21 ottobre 2013 |
Le Sezioni Unite sul divieto di reformatio in peius
Cass. pen., Sez. un., 18.4.2013 (dep. 2.8.2013), n. 33742, Pres. Lupo, Rel. Siotto, ric. Papola
Non viola il divieto di reformatio in peius il giudice di appello che, pur escludendo una circostanza aggravante o riconoscendo una ulteriore circostanza attenuante in accoglimento dei motivi proposti dall'imputato, confermi la pena inflitta in primo grado, ribadendo il giudizio di equivalenza tra le circostanze, purché quest'ultimo sia accompagnato da adeguata motivazione.
1. Dov'è piana la lettera, non fare oscura glosa, ammonivano i giuristi medievali. Tradotto in termini attuali, il brocardo suggerisce agli interpreti di una norma di non inerpicarsi in percorsi insidiosi o fumosi, quando la sua formulazione letterale è chiara. Questa traduzione è leggibile anche nell'art. 12 disp. prel. c.c. che impone, nell'applicazione della legge, di non attribuire ad essa "altro senso che quello fatto palese dal significato delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore".
Per quanto è dato leggere nella sentenza che si annota, le Sezioni unite non pare abbiano tenuto conto di questa disposizione.
Nel caso qui sottoposto alla loro attenzione, il ricorrente era stato condannato in primo grado per spaccio di stupefacenti, previa concessione di attenuanti generiche equivalenti alla circostanza aggravante dell'ingente quantità e alla recidiva, alla pena di quattro anni di reclusione e 30.000 euro di multa; in appello la Corte aveva confermato la sentenza, pur escludendo l'aggravante citata, ma senza modificare il giudizio di comparazione delle circostanze.
Il ricorso, con il quale si era lamentata violazione del divieto di reformatio in peius, era stato rimesso alle Sezioni unite per la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale.
Venivano in applicazione, dunque, i commi 3 e 4 dell'art. 597 c.p.p., che così recitano:
"Quando appellante è il solo imputato, il giudice non può irrogare una pena più grave per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l'imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata né revocare benefici, salva la facoltà, entro i limiti indicati nel comma 1, di dare al fatto una definizione giuridica più grave, purché non venga superata la competenza del giudice di primo grado [quest'ultima parte oggi da leggere alla luce della giurisprudenza della Corte EDU - sentenza 11 dicembre 2007 in c. Drassich c. Italia - e di quella nazionale ad essa adeguatasi].
In ogni caso, se è accolto l'appello dell'imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione, la pena complessiva irrogata è corrispondentemente diminuita".
Mette conto anche ricordare, se non altro perché è citato più volte dalla sentenza, il comma 5 che dispone:
"Con la sentenza possono essere applicate anche di ufficio la sospensione condizionale della pena, la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale e una o più circostanze attenuanti; può essere altresì effettuato, quando occorre, il giudizio di comparazione a norma dell'articolo 69 del codice penale".
Il pendant del codice Rocco (art. 515) riportava una disposizione corrispondente al solo comma 3, in versione meno larga: vi figurava esclusivamente il divieto di irrogazione di una pena più grave per specie o quantità e di revoca di benefici.
Anche tenuto conto del raffronto tra i due articoli, la lettera della disposizione del codice in vigore non sembrava di particolare complessità interpretativa: se è accolto l'appello dell'imputato (s'intende, anche parzialmente) in ordine a circostanze, la pena complessiva deve essere comunque diminuita.
2. Nel caso di specie, l'appello era stato accolto per la parte relativa all'aggravante dell'ingente quantità, che era stata ritenuta insussistente, ma la misura della pena era rimasta inalterata.
Decisione, quindi, da censurare alla luce del riformulato divieto di reformatio in peius (art. 597 c.p.p.); le Sezioni unite, però, la ritengono corretta: possono essere escluse anche più aggravanti o concesse più attenuanti, ma la pena non necessariamente va diminuita. Basta che vi sia una motivazione sufficiente sul giudizio di comparazione e sparisce il divieto: lo esige, come conferma una successiva sentenza che si adegua al suo dictum (Cass., sez. III, 12 giugno 2013 n. 38015, inedita), la "innegabile autonomia e discrezionalità del giudizio di comparazione, che non sempre conduce ad attribuire un peso quantitativamente apprezzabile ad ogni elemento considerato, sicché un'alterazione dei termini in comparazione non comporta necessariamente una alterazione altresì del giudizio precedentemente espresso, non potendo trovare applicazione una logica rigidamente ed esclusivamente matematica", sicché "non può trovare spazio una «presunzione assoluta» della necessità di modifica del precedente giudizio implicante un'obbligatoria formulazione di un giudizio più favorevole da parte del giudice d'appello".
