemente stabilita, previsto tre aumenti di pena per i reati di violenza sessuale, ritenuti reati satellite, di minore entità rispetto alla decisione precedente ma, al contempo, abbia elevato l'aumento a titolo di continuazione relativo al secondo episodio di concussione contestato, pur mantenendo inalterata la pena complessivamente irrogata, pari a tre anni e quattro mesi di reclusione.

Si tratta di un approdo non scontato, sebbene - a ben vedere - non del tutto imprevisto.

Non scontato, giacché potevano ravvisarsi appigli argomentativi e sistematici a supporto di una diversa interpretazione dell'art. 597 comma 3 c.p.p. massimamente garantista per l'imputato unico impugnante, che riferisse anche nel caso di specie il divieto di variazioni in peius a ciascuna delle componenti del trattamento sanzionatorio e precludesse compensazioni interne in grado di neutralizzare l'effetto favorevole per l'impugnante. Una «lettura analitica della portata del divieto» che una parte della dottrina aveva tempestivamente auspicato anche nella fattispecie de qua all'indomani dell'ordinanza di rinvio alle Sezioni unite, ricostruendo il divieto di reformatio in peius come principio dotato di «forza espansiva» e come «criterio guida che esprime un generico favor impugnationis e, con esso, un certo favor rei»[1], ma che la Suprema Corte non ha ritenuto di accogliere, confermando lo scetticismo dottrinario recentemente espresso verso il prevalere in materia di soluzioni giurisprudenziali in bonam partem[2].

 

2. Dall'articolato impianto della pronuncia il divieto di reformatio in peius emerge come un principio controverso - a dimostrarlo sono le stesse resistenze opposte alla sua previsione nell'attuale codice di rito  -, caratterizzato da una ratio poco nitida e, soprattutto, da una fisionomia operativa per alcuni aspetti incerta, come si evince dal «caleidoscopio» di «prospettive ermeneutiche» e dalla «gamma multiforme di approdi» registrati nella giurisprudenza di legittimità, che - si sottolinea nella sentenza - «neppure i diversi interventi delle Sezioni unite sono valsi a ricondurre a effettiva unità».

Dopo aver ripercorso sinteticamente le diverse opzioni prospettate in rapporto al fondamento giuridico del divieto di reformatio in peius (dalla manifestazione del diritto di difesa all'interesse ad impugnare, fino al favor rei), la decisione delle Sezioni unite lo riconduce al «principio della domanda», osservando come altrimenti sarebbe consentito al giudice d'appello andare oltre «il petitum sostanziale perseguito attraverso il gravame» ed «introdurre nel panorama decisorio effetti "novativi"», così determinando «un aggravamento (...) della posizione dell'imputato, senza domanda della parte pubblica». Ricostruita in questi termini la sua ratio, i giudici di legittimità escludono che il divieto in questione abbia natura di regola eccezionale, ribadendone l'applicazione - già affermata dalle Sezioni unite nel 2006[3] - anche nel giudizio di rinvio conseguente ad annullamento pronunciato dalla Cassazione su ricorso del solo imputato, in disaccordo con una più recente presa di posizione della Suprema Corte[4], che, ove condivisa, sarebbe risultata «pregiudizialmente risolutiva della questione» sottoposta.

 

3. Nell'affrontare le complesse implicazioni di quest'ultima, la sentenza sottolinea le peculiarità della fattispecie in esame, analizzando i «tratti tipizzanti» dell'istituto - il reato continuato - che costituisce «l'oggetto su cui deve commisurarsi il raffronto tra i trattamenti sanzionatori».

Con riguardo all'ipotesi del reato continuato - rileva la decisione - il particolare regime previsto dall'art. 81 comma 2 c.p. presuppone «la individuazione dei termini che compongono il cumulo e la determinazione di un certo ordine della sequenza»; pertanto, la modifica di uno dei termini (vale a dire di «una o più delle regiudicande cumulate» o del «relativo "bagaglio" circostanziale») oppure la variazione nell'ordine di quella sequenza (perché la "fattispecie satellite" diviene la più grave o perché muta la qualificazione giuridica di quella più grave) è destinata ad apportare, rispetto al «meccanismo di unificazione», una innovazione di carattere strutturale. La stessa non consentirebbe - secondo la Suprema Corte - di «sovrapporre la nuova dimensione strutturale a quella oggetto del precedente giudizio»[5]; diversamente ragionando, si finirebbe per introdurre «una regola di invarianza priva di qualsiasi logica giustificazione».

Dipenderebbe, dunque, da tali caratteristiche strutturali la diversità fra gli esiti cui approda la decisione de qua e le conclusioni raggiunte da Cass., Sez. un., 27 settembre 2005, William Morales, in Cass. pen., 2006, p. 408, secondo cui il divieto di reformatio in peius non riguarda solo l'entità complessiva della pena, ma deve proiettarsi su tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione. In questa sede tale statuizione viene ribadita, ma delimitata nella sua portata applicativa: è destinata ad operare solo laddove il giudice dell'appello o del rinvio sia chiamato a pronunciarsi sulla «stessa sequenza di reati avvinti dal cumulo giuridico», ipotesi nella quale troverebbe una plausibile giustificazione «la preclusione a non rivedere in termini peggiorativi non soltanto l'esito finale del meccanismo normativo di quantificazione del cumulo, ma anche i singoli parametri di commisurazione di ciascun segmento che (lo) compone». Nelle evenienze in cui si registri una modifica nei termini o nell'ordine della sequenza, invece, l'unico elemento di confronto dovrà essere individuato nell'entità complessiva della pena, soglia che al giudice del gravame è precluso superare.

 

 


[1] Belluta, L'odissea del divieto di reformatio in peius: la parola torna alle Sezioni unite, in questa Rivista, 3 luglio 2013

[2] In questo senso, Romeo, Le Sezioni Unite sul divieto di reformatio in peius, in questa Rivista, 21 ottobre 2013,  commentando criticamente una decisione delle Sezioni unite (Cass., sez. un., 18 aprile 2013, Papola) ritenuta difficilmente compatibile con il dato normativo dell'art. 597 comma 4 c.p.p., là dove consente al giudice d'appello che abbia escluso una circostanza aggravante o riconosciuto una ulteriore circostanza attenuante in accoglimento dei motivi proposti dall'imputato di confermare la pena inflitta in primo grado, ribadendo il giudizio di equivalenza tra le circostanze, purché quest'ultimo sia accompagnato da adeguata motivazione.

[3] Cfr. Cass., sez. un., 11 aprile 2006, Maddaloni, in C.e.d. Cass., n. 233729.

[4] Cfr. Cass., sez. II, 15 febbraio 2012, Colturi, in C.e.d. Cass., n. 252482.

[5] Nell'ipotesi di mutamento della fattispecie più grave, già Cass, sez. VI, 16 giugno 2009, Buscemi, in C.e.d. Cass., n. 244793, sottolineava come venisse meno la stessa «unità ontologica della ritenuta continuazione, nella sua struttura costituita dal reato già individuato più grave e dai reati-satellite».