Almeno questo par di capire dalla lettura della pronuncia in commento.
Dunque, l'operazione delle Sezioni unite conduce a una sostanziale obliterazione della voluntas legis, non solo consacrata nella sua littera, ma anche chiaramente desumibile dalla Relazione al codice di procedura, attraverso un percorso logico di non agevole decifrabilità (Dio solo sa dov'è scritto che il giudice di appello è libero di calibrare ad libitum il giudizio di comparazione da riformulare a seguito del riconoscimento di un'attenuante o all'esclusione di un'aggravante, soprattutto là dove c'è una disposizione che gli impone di ridurre la pena complessiva in presenza di un simile evento).
3. A questo punto ci si può legittimamente interrogare - se la conclusione delle Sezioni unite fosse da ritenere corretta - su come si sarebbe dovuta altrimenti formulare, sul piano lessicale, la disposizione perché si potesse pervenire al risultato opposto, e cioè a quello di imporre la riduzione della pena in un caso come quello esaminato.
Sufficiente motivazione sul giudizio di comparazione: è fatto notorio che quasi mai essa è sufficiente, nel senso che dà conto del peso di ciascuna aggravante e di ciascuna attenuante nella valutazione che conduce a ritenere la loro equivalenza o la prevalenza delle une sulle altre. Già questo rilievo dovrebbe bastare a far comprendere come il principio affermato dalle Sezioni unite e formalizzato in sentenza, secondo il dictum dell'art. 173, comma 3, disp. att. c.p.p., sia estremamente fragile.
Ma si ipotizzi, per un attimo, che il giudice di primo grado abbia dato conto del peso assegnato alle circostanze, per ciascuna di esse indicando aumenti e riduzioni. In questo caso, esclusa dal giudice d'appello l'aggravante A, che comportava l'aumento di pena x, è conseguente che venga disposta l'eliminazione di quell'aumento. Questo è l'esatto significato dell'avverbio corrispondentemente adoperato dal comma 4 dell'art. 597 c.p.p.: ora, a voler ritenere irreprensibili le conclusioni delle Sezioni unite, ne dovrebbe derivare che neanche in un'eventualità del genere descritto si potrebbe far luogo alla riduzione di pena. L'esempio è didatticamente utile: l'assurdità del risultato dimostra quanto sia infondato l'assunto delle Sezioni unite, non potendo dipendere la diminuzione della pena complessiva dalla circostanza meramente occasionale di un'analitica indicazione, nella sentenza impugnata, delle varie componenti che contribuiscono a formarla, anziché di una generica qualificazione di "equivalenza" o "prevalenza" del giudizio di bilanciamento delle circostanze.
L'aveva già notato Cordero (Procedura penale, 1998, p. 1018): "L'art. 5974, infine, stabilisce che, accolto l'appello dall'imputato (o dal pubblico ministero a suo favore) rispetto all'aggravante o reato concorrente, venga ridotta la pena complessiva: se rimanesse qual era, saremmo davanti a una sottintesa reformatio in peius (risulterebbe accresciuta la pena-base o l'applicata al reato superstite); è aritmeticamente impossibile n = (n + p), dove p sia un numero diverso dallo 0".
Ecco perché la disciplina attuale non necessita di alcuna ulteriore precisazione per approdare a conclusioni opposte a quelle privilegiate dalla sentenza in commento.
Dinanzi a un sistema che consente al giudice di appello persino di concedere ex officio attenuanti e di infrangere il principio devolutivo, evidentemente pro reo e al fine di ridurre la pena (diversamente non avrebbe senso la norma), si fa fatica a ritenere corretta un'interpretazione come quella fornita dalla pronuncia in rassegna.
A sostegno di essa, infatti, sono evocati argomenti tutti controvertibili, incentrati soprattutto sulla libertà e discrezionalità del giudice d'appello, che non si vede come possano essere di ostacolo alla corrispondente diminuzione di pena che egli è obbligato a fare allorché esclude una o più circostanze aggravanti ritenute in primo grado (in tal senso già Montagna M., Divieto di reformatio in peius e appello incidentale, in Le impugnazioni penali - Trattato diretto da A. Gaito, Torino, 1998, p. 391).
È significativo notare, in proposito, che le stesse Sezioni unite, qualche mese dopo (sentenza 18 luglio 2013 n. 40354, in questa Rivista, con nota di chi scrive) hanno affermato che, mediante le circostanze aggravanti, "il legislatore attribuisce rilievo ad elementi che accrescono il disvalore della fattispecie e giustificano un trattamento sanzionatorio più severo [...] tali elementi, pur non concorrendo all'individuazione dell'offesa tipica, rilevano ai fini della definizione del grado di disvalore del fatto [...] si tratta di assicurare che l'incremento di pena sia proporzionato al grado dell'offesa o, in una prospettiva più ampia conformata sulle peculiarità della fattispecie aggravata, alle modalità dell'aggressione del bene protetto [...] una lettura di tale genere dovrà considerare i tratti, le finalità dell'aggravante e la portata del relativo trattamento sanzionatorio".
Ora, se ciò è vero, è del tutto elementare il rilievo che una condotta di detenzione a fini di spaccio di stupefacenti aggravata dall'ingente quantità riveste senza dubbio un disvalore sociale maggiore della semplice cessione di stupefacenti; ed è altrettanto ovvio che se, nell'ambito della medesima res iudicanda, il giudice di secondo grado esclude quella aggravante, ritenuta dal primo, la pena inflitta non può rimanere la stessa. Diversamente, verrebbero punite in modo identico condotte che sono oggettivamente di diversa gravità. Interpretare, in tal caso, il divieto di reformatio in peius nella chiave incomprensibilmente riduttiva della pronuncia in rassegna creerebbe probabilmente vulnus a più di un principio costituzionale.
4. In conclusione, le Sezioni unite segnano, con questa decisione, un passo indietro incomprensibile e sorprendente non solo rispetto all'esatta osservanza della legge che non sembrava potesse dare adito a dubbi, ma anche rispetto ai loro precedenti, pur evocati a sostegno della linea interpretativa prescelta, ripudiata anche dal Procuratore generale della Repubblica che aveva chiesto, in udienza, l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
Se, perciò, non è difficile pronosticare altri contrasti sul tema, risulta ardua la previsione sulla sorte di un'altra questione pendente dinanzi alle Sezioni unite, quella della violazione del divieto di reformatio in peius da parte del giudice di rinvio che, individuato il reato più grave ex art. 81, cpv. c.p. in conformità di quanto stabilito nella sentenza di annullamento della Corte di cassazione, apporti per uno dei reati in continuazione un aumento maggiore di quello applicato dal precedente giudice, pur non infliggendo una pena complessivamente più grave (Cass., Sez. IV, ordinanza, 20 maggio 2013 (ud. 23 gennaio 2013), n. 21603, in questa Rivista con nota di H. Belluta, L'odissea del divieto di reformatio in peius: la parola torna alle Sezioni Unite, 3 luglio 2013).
Il relativo ricorso era stato fissato per l'udienza del 26 settembre 2013, ma è stato rinviato a tempo indeterminato per la ritenuta opportunità di attendere l'esito della decisione che le Sezioni unite dovranno assumere all'udienza del 24 ottobre 2013 sul tema della linea di demarcazione tra le fattispecie di cui all'art. 317 c.p. e quella di cui al successivo art. 319-quater: decisione rilevante ai fini della sua definizione.
Scriveva Belluta, a commento dell'ordinanza di rimessione, che l'interpretazione dell'art. 597 c.p.p. avrebbe dovuto obbedire, nel caso evocato, ai principi del favor impugnationis e del favor rei, prevedendo, in relazione alla questione sollevata, una lettura in bonam partem del Supremo Collegio.
Giuste conclusioni; ma non si sa più se la prognosi sarà rispettata, perché le avvisaglie, a giudicare dalla lettura della sentenza in epigrafe, non sembrano delle più fauste.